Venezuela, le destre cavalcano la crisi energetica

Venezuela, le destre cavalcano la crisi energetica

di Geraldina Colotti

Il Venezuela è al lumicino e a ridurlo così è stato il presidente Nicolas Maduro? L’ex autista del metro è responsabile anche dei cambiamenti climatici ? Il suggerimento dei grandi media privati, in loco e all’estero, è palese.

La grave crisi energetica che ha colpito il paese, sarebbe la conseguenza di scelte scellerate del governo bolivariano. E l’azione di El Niño – che la Nasa ha definito il più devastante fenomeno naturale mai registrato – avrebbe un’incidenza trascurabile: anche se la siccità ha quasi prosciugato il bacino della centrale idroelettrica di Guri, che produce il 70% dell’elettricità nazionale ed è il secondo più grande dell’America latina. Anche se, ancora in questi giorni e in diverse occasioni nei mesi scorsi, diverse persone sono morte o sono rimaste ferite nel tentativo di sabotare i tralicci: in un punto di fragilità com’è quello della rete elettrica, gli “apagones” provocati (i black out) sono, e non da oggi, un’arma di pressione per provocare scontento e danni.

El Niño, il cui effetto è esacerbato dall’accelerazione dei cambiamenti climatici, produce alternanza di alluvioni e siccità, e ha già portato grossi disastri in molti paesi dell’America latina. Per lo straripamento dei fiumi, dagli ultimi mesi del 2015 a oggi, oltre 200.000 persone sono rimaste senza riparo. Il Perù ha dichiarato l’emergenza nazionale. In Costa Rica, negli ultimi due anni si è avuta la siccità più forte mai registrata dal 1930, con conseguenze pesanti in tutta l’attività economica del paese.

Già a ottobre del 2015, la Fao ha lanciato l’allarme per gli effetti di El Niño sulla semina che, da allora, ha provocato emergenze alimentari in 34 nazioni: dall’Africa all’America latina e ai Caraibi, dalle Filippine all’Indonesia. Per le devastanti siccità, molti governi latinoamericani hanno cercato di proteggersi dalla crisi energetica riducendo la giornata lavorativa o le ore di consumo. Nel 2014, lo ha fatto il Nicaragua. Nel 2015, il Panama ha chiuso in anticipo gli uffici. Nel 2016, la Colombia ha deciso un risparmio energetico tra il 5 e il 10%. E l’Argentina del neoliberista Macri, a dicembre del 2015 ha dichiarato l’emergenza energetica fino al 2017 perché la rete elettrica è al collasso.

In Venezuela, il governo Maduro, dopo aver accorciato la settimana lavorativa degli impiegati pubblici, decretando il venerdì giorno feriale, in questi giorni ha chiesto ai lavoratori del settore pubblico di stare a casa anche per altri due giorni. Oltre ai salari – quelli degli impiegati pubblici hanno visto nei mesi scorsi un aumento del 20% – verranno mantenuti i servizi essenziali. La misura dovrebbe durare 15 giorni. Un piano di razionamento, previsto per 40 giorni, interessa invece soprattutto le zone residenziali, che consumano il 63% dell’energia. Ogni giorno, il servizio elettrico verrà sospeso per 4 ore. Intanto, nelle scuole, nei locali pubblici e in televisione, vengono diffusi opuscoli che invitano a un uso razionale dell’acqua e della luce, intitolati “El Niño non è un gioco, prendilo sul serio”.

Già nel 2010, quando governava Hugo Chavez, era stata dichiarata l’emergenza nel settore. Durante il secolo scorso, El Niño ha provocato gravi danni al Venezuela. Nella novella Caracas sin agua, Gabriel García Márquez ha raccontato gli effetti di una delle peggiori siccità sulla vita della capitale, nel ’58. La serie nera prosegue ora nel settimo periodo più secco degli ultimi 60 anni.

Per l’opposizione, però, questa è l’ultima bomba a tempo che può scoppiare nelle mani di Maduro. Sono riprese le violenze e le devastazioni delle strutture pubbliche. Nello stato Zulia, uno dei più ricchi, il governatore Arias Cardenas, chavista, ha reso pubblico un primo bilancio dei danni provocati a oltre 70 locali commerciali e si è impegnato a risarcire i commercianti in una pubblica riunione. E 103 persone sono state arrestate. L’auto di un altro governatore è stata presa a raffiche di mitra. Il governo ha invitato i lavoratori del settore elettrico (controllato dallo stato dal 2007) a vigilare contro i tentativi della destra di rovesciare il governo creando una situazione simile a quella degli scontri violenti del 2014.

In questi giorni, il Consejo Nacional Electoral ha consegnato all’opposizione i moduli per avviare la procedura di revoca al presidente Maduro, possibile a metà mandato per tutte le cariche elette. Per chiedere un referendum occorre raccogliere le firme dell’1% degli aventi diritto, ossia circa 195.721 su 19.572.100. Per convocare un referendum, occorre raccoglierne non meno del 25% (4.893.025), ma per arrivare alla revoca il totale dev’essere superiore al numero di voti ottenuti da Maduro nel 2013, ovvero 7.505.338. Il tutto certificato da impronte e documenti, che poi il Cne dovrà verificare. Se però nel frattempo, a Maduro rimangono due anni di governo, il timone passa al vicepresidente Aristobulo Isturiz, che terminerà il mandato senza indire nuove elezioni. Per questo, l’opposizione vuole fare in fretta e, avendo la maggioranza in Parlamento, ha approvato una legge con effetto retroattivo per ridurre di metà il mandato del presidente. E ora accusa il governo di voler fare melina, approfittando della crisi energetica e della chiusura degli uffici.

Che il Venezuela non funzioni come un orologio svizzero, è un fatto, trattandosi di un paese in via di sviluppo. Né si può pensare che l’esperimento chavista – che ha scommesso di rinnovare lo stato basandosi sul consenso e non sulla messa fuori legge delle classi dominanti – abbia scelto un cammino facile, esente da errori e da approssimazioni. Lo sviluppo intensivo delle infrastrutture, comunque vincolato a un punto cardine del programma di governo – l’ecosocialismo – e al rispetto delle ferree norme del lavoro per le grandi imprese internazionali, è stato rimandato per risolvere prima problemi drammatici e urgenti (cibo, casa, terra, educazione, sanità..): per saldare, cioè, l’enorme “debito sociale” contratto con i settori meno favoriti durante gli anni del neoliberismo, imperante nella IV Repubblica.

Quando, nel 1998, Chavez ha vinto le elezioni (con un ampio margine di consensi e a capo di un’alleanza di sinistra e nazionalista mossa da scontento e proposte), il 70% viveva in povertà, oltre il 20% in povertà estrema, la maggioranza delle popolazioni indigene non votava e non era censita, il tasso dell’analfabetismo, dell’inflazione e della violenza, raggiungevano livelli stellari. Basta ripercorrere gli indicatori statistici di allora: a parte una ristrettissima cerchia di persone, che controllava affari e risorse, la stragrande maggioranza della popolazione non stava certo meglio di adesso.

Il Venezuela socialista ha consentito l’accesso al consumo a vasti strati che prima ne erano esclusi, favorendo anzi la corsa al consumismo e all’accaparramento e diventando uno di primi consumatori di cellulari e nuove tecnologie del continente. Un boom che ha pesato anche sulla rete elettrica, rendendo inadeguati i tentativi di ammodernamento. Nonostante la drastica caduta del prezzo del petrolio, il Venezuela continua a destinare oltre il 70% delle entrate ai programmi sociali.

L’intensificarsi dei sabotaggi e della crisi economica con la morte di Chavez e la vittoria – di stretta misura – di Maduro sull’avversario di destra, Henrique Capriles Radonski, hanno però rallentato alcuni investimenti cardine nel settore. La centrale di Tocoma, sempre nel sud, che avrebbe generato la metà dell’energia che oggi produce l’idroelettrica Simon Bolivar, nell’omonimo stato, colpita ora dalla siccità, è rimasta incompiuta. E ha pesato anche la corruzione che ha prodotto un’emorragia di fondi pubblici verso fini privati.

Intanto, mentre le destre intensificano la campagna internazionale, le sinistre e i movimenti denunciano il golpe istituzionale che, dal Brasile al Venezuela, riprende un format utilizzato in precedenza contro Manuel Zelaya in Honduras e contro Fernando Lugo in Paraguay. Ieri, il capo dell’Osa, Luis Almagro, ha incontrato i vertici dell’opposizione e ha già fatto sapere che, contro il governo è pronto ad approvare la Carta democratica per sospendere il Venezuela dall’Osa.

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Tajeldine: «Allarme eccessivo per attaccarci, il Venezuela ce la farà»

di Geraldina Colotti

Basem Tajeldine è un analista politico venezuelano specialista in questioni mediorientali e proveniente dal Partito comunista venezuelano, formazione che ha scelto di non sciogliersi nel Partito socialista unito del Venezuela, ma di appoggiare il chavismo nella coalizione Gran Polo Patriottico.

Una voce ascoltata e radicale, che nei suoi interventi evidenzia senza infingimenti le principali criticità del socialismo bolivariano.

Crisi alimentare, crisi politica, crisi energetica. Secondo le destre e i grandi media l’esperimento bolivariano ha fallito e il governo è al lumicino. E’ così?
No, le cose non stanno così. Intanto, non è vero che la diminuzione della settimana lavorativa per gli impiegati pubblici abbia significato un abbassamento del salario. La politica del governo va in tutt’altro senso, i lavoratori e i settori popolari sono al centro delle preoccupazioni politiche, il piano d’emergenza economica deciso dal presidente prevede il rilancio della produzione nazionale e quello della sovranità produttiva: perché il nostro problema principale resta la dipendenza dal petrolio, il fatto di essere un’economia ancora troppo basata sulla rendita. Ora il prezzo del barile si sta leggermente riprendendo e questo ridà un po’ di fiato all’economia, ma il problema principale resta l’alta inflazione che fa lievitare anche i prezzi degli alimenti: un problema che viene da lontano e che è amplificato dall’azione destabilizzante del mercato parallelo del dollaro. Nel sito principale che ne dà conto, Dolar Today, un dollaro è uguale a 1.000 bolivar… Intanto, assistiamo a una fortissima pressione delle grandi istituzioni internazionali per rimettere le mani sulle nostre ricchezze. Le agenzie di rating aumentano la qualificazione del rischio, in modo da imporre pagamenti anticipati e in contanti e altissimi tassi di credito quando dobbiamo acquistare tecnologia o prodotti. E’ un’aggressione generale all’America latina e alle alleanze solidali costruite in questi anni, che hanno avuto ed hanno al centro il Venezuela: un “pericoloso” esempio da stroncare. Dal Medioriente al nostro continente, il problema per l’imperialismo resta quello di appropriarsi delle risorse e le strategie adoperate per riuscirci si assomigliano, fatte le debite differenze di contesto. Una delle tattiche principali, attuata con il supporto dei grandi media, è quella di creare allarmi e discredito per giustificare sanzioni e ingerenze e indurre la popolazione ad allontanarsi dal socialismo.

Lei dice spesso, però, che cercare le colpe unicamente nel campo avverso non è un buon esercizio: il chavismo, che ha puntato tutto sul consenso, ha perso le elezioni del 6 dicembre e ora, secondo alcune inchieste, le destre potrebbero vincere anche il referendum revocatorio.
L’opposizione, di certo, ha fatto campagna utilizzando l’esasperazione della popolazione, da lei stessa provocata con la guerra economica. Detto questo, il chavismo ha lasciato anche spazio alla destra endogena, alla corruzione, alla spettacolarizzazione della politica da parte di certi dirigenti che hanno perso il polso della situazione reale. La macchina del partito dev’essere separata da quella dello stato, altrimenti si creano burocratismi e corti circuiti e anche il partito si disintegra. Questo, ora, è diventato molto chiaro e il rinnovamento è stato assunto in pieno a tutti i livelli della militanza e del partito. Ci sono stati molti arresti di corrotti e non si è guardato in faccia a nessuno. Il problema è che, in tutti questi anni di attacchi a Maduro, non c’è stato modo di spingere a fondo su quel rinnovamento che Chavez ha definito Golpe de Timon, ma la capacità di reazione dei settori popolari è sempre molto forte, il nostro è un popolo cosciente e maturo che non vuole cedere.

fonte: il manifesto


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