Una guerra dimenticata quando gli invasori eravamo noi

Una guerra dimenticata quando gli invasori eravamo noi

Nel 2015 si è ricordato, seppur quasi in sordina, il settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo. Un revisionismo storico ormai sempre più padrone della scena pubblica ne ha definito una immagine edulcorata secondo cui passa in secondo piano il valore della Resistenza, il ruolo avuto non soltanto dagli USA ma anche dalla allora Unione Sovietica per sconfiggere Hitler e Mussolini, il peso di una presa di coscienza popolare e fortemente connotata dal punto di vista politico per costruire una società migliore. Si rimuove il valore fondante dell’antifascismo in nome di un oblio che tutto annulla, in nome di una falsa riconciliazione. Ed in questo voler lasciarsi alle spalle il passato rientra anche il dimenticare un’altra data, precisa e che ci fa tornare indietro nel tempo di 10 anni rispetto alla fine della guerra.

Il 3 ottobre del 1935 infatti, Mussolini dichiarava guerra all’Etiopia, utilizzando un misero casus belli ma in realtà allo scopo di costruire quello che all’epoca veniva glorificato come impero. Si tratta di uno dei periodi più infami probabilmente della storia italiana, l’attacco durò sette mesi, venne condotto utilizzando ogni mezzo possibile, ivi comprese le armi chimiche, si colpirono soprattutto le popolazioni civili, il bestiame, i campi, volendo annientare quello che era l’Impero d’Etiopia, assieme alla Liberia il solo Stato indipendente del continente africano. Tante furono le efferatezze rimaste per troppo tempo nel dimenticatoio commesse da veri e propri criminali di guerra come i generali Graziani, Badoglio, De Bono e di tanti macellai in divisa, dalle loro truppe italiane da quelle composte da ascari, dalle bande irregolari, dalle milizie in camicia nera. Il mito degli “italiani brava gente” si frantuma totalmente se solo, leggendo ad esempio i libri di Angelo Del Boca, o di Giorgio Rochat, per citare i più noti, ci si sofferma su piccoli e grandi episodi. La memorialistica dell’epoca vantò l’opera civilizzatrice italiana proprio come adesso ci si gloria delle cosiddette “missioni umanitarie per esportare la democrazia”, cambia il linguaggio ma il senso resta lo stesso. Occupare un territorio, sfruttarlo, imporre il proprio dominio, sterminare chi pratica resistenza all’oppressore. Il 5 maggio del 1936 le truppe italiane entravano ad Addis Abeba, la capitale e Vittorio Emanuele III veniva proclamato “imperatore”. I possedimenti coloniali italiani in Somalia, Eritrea ed Etiopia vennero accomunati sotto un unico governatorato definito dell’AOI (Africa Orientale Italiana). Ma l’arrivo nella capitale, accompagnato da tutta la retorica fascista, le canzoni inneggianti all’”Abissinia civilizzata”, l’invio di coloni che dovevano stabilizzare tale conquista,  si scontrarono con la fiera e valorosa opposizione dei partigiani etiopi. Come racconta in uno splendido romanzo la scrittrice e musicista italo – etiope, Gabriella Ghermandi, dal titolo Regina di fiori e di perle, fu una resistenza strenua e combattiva, realizzata con pochi mezzi ma grazie ad una conoscenza perfetta del territorio e con il sostegno di gran parte della popolazione locale. Di quella Resistenza, a cui contribuirono anche alcuni comunisti e antifascisti italiani, si racconta poco. Ci sono ancora sedicenti storici pronti ad affermare che l’utilizzo dei gas fu marginale e che la popolazione locale era ben lieta di liberarsi dell’imperatore Hailè Selassié, ma che non spiegano come mai l’esercito italiano non ebbe mai un controllo reale del territorio “conquistato”. Anzi in più di una occasione la Resistenza armata etiope mise in seria difficoltà gli occupanti, il 19 febbraio del 1937, durante una cerimonia pubblica, si attentò alla vita del “Vicere d’Etiopia” Rodolfo Graziani, che ferito gravemente scampò in maniera fortuita all’esplosione di 9 bombe. La rappresaglia fu vigliacca e crudele e si accanì immediatamente sui monaci copti del convento di Debra Libanos, dove molti civili avevano trovato rifugio. Oltre 2000 persone, in gran parte donne, bambini e sacerdoti perirono in quella carneficina. Ma non servì a nulla, gli arbegnuoc (patrioti) continuarono a compiere attentati soprattutto alle linee di collegamento che fiaccarono un potente esercito come quello italiano. E nei mesi a venire, l’eliminazione di chiunque fosse sospettato di non essersi sottomesso al dominio fascista fu contrastato da una guerriglia di popolo a cui fu impossibile opporsi malgrado la boria colonialista. Il crollo italiano fu inevitabile e repentino. Il 5 maggio 1941 le truppe inglesi e i patrioti etiopi rientravano come liberatori ad Addis Abeba, ma solo nel 1947 la guerra venne dichiarata conclusa. Una storia che va raccontata, che c’è chi come il Atse Tewodroz Project, un gruppo di musicisti etiopi e italiani prova a fare. Nei loro spettacoli si canta della guerra ma anche del rapporto fra i popoli. Il loro messaggio non è di vendetta ma chiede di non dimenticare. Suonano e cantano quelli che erano i testi anti italiani ma ricordano anche come il famoso obelisco di Axun che i fascisti avevano portato come bottino di guerra a Roma, sia tornato nella sua sede naturale e porti oggi una iscrizione alla base che chiama all’amicizia eterna fra i popoli. Un gruppo musicale che racconta anche di amore e di emigrazione.

morti-a-mareE sembra che le coincidenze a volte siano fatte a posta per non poter dimenticare. Era sempre il 3 ottobre, del 2013 quando un barcone contenente centinaia di persone, affondò a pochi metri dalle coste di Lampedusa. 155 i superstiti, 366 i morti accertati, molti donne e bambini, vittime di una guerra che in venti anni ha mietuto almeno 24 mila persone. Ma in questo mare ancora si muore e ad affogare sono persone provenienti da quello stesso Corno d’Africa, da quella Africa Orientale in cui il regime fascista diceva di aver portato progresso e civiltà e in cui l’italiano è ancora una lingua parlata dagli anziani. Ma di quei paesi, come delle ignominie commesse in nome del nostro colonialismo misero, si preferisce sottacere, si preferisce non ricordare dei debiti che con quei Paesi si hanno e che vanno saldati, anche accogliendo coloro che fuggono da dittature, come quella eritrea, che l’Unione Europea e l’Italia appoggiano.

Stefano Galieni


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