La proposta di legge del Pd sul finanziamento all’editoria. Come uccidere il pluralismo in nome del pluralismo

La proposta di legge del Pd sul finanziamento all’editoria. Come uccidere il pluralismo in nome del pluralismo

Editoriadi Stefania Brai -

Come si uccide il pluralismo nella cultura, nella conoscenza e nell’informazione? Come si facilita la formazione di un “pensiero unico”, di un senso comune unificato e alla fine unificante, la costruzione di modelli di vita e di società che non prevedono alternative?
In tanti modi, ovviamente, e tutti, o quasi tutti, sono messi in atto dal governo Renzi, proseguendo – e intensificando – l’opera dei governi precedenti. L’obiettivo finale è sintetizzando e, per forza di cose, semplificando, “la riduzione ad uno”: mi riferisco all’obiettivo di una informazione appiattita e di una proposta culturale largamente omogenea il cui senso profondo è quello di un’accettazione totale dell’esistente, quasi della sua ineluttabilità, senza l’idea stessa di pos­sibilità di cambiamento; dell’accettazione del mondo così com’è, senza più indignazione e solidarietà; una passivizzazione e addormentamento delle intelligenze e delle coscienze.
Questo governo sta tentando di farlo per esempio con una riforma della scuola che delega ai presidi poteri assoluti nella scelta dei docenti determinando in ipotesi un unico modello formativo, quello gradito al dirigente; con la dismissione progressiva dei finanziamenti pubblici alla produzione e alla diffusione della cultura; con la riforma renziana del servizio pubblico radiotelevisivo in discussione alle Camere che trasforma la Rai, cioè la più importante istituzione culturale pubblica del nostro paese, in società controllata dal governo e gestita da un amministratore unico con poteri a dir poco illimitati. Sta tentando di farlo consentendo senza intervenire la chiusura dei luoghi e delle iniziative di elaborazione, produzione e fruizione della cultura e della conoscenza come teatri, sale cinematografiche, biblioteche, librerie, rassegne, convegni, riviste culturali, eccetera; con il decreto Franceschini che inserisce i musei e i beni culturali tra i servizi pubblici essenziali per poter limitare il diritto di sciopero dei lavoratori (ma se sono servizio pubblico essenziale non dovrebbero allora essere appunto “pubblici” e gratuiti?).
E questo governo sta ancora tentando di farlo in modo diretto ed esplicito con la proposta di legge del Pd in discussione alla commissione cultura della Camera, in sede referente, sull’ “Istituzione del Fondo per il diritto all’informazione, per il finanziamento pubblico dell’editoria”.
Se questo testo sarà approvato, in nome “dei principi costituzionali in materia di libertà e di pluralismo dell’informazione a livello nazionale”, si metterà a mio parere una bella pietra esattamente sulla libertà e sul pluralismo.
Senza entrare nel merito dei singoli articoli vorrei porre l’accento su alcuni punti a mio parere gravissimi e che ne costituiscono la filosofia di fondo e sui quali spero si possa suscitare un dibattito, quanto meno tra gli operatori dell’informazione. Provo ad indicarne alcuni.
Nella proposta di legge si istituisce un “fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”, di durata quinquennale, delegando però al Governo la ridefinizione della disciplina dei contributi. Anche qui e ancora una volta esautorando quindi il ruolo del Parlamento. Il testo indica comunque alcuni parametri e criteri cui il governo deve attenersi nell’esercizio della delega.
Per quanto riguarda i destinatari dei contributi pubblici la proposta prevede due sole possibilità:
1. Le sole imprese editrici di quotidiani e periodici che “esercitano un’attività informativa autonoma e indipendente, di carattere generale, che concorre a garantire il diritto dei cittadini a essere informati da una pluralità di fonti al fine di esercitare in modo libero e consapevole i diritti civili e politici sanciti dalla Costituzione”.
2. le imprese editrici costituite come cooperative giornalistiche, gli enti senza fini di lucro e, per un periodo di tre anni dall’entrata in vigore della legge, le imprese editrici di quotidiani la cui maggioranza del capitale è detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali senza fini di lucro.
Sono esclusi dal finanziamento pubblico “gli organi di informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali, dei periodici specialistici a carattere tecnico, aziendale, professionale o scientifico e, comunque, le pubblicazione che non contribuiscono in modo prevalente e significativo alla funzione informativa di carattere generale in materia politica, economica o sociale”.
Infine tra i criteri con i quali viene calcolato il contributo si indica il superamento della distinzione tra testata nazionale e testata locale e la “graduazione del contributo in funzione del numero di copie vendute…” .

Verrebbe da chiedersi se sanno e capiscono quello che dicono – e che scrivono -, o se invece ci stanno prendendo tutti in giro perché ritengono che il livello intellettuale generale sia ormai talmente basso da poter far passare impunemente e “a nostra insaputa” una tale normativa. Oppure se ha ragione Furio Colombo quando scrive: “quando Renzi ha debuttato dichiarando nemici o gufi tutti coloro che non avrebbero approvato le sue decisioni, e i suoi progetti col nome in inglese, si è da prima creato l’equivoco di un nuovo Berlusconi, poi si è capito che il fenomeno era un altro: non è il potere che ti impone di approvare, tra seduzione e minaccia. No. È lui che ha ragione”.
Provo allora ad argomentare le mie preoccupazioni. Come si valuta se una attività informativa “concorre a garantire il diritto ad essere informati con una pluralità di fonti oppure no? si pensa di istituire una commissione governativa? E quali sono i criteri in base ai quali questa commissione esprime il suo giudizio? se ci sono due imprese che in modo “autonomo e indipendente” forniscono il medesimo “punto di vista” oppure attingono alle stesse fonti, se ne finanzia una sola, e in caso, quale delle due? Ed infine con quale criterio valutiamo il risultato finale, e cioè che il cittadino ha potuto realmente esercitare in modo libero e consapevole i diritti civili e politici? Si fa una commissione d’esame, cittadino per cittadino?
Ma davvero si vuole far credere che in questo modo si attuano “i principi costituzionali in materia di libertà e di pluralismo dell’informazione a livello nazionale”?

Io credo invece che il “cittadino” sarà realmente in grado di esercitare in modo libero e consapevole i diritti civili e politici sanciti dalla Costituzione quando potrà liberamente attingere ad una pluralità di fonti di informazione e formazione, di punti di vista e di sguardi sul mondo: nessuno escluso, compresi i punti di vista dei partiti e dei movimenti politici che fino a prova contraria sono ancora il perno della democrazia parlamentare così come è disegnata dalla Costituzione. Non è questo il “pluralismo” che vogliamo?

Vorrei inoltre ricordare che la Costituzione dice che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E non che le uniche informazioni che occorre avere – e che lo Stato deve garantire attraverso un finanziamento – devono essere esclusivamente “in materia politica, economica e sociale”.

I punti di fondo allora a mio parere sono due e riguardano tutti e due il compito della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli” per consentire il pieno sviluppo della persona umana. Quello che io credo che la Repubblica debba garantire è da un lato la possibilità stessa di nascita ed esistenza di una pluralità di fonti di conoscenza e dall’altro l’accesso a queste fonti. Questo vuol dire che lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire con finanziamenti per consentire l’esistenza di tutte quelle attività e di tutti quei luoghi della cultura, dell’informazione, della tecnica, della scienza, delle arti che altrimenti in base ai soli meccanismi di mercato non potrebbero mai vedere la luce. Il che vuol dire nel settore dell’informazione dare contributi esattamente a tutte quelle attività vietate da questa legge: all’informazione locale (che questo testo addirittura elimina), alle testate realmente indipendenti (che vuol dire non sostenute dai poteri forti come ad esempio banche e assicurazioni), ai giornali di partito e dei movimenti politici e sindacali, ai periodici a carattere scientifico, tecnico, culturale, artistico e di ricerca. Questo vuol dire pluralismo delle fonti e delle conoscenze.

E rimuovere gli ostacoli vuol dire che lo Stato ha il diritto e il dovere di garantire le possibilità di accesso a queste “fonti” a tutti i cittadini.

Parlo di diritto dello Stato oltre che di dovere perche invece non credo che lo Stato abbia il diritto costituzionale di finanziare le imprese (i giornali come la produzione culturale) in base ai risultati delle vendite sul mercato, in base cioè al criterio più vendi e più lo Stato ti finanzia. Faccio un solo esempio: nell’azionariato di Rcs MediaGroup (Corriere della sera) ci sono tra gli altri la Fiat, Diego Della Valle, Unipol/Sai, Pirelli, Intesa San Paolo, eccetera. Non credo cioè che lo Stato abbia minimamente il diritto di elargire finanziamenti pubblici a soggetti e a imprese di tale potenza economica (oltretutto quando si hanno questi finanziatori siamo sicuri che l’informazione possa rimanere indipendente e autonoma fino in fondo? Ma questo è ancora un altro tema).

Ma la domanda finale che vorrei porre è questa: proprio in un momento in cui dilaga un senso comune per cui “è il potere che ha ragione”, in un momento storico in cui dilaga l’antipolitica e in cui l’attacco alla “cosa pubblica” è a tutto tondo e di tale potenza da far passare senza troppe reazioni la privatizzazione e la mercificazione delle persone e delle coscienze, proprio in un momento come questo non è compito di una sinistra che voglia essere tale da un lato ricostruire la memoria storica del nostro paese e del movimento operaio e dall’altro rivendicare e rilanciare fino in fondo il ruolo dello Stato e la difesa dei “beni pubblici” con tutte le ovvie correzioni che impediscano il riproporsi dell’uso degenerato che si è fatto dell’intervento pubblico?


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