Pietro Ingrao: la battaglia contro lo scioglimento del PCI (1989)

Pietro Ingrao: la battaglia contro lo scioglimento del PCI (1989)

Intervento di Pietro Ingrao al Comitato Centrale del PCI novembre 1989 in cui espresse la sua netta contrarietà alla “svolta” proposta da Occhetto alla Bolognina e l’apertura della battaglia all’interno del partito. Pubblicato sull’Unità il 22 novembre 1989, ora nella raccolta Coniugare al presente. L’Ottantanove e la fine del Pci. Scritti [1989-1993], Ediesse.

 In politica é saggio e doveroso attenersi ai fatti. Il fatto su cui siamo chiamali a pronunciarci è questo; la proposta che il Pci promuova una fase costituente, che porti a una nuova formazione politica di sinistra e allo scioglimento in essa dell’attuale Partito comunista italiano. Si dice: fase costituente. Ma una fase costituente se non vuole essere una fluttuazione verso non si sa dove, suppone che siano almeno identificati, e nominati, interlocutori visibili; che essi rappresentino forze politiche consistenti; che vi sia almeno un retroterra di lavoro comune con loro e un minimo di intese preliminari. Su tutto ciò non ho trovato ieri alcun lume nella relazione del segretario del partito. Sinora i «verdi» ci dichiarano amicizia, ma hanno già detto no. Non vedo una sinistra consistente di ispirazione cristiana che dichiari di essere disposta a confluire. Nemmeno il gruppo radicale sembra esprimere un interlocutore certo. Né dentro il partito socialista, né dentro il partito socialdemocratico, né dentro il partito repubblicano, vedo forze di rilievo disposte a staccarsi dalla loro «matrice». Nel seno stesso della Sinistra indipendente, che é la più vicina a noi, emergono anche dissensi. Infine il segretario del partito socialista ha dichiarato che l’unico esito accettabile per lui è solo quello che egli chiama la «unita socialista», praticamente la confluenza nel Psi, cioè nel partito che conduce ormai da un decennio una politica che noi combattiamo. Su quali basi allora si parta di una «fase costituente»? Come si fa a non vedere il rischio che ciò «bruci» frettolosamente una ipotesi in ogni caso da costruire con ben altro respiro? Non solo restano vaghi gli interlocutori, ma non vengono definite in positivo le scelte discriminanti, indispensabili per andare a un confronto serio. Confesso che io ieri non sono riuscito a capire bene se abbiamo in mente un partito socialdemocratico o un partito democratico, o semplicemente una forza progressista. È dinanzi a questi singolari silenzi che allora sorge l’aspro interrogativo che il senso di questa operazione sia essenzialmente un altro: non al positivo, ma al negativo; la dichiarazione di morte del comunismo. Del resto, un compagno della Direzione, De Giovanni, l’ha detto esplicitamente: c’è da sancire l’«esaurimento» del comunismo. Dissento da questa valutazione, e combatto perché a questo esito non si giunga.

Intanto non c’è solo un comunismo. Mi sembra chiarissimo che ci sono state differenti teorie ed ipotesi strategiche sul comunismo: da Marx a Engels, dalla Luxemburg a Lenin, a Stalin, a Gramsci. Sostengo che il comunismo italiano è stato ed è cosa diversa dai partiti comunisti e dai regimi dittatoriali da essi imposti all’Est, che oggi stanno crollando e che non sono mai stati una società comunista. Ma non è del passato che voglio parlare. Ritengo che noi siamo di fronte all’estendersi di un processo di mercificazione, egemonizzato da nuovi aspetti di concentrazione capitalistica, che stanno colpendo la residua autonomia e peculiarità di mondi vitali, di forme di relazione, in cui si esprime il bisogno profondo di una comunicazione che non si può realizzare e misurare nel denaro. Il problema stesso della condizione alienata si sta dunque allargando dai luoghi di produzione a nuove sedi della vita.

Penso che la questione ecologica, nel suo senso più profondo, significhi respingere la nozione di «uomo signore della natura», e quindi rifiutare il dominio esclusivo del «produrre» e chiede di riconoscere altre presenze vitali «non umane» da tutelare. Penso che la differenza femminile evochi ormai determinate logiche di mercato che oggi prevalgono e con i criteri del diritto eguale. Si allarga quindi il mondo dei bisogni antagonisti al dominio della accumulazione capitalistica.

Uso chiaramente questi termini. Perché questo é un punto ineliminabile: individuare soggetti del conflitto. Dire oggi con chi, ma anche contro chi. Faccio un solo esempio. Un nuovo equilibrio del pianeta, in tempi calcolabili, sarà enormemente più difficile se non si costruisce da ora, già in questa Europa dei 12, una lotta contro lo strapotere delle multinazionali che si sta profilando; e se la crisi dell’Est si risolverà in una convulsa omologazione all’Occidente. Se non si mette al centro questo conflitto, le nuove domande rischiano la morte o la frantumazione.

Dichiaro con franchezza che io non ho una risposta di «sistema» a questi bisogni. Anzi credo che dalla idea di «sistema» dobbiamo passare al progetto di un percorso di trasformazione della società. Ma so che se riconosco questi nuovi bisogni e li assumo come punti essenziali della mia battaglia, tutto un arco di questioni anche immediato assume un volto preciso.

Non solo leggerò in altro modo la battaglia da condurre nella fabbrica; ma la scuola non sarà vista più come momento separato dalla vita; e il sapere, più che conoscenze atomizzate, si presenterà come chiave per orientarci nel mare delle interdipendenze: e leggerò necessariamente la risposta alla tossicodipendenza prima di tutto come ricostruzione di un dialogo; e mi appariranno assurde e inaccettabili le periferie romane senza nemmeno una piazza, senza cioè luoghi elementari di comunicazione. E i continenti della fame mi si presenteranno non solo come problema di pane, ma di mondi diversi che domandano voce. E i«deboli», non saranno solo sofferenze da sostenere, ma potranno apparire coma risorsa, forse potenzialmente i più ricchi di valori non mercificati da affermare.

Noi oggi dichiariamo giustamente di combattere lo statalismo burocratico. Anni fa mi capitò di parlare, in un libro, di uno Stato che, invece di fare, «aiuti a fare». Ebbene se non vogliamo che siano le grandi multinazionali a «fare»  – esse al posto dello Stato – dobbiamo, da ora, con coraggio, costruire luoghi e poteri di nuove forme di vita comunitarie capaci di combattere la specifica pervasività delle nuove concentrazioni economiche e dei monopoli informativi. Sono solo sogni? In Italia non è cosi. L’emozione rispetto alla sorte del nome «comunista» non è un lamento di reduci.. E’ un grumo di «vissuto», di esperienza sofferta di milioni di italiani, che intorno a questo nome hanno combattuto non solo battaglie di libertà – che sono state condotte anche da altri che io rispetto – ma hanno visto la tutela dei più deboli come patrimonio sepolto da valorizzare. Non sostengo minimamente che il Pci sia l’unica forza che parla di questo futuro. Alcune di questo nuove domande e risposte possibili, le ho apprese da altri. Le ritengo forti, perché pullulano da molte fonti. Il «nuovo», significa guardare a questi orizzonti o arretrare rispetto ad essi? Questa è la vera questione politica, che sta al fondo del nostro dibattito.

Mi annunciano che all’Est i partiti comunisti  stanno cambiando o cambieranno nome. Ho imparato dentro questo partito l’autonomia rispetto all’Urss. Sarebbe ridicolo che l’abbandonassi ora. Soprattutto ora che all’Est è aperta una lotta di rinnovamento e grandi masse scendono in campo per la libertà e la democrazia, e quindi non ci sono solo macerie: anche fra i comunisti. Dalla primavera passata, mi è capitato di porre la vera, grande questione politica, aperta dal sommovimento ad Oriente: il che fare. Ho chiesto inutilmente una riunione del Comitato centrale. Non pensavo soltanto ad una analisi collettiva. Pensavo all’azione: e non solo agli «aiuti» economici verso l’Est, ma prima di tutto e soprattutto ad una grande lotta di massa, nazionale e internazionale, per il disarmo generale. Questa lotta per il disarmo, sostanzialmente, le sinistre europee non l’hanno condotta. La risposta dell’Europa comunitaria alla proposta di Gorbaciov è stata sinora avarissima. Dissento dal giudizio positivo da noi espresso sulla politica estera italiana. Trovo deboli le scarse parole di critica pronunciate ieri, in proposito, da Occhetto. Il governo italiano non ha proceduto nemmeno a una riduzione limitata delle spese militari. Ancora oggi si rifiuta persino di dire no agli F16.

E allora fra noi, e anche fra le sinistre europee, dobbiamo venire ai nodi veri. Il  «governo mondiale» rischia di restare una amara frase, se su questi nodi non suscitiamo una azione organizzata di popoli: e perché no?, anche con l’arma dello sciopero; costruendo un nuovo internazionalismo. La questione tedesca – della grande Germania che sta nascendo e che ha diritto di essere unita se i tedeschi vorranno essere  uniti – avvelenerà l’Europa, se non si pone apertamente già da ora la questione di una forza sociale europea antagonista delle multinazionali; se non si avvia una lotta reale per il superamento dei blocchi e quindi per la smobilitazione del grandi complessi «militari-industriali» che per quarant’anni hanno imposto al mondo la tenaglia bipolare. Altrimenti anche questa alta parola «non-violenza» resterà una nobile aspirazione etica, ma non si calerà nella politica: non «riformerà» la politica. Ed è parola che esige coerenza: non si può pronunciarla e poi non criticare i socialisti francesi che difendono ora i loro arsenali atomici. Non credo a un discorso con l’Internazionale socialista e sulla Internazionale socialista che non abbia questa coerenza.

Per questo scendere in campo di popoli, c’è  bisogno non già della scomparsa del comunismo, ma di una tensione più alta verso il comunismo: come una delle grandi tendenze, ma una tendenza, un alto orizzonte per cui lavorare.

La proposta che ci viene presentata non va in questa direzione, e non offre nemmeno, in cambio, un obiettivo definito riconoscibile.

Per questi motivi, sono contrario ad essa. In ogni modo, le decisioni su tale punto non sono nelle nostre mani. Quando si tratta delle sorti , del partito e del suo nome, può decidere solo un congresso straordinario del partito ora. Mai come adesso abbiamo bisogno di pronunciamenti chiari. Questo partito ne ha il diritto. Altrimenti questa parola «democrazia», tanto adoperata ed esaltata, apparirebbe, drammaticamente, come una frase retorica o un inganno.

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Uno stralcio dal libro intervista Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Editori Riuniti 1990

Perché tu pensi che la «critica al modello sovietico» debba portare all’abbandono di quello che anch’io ho chiamato l’orizzonte del comunismo? Io resto convinto che la società sovietica non era né comunismo, né socialismo. Il mio dissenso da essa ha avuto – tra le altre – questa motivazione essenziale. E altri questo giudizio l’hanno dato prima di me: dalla Luxemburg, a Korsch, allo stesso Gramsci. Dalla critica la più aspra del modello sovietico si possono derivare quindi conclusioni diverse. Ed è tempo di riconoscere laicamente questo fatto. (…)  Tu parli di un comunismo astratto e irrealizzato. Ma il socialismo democratico si è realizzato? E dove? O queste parole significano un’altra cosa, e allora diciamolo. Le parole sono pietre. Socialismo non è capitalismo. Questo non lo sostengo solo io. L’hanno detto in tanti che non erano comunisti da Kautsky a Martov a Otto Bauer sino alle correnti di sinistra della socialdemocrazia tedesca della seconda metà di questo secolo. In ogni modo, se il socialismo come allenta o differenza del capitalismo è irrealizzabile, perché continuare ad usare quel nome? Quanto all’aggettivo democratico, tu sai meglio di me quanto sia controversa, in questo secolo, la nozione di democrazia. E’ vero che senza libertà di voto e di parola non sappiamo parlare, nel nostro secolo, di democrazia. Ma proprio e è uguale «libertà di voto» fra Gianni Agnelli e I’operaio della Fiat? Oppure io e Berlusconi abbiamo uguale «libertà di parola»? No. non è cosi Non lo sostengo solo io. Dunque anche queste parole «socialismo democratico» se vogliamo dirci la verità evocano trasformazioni sinora irrealizzate da nessuna parte del mondo. Dobbiamo decidere perciò che dobbiamo considerarle «irrealizzabili»?

Questo discorso rassomiglia all’altro sulle «cose possibili» da fare invece di inseguire le cose impossibili. Ma è proprio vero che c’è un confine cosi netto, e determinazioni cosi irrevocabili? Cento anni fa in tre quarti di questo paese lo sciopero era «impossibile» non solo perché negato dalle leggi, ma perché nemmeno voluto o addirittura nemmeno «pensato» da tanti. Alcuni però corniciarono a pensare che quell’«impossibile» era possibile. Non era una fantasticheria. Era una lettura delle cose, che orientava e illuminava un agire, una iniziativa. E l’impossibile cominciò a diventare possibile. Lo sciopero è diventato una forma di lotta che ha segnato questo secolo, praticamente e idealmente.

Vedi che non sto parlando di un pensiero astratto, o di un utopia. Ma di un pensiero e di un progetto che comincia a vivere nella realtà, che comincia da ora a segnare un percorso. E del resto tu sai cento volte meglio di me, dalla storia, che anche certe utopie hanno cominciato a spalancare le finestre. Se lo sguardo resta fermo ed opaco, non si vedono nemmeno le cose da cui cominciare. «Cominciare», ecco un verbo importante. Qualcosa che non c’è e comincia a nascere. Temo che se ci manca questo coraggio resta solo l’adattarsi all’esistente. Purtroppo a me l’esistente non piace, e per questo sono comunista.

 Un’ultima osservazione. Tu puoi dirmi che con le parole  «socialismo democratico» intendi i sistemi di «Welfare State», realizzati e sperimentati da alcune socialdemocrazie europee. Non li disprezzo affatto. Ho cercato di conoscerli e studiarli, quando se ne parlava poco anche nel mio partito. Ma anche queste soluzioni, per quel che so sono state colpite e messe in discussione dalla ristrutturazione capitalistica dell’ultimo ventennio. Pensare a una ripetizione di quei «modelli» questo si che mi sembra astratto.Voglio dire che o si individuano i termini nuovi del conflitto sociale (non solo nella fabbrica) o non si lavora né per il comunismo, e nemmeno per forme nuove di controllo democratico o di condizionamento del capitalismo. «Qui è Rodi».

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