Piero Gobetti su Gramsci e i comunisti torinesi

Piero Gobetti su Gramsci e i comunisti torinesi

Nel 90° anniversario della morte di Piero Gobetti, morto esule a Parigi a soli 24 anni per i postumi delle percosse ricevute dai fascisti, riproponiamo due articoli che dedicò ai comunisti torinesi e a Gramsci sulla sua rivista La Rivoluzione Liberale. 

STORIA DEI COMUNISTI TORINESI

Scritta da un liberale

Torino, Agnelli e il movimento operaio.

      Il movimento comunista. torinese negli anni 1918-1920 si presenta con un’organicità di pensiero e una serietà di intenzioni che suscitano meraviglia e interesse anche in un avversario. Vi è una rigidezza che, per l’intransigenza, è diventata quasi un mito nel pensiero di chi l’ha considerata da lontano. In realtà dall’esperienza politica torinese è nato il Partito Comunista e se ne possono rintracciare i documenti di tre anni almeno antecedenti alla costituzione ufficiale. Ragioni storiche complesse hanno fissato al movimento operaio torinese caratteristiche originalissime con conseguenze di importanza storica eccezionale.

     Per gli sforzi operosi di un nucleo intelligente di capitani d’industria (i soli che abbiano diritto a chiamarsi borghesi nel senso economico della parola) allo scoppiare della guerra europea c’era a Torino, almeno inizialmente, una vera industria moderna. La guerra intensificò il lavoro: per opera di Giovanni Agnelli, un solitario eroe del capitalismo moderno, si venne creando una delle più solide forze industriali del nostro Paese: le officine Fiat-Centro da cui l’attività cittadina ritrasse nuova fisionomia.

     “Si tratta – per dirla con uno scrittore comunista – di un gigantesco apparato industriale che corrisponde a un piccolo stato capitalista, che è un piccolo stato capitalista e imperialista, perché detta legge all’industria meccanica torinese, perché tende, con la sua produttività eccezionale, a prostrare e ad assorbire tutti i concorrenti: un piccolo stato assoluto che ha il suo autocrate”. L’importanza delle officine Fiat-Centro trascendeva la mera importanza tecnica ed economica che avevano, a mo’ d’esempio, gli stabilimenti Ansaldo o Ilva, per produrre e affermare una situazione specificamente politica. L’industria moderna per eccellenza, l’industria modello si sviluppava in una città e creava una nuova psicologia del cittadino. Torino diventò negli anni di guerra la città per eccellenza dell’industria: di un’industria aristocratica accentrata, attraverso una formidabile selezione di spiriti e capacità, nelle mani di pochi uomini geniali, di un’industria specializzata sino a diventare funzione indispensabile e prima cellula di un organismo economico che ampliandosi a tutta la nazione doveva darle la sua personalità di Stato moderno. (L’antitesi con Milano non poteva essere più netta: Milano commerciale di fronte a Torino industriale, Milano liberisticamente frammentaria di fronte a Torino, organismo iniziale). L’accentramento industriale creò l’accentramento operaio. La selezione degli spiriti direttivi promosse e determinò la selezione delle intelligenze operaie, la specializzazione della mano d’opera.

     Questa cooperazione tecnica non doveva creare illusioni nel giudizio delle conseguenze politiche.

     Il capitalismo organizzandosi secondo la sua estrema logica ideale – con un processo che poteva infine, apparentemente, dar ragione a Marx – costringeva il movimento operaio a raccogliersi intorno alle sue premesse ideali, a organizzarsi intorno al suo centro pratico e lo aiutava direttamente ad esprimere la logica di sé stesso.

     I vecchi miti della socialdemocrazia italiana e straniera, le formule intellettualisticamente dedotte dal Capitale o dagli altri testi socialisti (fragili conseguenze astrattamente rivoluzionarie o riformiste a seconda dei temperamenti che le rivivevano) caddero di fronte alla moderna esperienza. Alla visione politica di chi li accettava restò il dilemma tra la confusa agitazione demagogica (Bombacci) o il pauroso ripiegamento retrivo del riformismo (Treves, Modigliani).

     Chi presentì invece le nuove esigenze e si avvicinò alle classi popolari per studiarle, ne avvertì la struttura essenzialmente mutata. S’affermavano ormai, qua e là, vigorose minoranze operaie che, conquistata una coscienza di classe, ne deducevano con logica sicura la propria posizione pratica di lotta. L’ideale di una classe operaia aristocratica, conscia della sua forza, capace di rinnovare con sé stessa il mondo – quale era balenato alla lucida visione storica di Marx e di Sorel che al disopra delle equivoche costruzioni pseudo-economiche costituiva il loro pensiero più profondo – trovava il punto concreto in cui inserirsi fecondamente per lo sviluppo della vita italiana.

     La specializzazione quasi tayloristica del lavoro dava all’operaio la coscienza della sua necessità. Contro il piatto ideale pseudo-americano di un lavoro ridotto a meccanica, complesse esigenze di produzione, facendo partecipare un nucleo sempre più numeroso di eletti al segreto e alla difficoltà del lavoro creativo, generavano nel salariato una oscura coscienza di aristocraticità e di idealismo che si traducevano in un bisogno di potere.

     Così si incontravano i due momenti della civiltà moderna nel culmine più perfetto del loro tormentoso ascendere. Intorno a queste eroiche figure di dominatori (operai, industriali, intraprenditori) si raccoglieva la massa e dava alimento e universalità al cozzo fecondo. La città divenuta centro delle aspirazioni e della vita che la circondano obbliga gli immigrati (operai manuali, piccoli borghesi commercianti) ad accettare il loro posto di combattimento, tra le opposte esigenze che si contrastano e di cui solo i migliori hanno la direzione e la conoscenza.

     Di fronte all’Italia, indifferente a questo processo turbinoso e troppo celere, pare che a Torino debba incombere un’altra volta il compito di riconquistare la penisola.

     La teoria di questa nuova realtà economica e ideale fu tentata da un gruppo di giovani oscuri che l’Italia ufficiale non ha conosciuto e non conosce. Essi elaborarono dall’esperienza politica a cui assistevano l’idea di un organismo che sistemasse tutti gli sforzi produttivi legittimi, che aderisse plasticamente alla realtà delle forze storiche ordinandole liberamente in una gerarchia di funzioni, di valori, di necessità. Il consiglio di fabbrica, nel quale le esigenze del risparmio, dell’intrapresa, dell’opera esecutrice, si organizzano secondo le attività che ciascuna riesce a risvegliare, fu la loro idea nuova ed operosa, intorno a cui cercarono di raccogliere il movimento operaio e di dargli una personalità.

     Accanto e contro la loro caratteristica esperienza torinese si determinava intanto una nuova situazione internazionale che svegliava altri ideali, altre antinomie e li costringeva alla risoluzione di nuovi problemi di tattica, di teoria, di psicologia popolare. Contemporanea con la situazione rivoluzionaria torinese insomma (ma per nulla coincidente con essa) si rivelava una situazione rivoluzionaria internazionale, fatta di aspirazioni messianiche insoddisfatte, di miseria e di impotenza. Questi astrattismi e queste illusioni appunto prevalsero nella maggioranza dei proletari italiani. Il mito dei teorici del consiglio di fabbrica torinese si spezzò perché essi non seppero risolvere il problema politico delle relazioni tra il loro movimento rivoluzionario concreto e la confusa incertezza degli impulsi nascosti dominanti le altre masse popolari della nazione.

Gramsci e “Il Grido del Popolo”.

     Se si vuole penetrare nelle intime caratteristiche di cultura e di psicologia della minoranza direttrice dei comunisti torinesi bisogna risalire alla storia del giornalismo socialista di qualche anno addietro.

     Allo scoppio della guerra europea il socialismo torinese appariva piatto e grossolano, come nelle molte altre città provinciali. Invece di una politica idealistica, capace di esercitare una qualche influenza educatrice sulle masse, invece di organizzare le idee, alla peggio, intorno all’astratta ma pur sempre generosa bandiera dell’internazionalismo, i più professavano, prendendolo a prestito dai giolittiani un gretto neutralismo, arido, senza motivi spirituali, utilitarista, più o meno giustificabile in una mentalità di governo, ma ripugnante in un partito di masse. La mancanza di idealità corrispondeva alla mancanza di un nucleo di dirigenti colti e operosi.

     In mezzo a quest’inerzia di pensiero fu notato un giovane solitario, Antonio Gramsci, il quale già mentre compiva i suoi studi letterari all’Università, si era iscritto al Partito Socialista, forse più per ragioni umanitarie, maturate nella sua pessimistica solitudine di sardo emigrato, che per una netta concezione rivoluzionaria. Il Gramsci non tardò tuttavia a formarsi una cultura politica e, nonostante la sua riluttanza e timidezza, Serrati, con notevole perspicacia, lo volle collaboratore e corrispondente politico dell’Avanti! da Torino.

     Più tardi, nella pagina del giornale dedicata alla vita torinese, il Gramsci si affermò come formidabile polemista di argomenti sociali e letterari; ebbe uno stile suo, feroce, incalzante, serenamente distruttore, di una dialettica rudezza cui il giornale socialista non era uso. Molti tra i suoi scritterelli Sotto lo Mole, e alcune recensioni teatrali dello stesso tempo meriterebbero di essere raccolti e ne verrebbe un libro originale che nella letteratura moderna italiana, così povera di opere polemiche di stile, definirebbe una nuova personalità di scrittore. Ma Gramsci ha dimenticato questi scritti antichi e sorriderebbe sentendoli ricordare.

     La sua nuova attività di teorico della rivoluzione comincia con la sua opera nel Grido del Popolo. Il modesto giornaletto di propaganda di partito diventò per lui una rivista di cultura e di pensiero. Vi pubblicò le prime traduzioni degli scritti rivoluzionari russi. Si propose l’esegesi politica dell’azione dei bolscevichi. A capo di quest’opera, benché direttore apparente fosse altri, si sente il cervello di Gramsci. La figura di Lenin gli appariva come una volontà eroica di liberazione: i motivi ideali che formavano il mito bolscevico, nascostamente fervidi nella psicologia popolare, dovevano costituire non il modello di una rivoluzione italiana, ma l’incitamento a una libera iniziativa operante dal basso.

     Le esigenze antiburocratiche della rivoluzione italiana erano già state avvertite dal Gramsci sin dal 1917 quando il suo pensiero autonomista si concretò in un numero unico La Città futura, pubblicato come modello e annuncio di un futuro giornale di cultura politica operaia.

L’Ordine Nuovo.

     La Città futura diventò nel 1919, L’Ordine Nuovo, il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia apparso (con qualche serietà ideale) in Italia. Nell’Ordine Nuovo il tragico dissidio di ogni azione politica italiana – ineluttabilmente incerta tra una tendenza autonomista e una tradizione riformista (Mazzini e Cavour) – si avvertì sin dai primi numeri. Gramsci non era più solo. Dei tre condirettori: Tasca, Togliatti e Terracini, questi ultimi non avevano ancora un pensiero rivoluzionario preciso e si decisero poi. (Il temperamento di Terracini è di politico più che di teorico. Non l’interessa l’elaborazione della teoria se non come interessa a Lenin (strumento di azione). Decise quando l’ora fu matura, serenamente, e l’essersi schierato col Gramsci, l’aver combattuto Serrati, dimostra quanto lucidamente egli vedesse, da pratico, la questione del socialismo italiano. È antidemagogico per sistema, aristocratico, contrario alle violenze oratorie, ragionatore dialettico, sottile, implacabile, fatto per la polemica e per l’azione perché trovando il mito nella realtà non si preoccupa tanto di chiarirlo quanto di adeguarlo alle sue intenzioni. Certo non vorremmo che ci si nascondessero i pericoli di questo machiavellismo: Togliatti non ha avuto ancora responsabilità direttive nell’azione, è tratto alla politica da una solida preparazione, ma si trova in lui una inquietudine, talvolta addirittura un’irrequietezza che pare cinismo ed è indecisione, dalla quale ci si devono aspettare forse molte sorprese e che ad ogni modo deve indurre a una certa sospensione di giudizio).

     Il dissidio scoppiò tra il Gramsci e il Tasca e portò il Gramsci a una posizione dominante, rivelando in lui il solo uomo maturo per i nuovi problemi. Angelo Tasca, che ora è segretario dell’Alleanza Cooperativa torinese, posto di fiducia che egli solo può mantenere perché è il solo comunista che non abbia l’odio intransigente dei socialisti, veniva al movimento politico da una educazione prevalentemente letteraria, e con mentalità di propagandista di coltura o di apostolo democratico. Amico del Gramsci, egli non ne aveva seguito l’evoluzione specifica di pensiero. Collaboratore per simpatia e per ardore di propagandista, pensava L’Ordine Nuovo come una rivista di idee che riprendendo Antonio Labriola si riproponesse il problema storico della revisione del marxismo e la storia del movimento intellettuale italiano. Cominciò con una serie di studi su Louis Blanc; e volse il suo interesse al problema della piccola proprietà con atteggiamenti sentimentali quasi piccolo-borghesi: qualcosa di turatiano, di patriarcale rimaneva nel suo pensiero. Socialismo di un letterato, di un messianico che concepiva la redenzione delle masse come palingenesi illuministica e alla civiltà moderna sovrapponeva un suo sogno angusto di virtù operaia piccolo-borghese, che nascesse e si alimentasse di abitudini patriarcali, di una tranquillità raccolta nella casa-giardino. È notevole il fatto che egli sia riuscito a liberarsi poi da queste ideologie e nel suo fervore e nella sua letteratura abbia saputo ritrovare una forte capacità tecnica di azione pratica e amministrativa: criticando il suo temperamento politico bisogna rendergli questa giustizia. Dopo i primi mesi durante i quali L’Ordine Nuovo visse una vita esteriore e sterile (le sole cose vive erano alcune brillanti cronache colturali dovute al Togliatti) il Gramsci impose la sua originalità di teorico richiamando l’attenzione dei compagni al problema dei Consigli di fabbrica.

     I quali dovevano essere nel suo pensiero i quadri del nuovo Stato operaio, e nel periodo di lotta violenta i quadri dell’esercito rivoluzionario: alle astratte propagande si trattava di sostituire un’azione concreta – gli operai dovevano abituarsi a una reale disciplina e a un cosciente esercizio d’autorità, dovevano acquistare, a contatto coi loro organismi di lavoro, una mentalità di produttori e di classe dirigente. Se nella fabbrica si svolge la vita operaia, nella fabbrica si devono organizzare gli operai per resistere di fronte agli industriali. Il nuovo Stato che non sorge più in nome degli astratti diritti e doveri del cittadino, ma secondo l’operosità dei lavoratori, deve aderire plasticamente agli organismi in cui la loro attività si svolge e di qui attingere la conoscenza dei loro bisogni, l’esame dei loro problemi.

     Comunque si debba giudicare della validità pratica di tali formule, questa era finalmente una concezione rivoluzionaria, di fronte a cui tutto il bagaglio di astrattismo e di riformismo doveva cadere. Il sindacalismo di Tasca, che accettava i Consigli per attribuirvi lo stesso valore dei Sindacati, si rivelava inadeguato alla nuova coscienza operaia che bisognava instaurare. Tasca trionfò, per un istante e per un equivoco, nel consiglio camerale, ma dovette lasciare L’Ordine Nuovo e rimanere estraneo ai nuovi esperimenti di lotta di classe.

     La rivista diventò il centro a cui affluirono i nuclei più coscienti dei proletari, che ne attesero la parola d’ordine nelle lotte più gravi, nei momenti più incerti. L’occupazione delle fabbriche e la campagna elettorale per la conquista del comune furono gli episodi culminanti: ma contro l’azione della nuova aristocrazia stava il peso morto dell’eredità socialista, l’incapacità dei dirigenti confederali, gli ideali utilitaristi delle masse, lo spirito reazionario (riformista) dei contadini venuti al partito, la vigliaccheria degli arrivisti: e in questo dissidio, che è assai degno di essere studiato più profondamente, il movimento si confuse sino a perdere la sua capacità risolutrice.

Il Consiglio di fabbrica.

     Per tutto l’anno 1920 il Consiglio di Fabbrica fu il centro dell’attività rivoluzionaria, il problema intorno a cui si distinsero le varie sfumature del movimento operaio, l’organo della lotta contro le organizzazioni industriali. Mentre queste, seguendo esigenze locali, si mostravano fortemente battagliere e si sentivano moralmente e intellettualmente alla testa del movimento industriale della nazione, gli scrittori dell’Ordine Nuovo capivano di non poter resistere coi vecchi principi di comuni discussioni sindacali, di non poter aderire alla tattica meramente economica della Confederazione generale del Lavoro quando il movimento impegnava la personalità degli interessati integralmente: la lotta generale doveva avvenire su un fronte unico di azione. Come questo pensiero si elaborasse, come si svolgessero le discussioni preliminari tra fautori e avversari dei Consigli di fabbrica, il lettore può vedere in un libro di M. Guarnieri: I Consigli di Fabbrica, (Il Solco, Città di Castello, 1921). (Il Guarnieri ha tendenze riformiste e per conservare un atteggiamento di imparzialità si appaga di un eclettismo alquanto confuso. Chi non abbia seguito il movimento a Torino sui giornali locali non può attingere dal libro un criterio che rechi luce sulle sfumature della lotta e ne indichi i punti culminanti. La compilazione è tuttavia interessante perché raccoglie alcuni documenti notevoli).

     Il dissidio teorico e pratico ha, come avvertimmo, caratteristiche schiettamente torinesi e corrisponde a condizioni di più raffinato progresso tecnico e di più viva comprensione dei rapporti politici delle classi sul terreno della produzione. Nell’agosto del 1919, quando già il Gramsci aveva posto chiaramente la sua tesi nella rivista settimanale, Ordine Nuovo, alcuni gruppi di operai della Fiat-Centro, coi quali il movimento intellettuale comunista era in intimo rapporto di discussione e di collaborazione, pensarono di creare i nuovi organismi di lotta e di organizzazione proletaria movendo da un’istituzione preesistente: le Commissioni interne. Queste, sorte da parecchi anni a Torino, senza notevoli opposizioni da parte degli industriali, erano destinate secondo il pacifico Colombino a costituire una nuova specie di scuola d’arti e mestieri e nel segreto pensiero del Buozzi avrebbero perfino potuto recare incremento alla produzione.

     Si trattava ora di rinunciare ai limiti dell’organizzazione economica, di affermare le Commissioni interne come organismi politici, di far riconoscere loro un potere accanto e contro il potere padronale, di estenderle fino a far diventare veri e proprii Consigli di Fabbrica che imponessero agli operai la loro disciplina e li organizzassero secondo la naturale gerarchia di produzione. L’esperienza insegnò subito che le C. I. potevano essere per le psicologie individuali un buon punto di partenza: ma le funzioni del nuovo Consiglio dovevano rimanere distinte dalle antiche della Commissione e si crearono per ogni reparto i nuovi commissari con funzioni direttive del movimento operaio.

     L’Ordine Nuovo (aiutato dall’edizione torinese dell’Avanti! diretta dal Pastore che accettava il pensiero del Gramsci) si assunse coraggiosamente la direzione e la preparazione dell’opera economica e politica: dimostrò l’originalità del movimento dei Consigli e la necessità di tenerli ben distinti dall’azione sindacale. Il sindacato è organo di resistenza; non di iniziativa, tende a dare all’operaio la sua coscienza di salariato, non di produttore: lo accetta nella sua condizione di schiavo e lavora per elevarlo senza rinnovarlo, in un campo puramente riformistico di utilitarismo. Nel Consiglio l’operaio sente la sua dignità e indispensabilità di elemento della vita moderna, si mette in comunicazione coi tecnici, cogli intellettuali, con gli intraprenditori, colloca al centro delle sue aspirazioni non il pensiero del proprio utile, ma un ideale di progresso tecnico, che gli permetta di realizzare sempre meglio le sue capacità, e l’esigenza di un’organizzazione pratica che gli dia il potere.

     Lo schema di azione non era più grossolanamente democratico: la nuova società da instaurare non sarebbe stata l’indistinta società del proletariato come massa. Si trattava di preparare la nuova gerarchia corrispondente al valore di ognuno: e il governo doveva essere un’aristocrazia venuta dal basso, capace di affermare la sua coscienza politica e di ricevere l’eredità della classe dirigente esausta.

      Nonché organo di collaborazione, il Consiglio si presentava da un lato come la cellula della futura organizzazione economica e politica, dall’altro come l’esercito del fronte unico di lotta nel periodo preparatorio. Accanto all’Ordine Nuovo sorse un nucleo di operai che si dimostrarono capaci di comprendere la nuova situazione (specialmente i commissari della Fiat). E poiché le masse non potevano intendere e partecipare volontariamente alle nuove idee, essi si assunsero il compito di guidarle, dove quelle non sapevano vedere, di farle trovare di fronte ad avvenimenti che le determinassero, coscienti o no, ad una azione precisa. Così riuscirono ad organizzare e ad imporre per dieci giorni a Torino nell’aprile del 1920 uno sciopero generale che non si proponeva le solite rivendicazioni di salario, ma uno scopo nettamente ideale: il mantenimento dei Consigli. Lo sciopero fallì perché il movimento si circoscrisse a Torino (così volle il Consiglio Nazionale del Partito Socialista) e gli industriali guidati intelligentemente dall’Olivetti (che aveva studiato con cura il pensiero dei nuovi rivoluzionari e ne aveva penetrato lo spirito) si opposero con tutte le forze.

     Ma la sconfitta recò i suoi ammaestramenti. Non infranse la disciplina operaia e provò una specifica capacità di sacrificio. Dimostrò l’incapacità del Partito Socialista ad ogni azione diretta: pose l’esigenza di dare al movimento una nuova organizzazione politica nazionale, capace di lanciare a tutti gli operai la parola d’ordine necessaria per la difesa dei gruppi più progrediti, che si trovano all’avanguardia del movimento rivoluzionario. I1 dissidio tra l’Ordine Nuovo e Serrati era questo sostanzialmente: il fronte unico dell’azione proletaria doveva essere per i primi nelle trincee più avanzate; per il secondo alla retroguardia. Serrati pensava l’occupazione del potere come coronamento dell’elevazione generale delle masse (quando?), Gramsci pensava l’elevamento delle masse attraverso l’occupazione del potere. Serrati era democratico, Gramsci marxista Risale propriamente all’aprile del 1920 la separazione decisiva dei torinesi dal Partito Socialista e la costituzione virtuale di un Partito Comunista.

     Il battesimo del nuovo partito fu l’occupazione delle fabbriche del settembre: la rivincita dell’aprile, la prova del fuoco della maturità degli operai torinesi. Ma la vittoria segnò insieme la conclusione e la decadenza perché dimostrò 1′impossibilità di estendere i1 movimento all’Italia, sia per gli ostacoli economici, sia per l’inesistenza, fuori di Torino, di una classe dirigente operaia matura.

     Di fronte al grandioso movimento dei Consigli un liberale non può assumere la posizione meramente negatrice di L. Einaudi o di E. Giretti. Il liberale ha dinanzi uno dei più caratteristici fenomeni schiettamente autonomisti, che siano sorti nell’Italia moderna. Chi, fuori di ogni pregiudizio di partito, pensoso della crisi presente che è crisi di volontà, di coerenza, di libertà, spera in una ripresa del movimento rivoluzionario del Risorgimento, che entri alfine nello spirito delle masse popolari e le faccia aderire creativamente a uno Stato, a buon diritto ha potuto credere per un momento che la nuova forza politica di cui l’Italia ha bisogno sarebbe sorta da queste aspirazioni e da questi sentimenti. I comunisti torinesi avevano superato la fraseologia libertaria e demagogica e si proponevano problemi concreti. Contro la burocrazia sindacale affermavano le libere iniziative locali. Movendo dalla fabbrica si assumevano l’eredità specifica della tradizione borghese e si proponevano non già di creare dal nulla una nuova economia, ma di continuare i progressi della tecnica della produzione raggiunta dagli industriali. Contro le astrattezze dei programmi di socializzazione sapevano quale importanza dovesse attribuirsi al problema del risparmio nella industria, quale parte spettasse nella produzione agli intraprenditori. Il Consiglio di Fabbrica doveva soddisfare anche alle esigenze degli impiegati, non in quanto piccoli borghesi, ma in quanto impiegati ossia elementi di produzione. Le esperienze concrete dell’azione politica, insomma avevano liberato quasi completamente i giovani comunisti torinesi dal bagaglio dei luoghi comuni del socialismo e dell’internazionalismo. Essi sentivano il movimento operaio nel suo valore nazionale e liberistico. Il loro eroico esperimento fallito è uno dei più nobili sforzi che si siano fatti per dare un fondamento ideale alla vita della nazione.

  Il Partito Comunista.

      La resistenza e l’organizzazione dei vinti è rimasto il compito dei condottieri della lotta: le masse riconobbero nel sogno infranto del Gramsci il loro ideale eroico d’azione e vollero l’ispiratore della sconfitta a dirigere l’Ordine Nuovo diventato quotidiano attraverso le rovine di un organismo.

     Gli esperimenti torinesi e il fallimento in cui si coronò la prima vittoria furono gli elementi concreti che prepararono la fondazione del nuovo Partito Comunista. I veri rivoluzionari italiani non potevano più aver fede nel Partito Socialista, diventato partito di maggioranza, incapace d’azione per l’elefantiasi burocratica del suo ordinamento, per il pregiudizio dell’unità, per le iniziali responsabilità di governo: era evidente che il Partito doveva a poco a poco adeguarsi empiricamente al vecchio Stato, diventare conservatore, senza introdurre nella vita sociale né un’idea né una forza nuova, continuando il riformismo giolittiano. Se Serrati fosse stato un grande uomo politico la battaglia per l’unità avrebbe potuto assumere un carattere più educativo: e sarebbe stato più fecondo lo sforzo di dare all’unico movimento una direzione operosa e indipendente che stimolasse le forze popolari invece di attenderle, e che al partito imponesse il pensiero della minoranza più attiva, più coerente, più rivoluzionaria. L’unità di Serrati invece, come già abbiamo notato, era democraticamente intesa. Nel partito di Serrati, per la generica propaganda messianica, erano entrati a poco a poco elementi piccolo borghesi e contadini, desiderosi di miglioramenti soltanto individuali, privi di preparazione politica, limitati ad una generica negazione anarchica dello Stato per ragioni di utilitarismo, ostacolo insuperabile ad una netta differenziazione politica. Sistemi democratici erano destinati a portare alla direzione del movimento proprio queste masse impreparate che, incapaci di controllo e di iniziativa, avrebbero poi seguito condottieri demagogici. Al pari di Serrati, ma meno responsabili e meno colpevoli di lui anche i comunisti erano privi di questa gigantesca capacità di diplomatici e di dittatori (1) (uomini come Lenin e Trozchi appaiono una volta ogni secolo pur troppo!!) e parve più adeguata ai loro spiriti una modesta questione di sincerità: così la separazione divenne inevitabile.

     La questione della disciplina a Mosca fu la mera occasione per il conflitto dei due sistemi: e venne accettata volentieri dai riformisti che, per collaborare al Governo, dovevano farsi perdonare parecchi peccati di internazionalismo.

     Nel Partito Comunista accanto al gruppo torinese (e alle minoranze che altrove ne seguivano le direttive) si trovarono alcuni messianici della rivoluzione come Bombacci e Misiano (i decorativi dell’Estrema, i Luzzatti del Comunismo), alcuni teorici del marxismo come Graziadei, la vecchia frazione astensionista del Bordiga. Tra Bordiga e Gramsci (i due veri leaders del Partito, le anime del Consiglio direttivo, benché Gramsci non sia uso a manifestazioni ufficiali del suo pensiero e preferisca ispirare il Terracini, il Togliatti o altri) vi sono indubbiamente differenze notevoli di pensiero, che all’ora della organizzazione positiva determinerebbero due diverse correnti di idee: ma li unisce una visione comune della presente situazione italiana.

      Si tratta per tutti e due di proporre il problema della conquista del potere e di prepararvi le masse: il Partito Socialista è fallito perché all’ora dell’azione non aveva organismi che aderissero agli strati della produzione e potessero costituire l’impalcatura del nuovo Stato; ha dovuto, per avere almeno l’apparenza della popolarità, ricercare un numero esuberante di aderenti non spiritualmente preparati. Il nuovo Partito Comunista deve organizzare l’avanguardia del movimento con una rigida disciplina interiore: deve essere una minoranza direttrice, intorno alla quale la massa amorfa popolare si ordina e ne sente la superiorità e ne accetta la influenza. Solo questa concezione unitaria e aristocratica può dare un’anima e un carattere ideale agli operai.

     Tutto il primo anno di vita del Partito si è esaurito in questo problema di tattica che per molto tempo ancora sarà la preoccupazione centrale perché la disoccupazione ha sconvolto le file dell’esercito proletario: sono scomparsi i consentimenti pratici e ideali che animavano i combattenti nella crisi immediatamente post-bellica, ogni pensiero si perde nella frammentarietà e nell’individualismo. In queste condizioni conservare una organizzazione è veramente un problema centrale e l’averlo inteso prova la maturità degli uomini che studiamo: d’altra parte proprio il tentativo di soddisfare questa esigenza trasporta gli attori in un ambiente artificiale e crea quella solitudine e quella anemia di schematismo che fu in altri tempi fatale ai mazziniani.

     Per tutto un anno di fronte al fascismo L’Ordine Nuovo quotidiano è riuscito a dare la parola d’ordine di coraggiosa resistenza e controffensiva alle classi operaie che dal titolo stesso, come da simbolo, incominciavano ad apprendere la disciplina e l’autorità. Di fronte a queste lotte fratricide il criterio di giudizio nostro non può essere né quello della lotta di classe, né quello della pace sociale: siamo in una crisi inevitabile attraverso la quale il nostro popolo tempra la sua volontà e si educa a un esercizio di libertà. La violenza, sopra i sentimentalismi ed i danni contingenti, dimostra fermenti vitali, energie decise, pensieri maturi.

     L’unità dei comunisti è stata raggiunta nella tattica di opposizione e di conquista del potere: il programma positivo latente era quello dei Consigli – invero poco caro al Bordiga che volentieri si ferma alla fase mitica della rivoluzione. L’elaborazione delle idee pratiche è rimasta alquanto nebulosa e contraddittoria, essenzialmente perché un partito d’opposizione deve avere due programmi pratici: uno mitico che offra la palingenesi agli stanchi combattenti di oggi, i quali anche dopo il tramonto del cristianesimo, sospirano messianicamente il regno della pace (pur negandola coll’azione), un altro politico che s’esprimerà solo nell’ora della vittoria. Questa curiosa ironia è latente nel movimento rivoluzionario: l’ora risolutiva determina la negazione dei programmi che l’hanno preparata, i rivoluzionari si trovano a lottare per primi contro se stessi. Del resto, questo processo di realismo storico è perfettamente inteso dai capi anche se nessuno di essi può proporsi specificamente l’esame dei rapporti che connetteranno il mito con l’azione pratica (questo è problema di liberali, non di comunisti, di storici, non di attori). Le declamazioni contro lo Stato sono sempre state intese dagli scrittori dell’Ordine Nuovo come declamazioni contro lo Stato burocratico: essi manifestano il proposito concreto di creare uno Stato che sappia risolvere 1a crisi borghese ed ereditare i problemi del Risorgimento non risolti: ammettono che la rivoluzione sia la conclusione del liberalismo rivoluzionario dell’800; la professione di internazionalismo è una vera e propria politica estera contrapposta alla politica della quadruplice (oltre che un fecondo mito); la lotta contro i capitalisti tende a sostituire un’autorità e una disciplina che i capitalisti non sanno più esercitare e che è necessaria alla Società.

       Tutti questi propositi, per chi abbia saputo indagarli, sono schiettamente liberali e autonomisti. Non bisogna chiedere a questi uomini d’azione maggior coscienza riflessa di quella che è concessa ai combattenti. Ma nel primo anno di vita L’Ordine Nuovo è stato decisamente un giornale di pensiero, singolarissimo in Italia, conscio dell’importanza dei problemi nazionali, preoccupato di fondare una coscienza politica nuova e di ascoltare le esigenze culturali del mondo moderno. Il movimento insomma ebbe una sua serietà ideale, non si prestò ad arrivismi né ad atteggiamenti demagogici, proseguì con coerenza un proposito organico di rinnovazione.

     Valutando gli ultimi mesi dell’attività purtroppo, più non oseremmo ripetere questi ottimistici giudizi. È vero che accanto all’Ordine Nuovo sono sorti Il Comunista e il Lavoratore Comunista, meno importanti e meno originali, ma segno di un’attività più sicura e ampia, e l’uno e l’altro sono diretti da amici o discepoli (in teoria) del Gramsci; da giovani che hanno partecipato alle esperienze torinesi: a Trieste è il Pastore, il Togliatti e il Terrracini sono a Roma. È vero che si sta elaborando una casa editrice che sarà diretta dal Sanna, ossia da un uomo che ha in comune con il Gramsci le preoccupazioni di realismo politico apprese alla più feconda scuola politica che l’Italia abbia avuto in questo scorcio di secolo: L’Unità di Gaetano Salvemini.

     Ma la caratteristica del movimento (la coscienza che esso ha saputo formarsi dei bisogni tecnici della nostra industria e della funzione degli operai nella fabbrica) è andata perduta. Perché? Si sono inariditi il cervello e l’attività dell’uomo che ha interpretato e creato il movimento, approfittando è vero, di condizioni storiche oggi attenuatesi, ma vigorosamente rinnovandole e concretandole. Certo l’inerzia del Gramsci e la separazione, colla mancanza di collegamento, tra gli elementi più attivi: Gramsci, Togliatti, Terracini, (data la povertà di dirigenti che travaglia ogni tentativo politico italiano) è non una causa, ma un sintomo e un’occasione pericolosa. Al disopra delle persone noi crediamo tuttavia che il vecchio problema (posto dall’Ordine Nuovo come problema dello Stato operaio e di autodisciplina popolare che si realizza nel Governo) fatto dimenticare da un anno di disoccupazione e di incertezze tornerà fondamentale e ineluttabile appena l’Italia si ritroverà al suo compito di nazione moderna.

     E allora l’adesione di una aristocrazia politica liberale (quella che noi vorremmo creare) al movimento sorto dal basso potrebbe farlo trionfare e avviarlo decisamente secondo la sua logica autonomista e storica.

PIERO GOBETTI.

      NOTA. – Il precedente studio rivela del movimento comunista aspetti che osiamo dire ignorati. Ciò che si vede nel Processo di Torino in confronto a questa realtà è un fatto superficiale, inverato e giustificato dal tormento ideale che gli fu contemporaneo, come le intemperanze giacobine sono giustificate e fatte dimenticare dal valore storico della Rivoluzione francese. Certo i vinti non hanno questo diritto: ma il processo storico che ai fatti esaminati si connette è ancora nel suo divenire. Il presente studio sarà continuato e rifatto: chi scrive è forse il solo liberale che abbia seguito e vissuto con animo critico il singolare movimento e pensa di essere moralmente tenuto a tracciarne la storia completa, documentata. Questa prima approssimazione è dunque essenzialmente una giustificazione teorica del Manifesto, necessaria di fronte alle critiche dell’amico Ansaldo: all’autore, che l’aveva scritta con uno scopo divulgativo e informativo, non è stato possibile per ragioni empiriche trasformarla subito in una ricerca completa di valore conclusivo e ha pensato che non fosse inutile pubblicarla qual’è.

 (1) Parve che l’avessero conquistata a Torino quando riuscirono nelle elezioni amministrative ad escludere Casalini e i riformisti ottenendo tuttavia l’adesione generale delle classi operaie.

Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale / Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, A. 1, n. 7 (2-4-1922), p. 25-27 

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Gramsci

    Antonio Gramsci va alla nuova Camera fascista come rappresentante degli operai del Veneto. È davvero la Rivoluzione, sconfitta, che va in Parlamento a predire sciagure ai vincitori. È il primo rivoluzionario che entra a Montecitorio! Altro che rompere le urne e provocare scandali rumorosi! Bombacci eMisiano erano delle riproduzioni fotografiche di Enrico Ferri; era la rivoluzione dilettosa per le cronache dei buoni borghesi. Il piano ideologico e lo stile di questi agitatori assomigliava stranamente a quello di Mussolini.

    Se Gramsci parlerà a Montecitorio vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e nello sforzo di ascoltare parrà loro di provare un’emozione nuova di pensiero. La dialettica di Gramsci non protesta contro i brogli o le truffe ma ne documenta dalle pure altezze dell’idea hegeliana, la insopprimibile necessità per un governo borghese. I suoi discorsi saranno condanne metafisiche, le invettive risentiranno dei bagliori d’una palingenesi.

    Bisogna pensare a tutta la sua formazione spirituale negli anni di Università a Torino per spiegarsi il suo odio contro la società. L’odio di Gramsci é uno degli esempi più convincenti che io conosca di orgogliosa nobiltà e di dignità ferita. Il suo socialismo é prima di tutto una risposta contro le offese della società alla sua solitudine di sardo emigrato.

    La sua sociologia ascetica, l’assolutezza filosofica dei suoi atteggiamenti giacobini sono nutriti di sofferenza personale. Una sofferenza diventata così intimamente aristocrazia di carattere che può deridere tutti i compatimenti della morale borghese e documentare la sfacciata crudeltà della filantropia. È difficile trovare un tipo così caratteristico di schietto marxismo, una coscienza così superba e ferma di plebeo che non si rinnega.

    Ma già nell’istinto c’era il disprezzo per tutta questa semi-borghesia, e l’istinto maturò nelle campagne isolane, dove le opinioni politiche giungono logicamente sino all’abigeato e alla pratica dell’assassinio vendicatore.

    Tuvieri mostrava cent’anni fa ai repubblicani della penisola, che fuori di ogni ipocrisia la logica era coi monarcomachi: anche Gramsci invoca delle conclusioni fedeli alle premesse, senza mezze misure. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costituito secondo i rapporti logici di una grande utopia redentrice, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza, interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo rigore della sua razionalità. La voce é tagliente come la critica dissolvitrice, l’ironia s’avvelena nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell’umorismo. C’è nella sua sincerità aperta il peso di un corruccio inaccessibile; dalla condanna della sua solitudine sdegnosa di confidenze, sorge l’accettazione dolorosa di responsabilità più forti della vita, dure come il destino della storia; la sua rivolta é talora il risentimento e talora il rancore più profondo dell’isolano che non si può aprire se non con l’azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se non portando nei comandi e nell’energia dell’apostolo qualcosa di tirannico. L’istinto e gli affetti si celano ugualmente nella riconosciuta necessità di un ritmo di vita austera nelle forme e nei nessi logici; dove non vi può essere unità serena ed armonica supplirà la costrizione, e le idee domineranno sentimenti ed espansioni.

    L’amore per la chiarezza categorica e dogmatica, propria dell’ideologo e del sognatore gli interdicono la simpatia e la comunicazione sicché sotto il fervore delle indagini e le esperienze dell’inchiesta diretta, sotto la preoccupazione etica del programma, sta un rigorismo arido e una tragedia cosmica che non consente un respiro di indulgenza. Lo studente conseguiva la liberazione della retorica innata nella razza negando l’istinto per la letteratura e l’agile gusto nelle ricerche ascetiche del glottologo; l’utopista detta oggi il suo imperativo categorico agli strumentidell’industria moderna, regola colla logica che non può fallire i giri delle ruote nella fabbrica, come un amministratore fa i suoi calcoli imperturbabile, come il generale conta le unità organiche apprestate per la battaglia: sulla vittoria non si calcola, non si fanno previsioni perché la vittoria sarà il segno di Dio, sarà il risultato matematico del rovesciamento della praxis. Il senso etico é dato qui dalla tolleranza e dalla sicurezza silenziosa: c’è la borghesia che lavora alacremente per la vittoria del proletariato.

    Più che un tattico o un combattente Gramsci é un profeta. Come si può esserlo oggi: inascoltati se non dal fato. L’eloquenza di Gramsci non rovescierà nessun ministero. La sua polemica catastrofica, la sua satira disperata, non attendono consolazioni facili. Tutta l’umanità, tutto il presente gli é in sospetto. Chiede la giustizia a un feroce futuro vendicatore.

p. g.
da La Rivoluzione Liberale, A. 3, n. 17 (22-4-1924), p. 66
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