La fine di un sogno, da Ventotene a Khartoum

La fine di un sogno, da Ventotene a Khartoum

di ADIF*

Non è vero che la Storia non serve.

La Storia, quella con la S maiuscola, ti rimanda in faccia tutte le contraddizioni di cui sei stato vittima, protagonista, carnefice o silenzioso esecutore.

Nel 1941, uomini al confino, oppressi da un regime, immaginavano una Europa unita e solidale, aperta e fondata su un socialismo senza autoritarismo. Quel manifesto di Ventotene è divenuto per molti retorica da convegnistica ma fa parte di radici da considerare come parte integrante di un cambiamento epocale, quello che ha impedito – ormai da oltre 70 anni – che il confine franco-tedesco fosse una barriera, che ha creato spazi di libera circolazione, che ha fatto prospettare un futuro diverso e senza guerre, complesso e conflittuale come ogni processo storico, ma proiettato verso una visione utopica e aperta che bandiva ogni nazionalismo.

Dopo 75 anni, le tre maggiori potenze rimaste, eredi della tradizione coloniale e dei suoi crimini, si sono ritrovate a oltraggiare quel luogo di sofferenza per trasformarlo in un surrettizio monumento imperiale. Dovevano discutere di tante cose Angela Merkel, Francoise Hollande e Matteo Renzi ma hanno trovato un minimo comune denominatore, non ancora ben siglato e definito ma pronto all’utilizzo: la negazione di ogni Convenzione internazionale che garantisca diritti fondamentali ai migranti.

E come accade quando si deve pagare un biglietto dal costo “maggiorato” per essere ammesso ai palchi più prestigiosi del teatro del precipizio europeo, il governo italiano ha immediatamente posto in essere una procedura infame, illegale, violenta e apparentemente inutile. 48 cittadini sudanesi emigrati in Italia, sfuggiti da un regime dittatoriale e liberticida, il cui presidente Omar Hassan Al Bashir è stato giudicato e condannato come colpevole di crimini contro l’umanità, sono stati rimpatriati senza possibilità di appello. Un dittatore che un tempo flirtava con Osama Bin Laden ma la memoria è breve e la realpolitik permette di dimenticare tutto questo. Dal Sudan da tempo si è affrancata una regione – il Sud Sudan – che ha dichiarato la propria indipendenza, proseguono le tensioni in Darfur e il resto del territorio è tutt’altro che in pace. Tanti gli oppositori politici in carcere, tanti i richiedenti asilo rimandati in Eritrea o in Etiopia, ma il Sudan è importante per bloccare i migranti in fuga verso l’Europa. Non a caso alcuni percorsi che hanno portato al rafforzamento di legami fra Unione Europea e regimi africani si sono consolidati nel cosiddetto Processo di Khartoum, siglato a Roma nel 2014, non a caso i rapporti con questo regime si sono fatti nei mesi scorsi più stretti. Incontri ad alto livello fra funzionari dei ministeri dell’interno di Sudan e Italia, l’impegno della nostra ambasciata a Khartoum, la firma raffazzonata di un accordo per fare giungere in Italia agenti sudanesi che dovranno identificare i migranti da rimpatriare, un Memorandum d’intesa (MOU) non sottoposto ad alcuna approvazione parlamentare, sono passaggi che rientrano nel Migration Compact di cui spesso abbiamo parlato. L’obiettivo non è “soltanto” quello di rimandare in Sudan le persone che cercano di fuggire dall’Italia passando per Ventimiglia e senza chiedere asilo per non rimanere intrappolati in Italia o perché non adeguatamente informati. L’obiettivo reale è quello di consolidare le relazioni, elargire risorse in maniera tale che il grande paese africano possa dotarsi di centri di detenzione per chi fugge dal Corno d’Africa o dagli Stati Sub Sahariani. Si tenta di spostare ancora più a sud i confini, rendere ancora più impermeabile l’esternalizzazione delle frontiere, certi che il “lavoro sporco” lo si possa lasciar fare a quelli che fino a ieri si chiamavano “Stati Canaglia”. I 48 migranti rimpatriati coattivamente e riaccompagnati a Khartoum dopo “espulsioni dirette”, come ha detto il capo della polizia Gabrielli, ma passando per Il Cairo (capitale di un altro “Paese sicuro”), hanno la duplice valenza di essere monito per gli altri cittadini sudanesi che “disturbano” i confini interni europei, e credenziale per una collaborazione fruttuosa che il governo Renzi potrà spendere al tavolo delle trattative europee. “Noi rimpatriamo, ora dateci più soldi e prendetevi più profughi” sembra dire il Presidente del Consiglio ai propri omologhi. Poco importa che in questa maniera, tanto nelle modalità (la caccia all’uomo notturna e la negazione del diritto effettivo alla difesa), quanto nel merito (il livello di garanzia di tutela dei diritti umani del paese in cui si deporta), si violino buona parte delle convenzioni internazionali e si rendano vani gli articoli 3, 10, 13 e 24 della Costituzione italiana. Del resto soldi ai paesi terzi che collaborano e mercificazione delle persone da rimpatriare come moneta di scambio sono l’architrave su cui poggia l’intero impianto del Migration Compact, proposta italiana ricopiata sui programmi di Bruxelles, e subito accolta, uno degli ultimi elementi rimasti ad accomunare gli interessi dei 27 paesi UE, che continuano però a litigare sui costi delle operazioni di quello che chiamano “contrasto dell’immigrazione irregolare”.

In questo scenario la politica italiana, anche la migliore, le istituzioni, anche quelle apparentemente più pronte a recepire istanze meno mercantili, hanno mostrato di essere sorde o peggio ancora ostili.

Da molto tempo diciamo che ci si è incamminati in un percorso senza ritorno in cui anche chi tace o mostra voce troppo flebile è di fatto connivente e complice.

Questi anni passeranno alla Storia, se ci sarà una Storia da raccontare, come accadde nel 1941 a Ventotene, ma in senso contrario. Come sogno rinnegato, come utopia fallita. Che soltanto pochi parlamentari abbiano osato presentare una interrogazione avverso la deportazione illegale in Sudan del 24 agosto è sintomatico. Che l’evento – finito sotto silenzio non solo per l’emergenza del terremoto –non abbia prodotto che l’indignazione e l’azione di pochi è un ulteriore pessimo segnale. Ci sentiamo totalmente solidali con coloro che, rischiando in prima persona, hanno tentato di bloccare la partenza dei profughi dall’aeroporto di Malpensa (per evitare problemi, chi ha dato gli ordini per l’operazione aveva già nel frattempo deciso di far avvenire il decollo da Torino). Hanno subito un processo per direttissima in quanto accusati di resistenza a pubblico ufficiale ma ora sono liberi. In udienza hanno parlato del regime sudanese, quello in cui erano appena stati rispediti i profughi. Hanno detto quello che molti altri (ma per fortuna non tutti), dal loro seggio parlamentare, si sono ben guardati di affermare. Forse erano ancora in vacanza.

Probabilmente dovremmo imparare a poter contare solo sul sostegno dei cittadini solidali, coloro che da tempo subiscono continuamente intimidazioni e minacce, fogli di via e indagini in nome del fatto che hanno soccorso chi aveva bisogno. Le deportazioni prive di qualsiasi parvenza di legalità e gli attacchi repressivi verso chi non si rassegna saranno con tutta probabilità la cifra narrativa del prossimo autunno. Ne stiamo solo respirando i primi sentori, ne vediamo ad oggi solo i primi effetti.

Sarebbe importante che, al di là delle tante differenze, distanze, antiche insofferenze che affliggono da sempre il mondo di chi non accetta questo ordine mondiale, si riesca a riannodare i fili, a lavorare insieme, a mettere in comune le energie.

Il nemico sta da un’altra parte e non possiamo permetterci il lusso di dimenticarlo.

*Associazione Diritti e Frontiere (www.A-DIF.org)


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