Beni comuni e comunismo, il nuovo libro di Dardot e Laval

Beni comuni e comunismo, il nuovo libro di Dardot e Laval

Segnaliamo due recensioni del libro di Christian Laval e Pierre Dardot Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo con prefazione di Stefano Rodotà, edito da DeriveApprodi.
Benicomunismo I nuovi diritti che crescono tra Stato e privato

di Roberto Esposito

«AVVISO ai non comunisti: tutto è comune, perfino Dio». Questo sfolgorante aforisma di Baudelaire campeggia come esergo all’inizio dell’ampia ricerca che Pierre Dardot e Christian Laval hanno dedicato alla questione dei beni comuni con il titolo Del comune o della Rivoluzione nel XXI secolo (DeriveApprodi, a cura di A. Ciervo, L. Coccoli e F. Zappino, con una introduzione di Stefano Rodotà). Sul tema da qualche tempo fioriscono saggi filosofici, economici, giuridici — l’ultimo dei quali di Ugo Mattei, col vigoroso titolo Il benicomunismo e i suoi nemici , appena pubblicato da Einaudi. A motivare questa improvvisa ondata di interesse per l’argomento — che ha portato qualche anno fa alla istituzione della Commissione Rodotà e alla promozione del referendum sulla sottrazione dell’acqua al profitto privato — è la difficoltà crescente di immaginare modelli alternativi al regime neoliberista che si è imposto in tutte le democrazie occidentali.

Rifiuto della politica, riduzione del lavoro salariato, crescita della xenofobia, individualismo antisociale, irrilevanza dei movimenti antagonistici sembrano chiudere qualsiasi spazio di opposizione al sistema vigente, cui pure vanno addebitati la crisi in corso e un vertiginoso incremento delle disuguaglianze. È questa condizione di stallo, avvertita sottopelle da tutta la sinistra europea sul piano della pratica e delle idee, a determinare la necessità di mettere in campo nuovi paradigmi, come appunto quello dei beni comuni. Nella tenaglia tra beni di proprietà privata e beni dello Stato, la categoria del “comune” apre uno spazio di pensiero a partire dal principio dell’inalienabilità di risorse destinate all’uso condiviso dell’intera cittadinanza. Naturalmente la teoria in questione non pretende di abolire il mercato, ma cerca di limitarne l’estensione, ponendo precisi vincoli sia all’esercizio della privatizzazione che a quello della statalizzazione di beni e servizi di pubblica utilità.
Tuttavia, all’interno di tale prospettiva, si sono presto delineati alcuni elementi di debolezza. Già la progressiva iscrizione nella rubrica dei beni comuni di entità difficilmente comparabili come il territorio, l’ambiente, la salute, il sapere, il lavoro ha cominciato a suscitare qualche perplessità: se qualsiasi cosa, in ultima analisi, è comune, la categoria sbiadisce fino a dissolversi. A ciò si aggiunge l’impressione, in particolare in alcune genealogie, che si ipotizzi una sorta di regressione ad un universo premoderno, non ancora governato dal dispositivo proprietario e dunque protettivo di ambiti condivisi. È una tesi che non regge né sul piano storico né su quello teoretico.
Il saggio di Dardot e Laval si pone subito su un’altra lunghezza d’onda. Non solo la tassonomia del comune in esso delineata non ha alcuna tonalità nostalgica, ma anziché guardare alle spalle, raccoglie la sfida della società liberale sul suo stesso terreno — quello del governo del corpo e della mente degli uomini. Ma rovesciando i rapporti di forza tra appropriazione individuale e uso comune. Per gli autori non si tratta di attivare una sorta di contropotere antagonistico all’attuale regime, ma di giocare alla sua altezza, disponendo diversamente le carte a disposizione.
A cominciare dal diritto. Contro la prospettiva marxista che ne fa una sovrastruttura ideologica al servizio dello Stato sovrano, esso va utilizzato nel suo doppio versante di rafforzamento del potere, ma anche di contrasto ai suoi abusi. Se adoperato in tutta la sua potenza costituente, anche in funzione critica rispetto ai poteri costituiti, il diritto può aprire dei varchi collettivi nella struttura proprietaria del mercato e dello Stato, favorendo la costituzione di spazi liberi dalla loro invadenza. In questo senso più che di restaurare beni naturali perduti, si tratta di attivare una prassi rivolta all’autogoverno dei soggetti. Le risorse sono appropriabili, o meno, non in ragione della loro pretesa naturalità, ma di una decisione isti- tuente nata dall’agire di concerto degli uomini, come si sarebbe espressa Hannah Arendt.
A tal fine non basta l’impegno, pure necessario, sul piano della mobilitazione politica — per esempio ridando vita alla ispirazione mutualistica-associativa che la tradizione marxista fin dall’inizio ha soffocato. Bisogna rivedere una serie di presupposti infondati che ancora galleggiano sul vuoto di idee. Ad esempio quello che collega l’origine dei beni comuni al processo di secolarizzazione. Se ciò vale rispetto ai beni ecclesiastici ancora sottratti all’uso pubblico, non tiene conto di un elemento decisivo che connette il pubblico non alla sfera della laicità, ma a quella della religione. In un testo pubblicato da Quodlibet col titolo Il valore delle cose , a cura di Michele Spanò e con un saggio di Giorgio Agamben, il grande storico del diritto romano, recentemente scomparso, Yan Thomas riconduce la genesi della cose destinate al libero uso di tutti i cittadini non solo all’ambito del pubblico, ma anche a quello del sacro. I primi beni comuni, nell’antica Roma, erano proprio quelli riservati alla città e agli dei — e per questo sottratti alla proprietà individuale a favore dell’intera cittadinanza. In tal senso si può paradossalmente sostenere che sia stata proprio la religione che, rendendo alcuni beni e alcuni luoghi indisponibili all’appropriazione, ha liberato gli altri alla possibilità di essere posseduti e scambiati.
Repubblica 1.6.15
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Tutto è comune, anche Dio

di Roberto Ciccarelli

Del comune, o per farla finita con i beni comuni. Potrebbe essere questo il titolo alternativo alla nuova monumentale opera di Pierre Dardot e Christian Laval: Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo (DeriveApprodi, 2015). La polemica non è solo teorica, ma politica. Non si attacca la stagione dei movimenti sociali a partire dal referendum sull’acqua del 2011, né si liquidano i beni comuni per riaffermare il ruolo dello Stato o del mercato.

Dardot e Laval propongono una teoria dell’istituzione, del diritto all’uso e di una prassi socio-politica per liberare il principio del “Comune” dalla reificazione giuridica di “bene”, vale a dire dalla sua principale contraddizione. Lo Stato e il mercato non sono gli angelici portatori di un verbo impersonale al servizio di tutti, ma i vettori della normalizzazione o della distruzione dell’agire comune.

Nella prefazione alla traduzione italiana, Stefano Rodotà ricorda che i “beni comuni” rappresentano una nuova tassonomia dei beni il cui scopo è esprimere la personalità di ciascuno e permettere l’esercizio dei diritti fondamentali. I “beni comuni” rappresentano inoltre una dislocazione del diritto dall’ambito proprietario e mercantile a quello dell’uso collettivo. Legittimamente, scrivono Dardot e Laval all’altro capo del volume, questa teoria vorrebbe liberare ciò che comune agli uomini dal comando dello Stato e dalla proprietà privata. Il suo problema è che continua a usare la categoria giuridica di “bene comune” (o di “beni comuni”) che ha logicamente bisogno di uno Stato.

Uno spazio per il comune

Qual è allora lo spazio per il “comune” (e per i beni comuni)? Per Dardot e Laval è la prassi collettiva. Bisogna ripensare il “comune” al di fuori del “bene” e sviluppare il concetto di “uso comune” incarnandolo nell’agire in concerto, un’espressione di Hannah Arendt tradotta in “co-attività” e “co-decisione”. Non si tratta di rifiutare lo Stato, né di collocarsi al di fuori del diritto, ma vedere entrambi come entità e strumenti di una nuova teoria del governo e dell’istituzione. Quella ispirata dal filosofo (e molto altro) greco-francese Cornelius Castoriadis che la definì “prassi istituente”.

Alla base della categoria giuridica di “beni comuni” esiste una prassi che ingloba sia il fare sia la poiesis, cioè l’agire che non ha solo l’obiettivo di fabbricare un oggetto, ma lo sviluppo delle facoltà del soggetto. Una prassi è “istituente” (e non “istituzionale né “istituzionalizzante”), quando crea nuove istituzioni e non si limita a perfezionare il funzionamento di quelle esistenti in una costituzione data. È questo il senso della “rivoluzione” per il nostro secolo indicata nel sottotitolo di questo volume.

In principio è il comune

Dardot e Laval considerano il “comune” un “principio”, e non una cosa, una sostanza, o una qualità propria. “Il principio – scrivono – viene prima e fonda tutto il resto”. “Ordina, comanda, regge l’attività politica”. È una definizione che si presta a diverse interpretazioni. Il “comune” è il prodotto dell’agire di chi partecipa a un’attività comune, ma anche il principio che giustifica tale attività. Cosa giustifica l’idea per cui il principio sia sempre, e comunque, il risultato di un agire comune tra gli uomini? I sostenitori della sovranità o della proprietà privata potrebbero essere d’accordo, ponendo i loro valori al centro della stessa teoria.

L’unica, possibile, giustificazione della verità ontologica affermata da Dardot e Laval (“In principio è il Comune, il Comune è il principio di tutte le cose”) è politica. Il comune è un principio politico. Senza la storia raccontata in questo libro – il socialismo auto-gestionario e associativo, il comunismo dei consigli o anche le teorie dell’insurrezione e del potere costituente – la tesi del volume sarebbe infondata. E, tra l’altro, soggetta a influenze teologiche.

Invece, considerando le esperienze storiche e, in generale, dell’irruzione della politica delle masse sulla scena dell’Otto-Novecento, oggi si può comprendere che il principio evocato dagli autori è, più propriamente, una potenza. E, come tale, condizionata alla soggettività che la esprime e alla storia politica di cui è il segno.

Ritorno al mutualismo

Del Comune spiega come si costruisce una forza sociale e politica, situata nel tempo e nello spazio, e non in funzione di un mero principio ontologico. Questo, in fondo, è il suo interesse: indicare un’attualità pratica nel presente, diretta alla costruzione di una forza collettiva. Gli strumenti per realizzare questa “politica del comune” sono tre: il mutualismo, la cooperazione, il federalismo.

Concetti con una lunga storia, esposta da Dardot e Laval in maniera suggestiva. Chi oggi parla di “mutualismo” a proposito del coworking, delle pratiche di mutuo-aiuto, di quelle sindacali o nell’ambito della cosiddetta “innovazione sociale”, troverà in questo libro l’origine di una storia rimossa da quasi un secolo. In termini filosofici, il mutualismo è una pratica derivata da “mutuum”. A sua volta, questo concetto è il derivato di “munus”, cioè un “dono che obbliga a uno scambio”. L’aggettivo derivato è “communis” – il “comune”. Indica la condizione di chi ha in comune i “munera”, cioè i doni da scambiarsi.

Nella storia del movimento operaio, il “comune” è stato prodotto da quella che Dardot e Laval chiamano la “co-attività” tra gli individui associati sul lavoro e nella società, non da una comunità “popolare”, “sangue e suolo” oppure “nazionale”. Le pratiche del mutualismo sono solidali, economiche, socio-sanitarie, finanziarie, politiche e sono basate sull’auto-organizzazione, non sulla delega o sulla rappresentanza.

Questo scenario è possibile solo attraverso la creazione di federazioni su base sociale e professionale, ma anche politica e istituzionale, tanto su scala locale quanto su quella globale. Fare politica oggi significa federare una pluralità tendenzialmente infinita di pratiche. Un’attività che può diventare molto complessa. All’inizio ci sono tuttavia le unità di base – le “comuni” politiche, così le definiscono Dardot e Laval, basate sull’auto-governo politico, sociale o lavorativo che si sviluppa sui territori. Queste “comuni” formano coalizioni a livello nazionale e, a livello globale, mostrano un’idea di governo basata su una nuova razionalità politica, quella dell’auto-governo.

Un’alternativa al nuovo feudalesimo

La politica del comune è ispirata a un’idea di federalismo non sussidiario, ma comunista. Questo comunismo federalista risponde a una tradizione sconosciuta oggi, e negletta nella storia dello stesso movimento operaio. È stata formulata inizialmente da Proudhon nel 1840, ha contagiato Marx quando scriveva della Comune di Parigi nel 1871. Del tutto rimossa dalla storia del comunismo sovietico, e dalle divergenti vicende del comunismo e della socialdemocrazia europea, questa peculiare idea di comunismo oggi circola sotterraneamente.

Dardot e Laval la riscoprono come possibile alternativa al sistema del governo capitalistico e alle attuali tendenze alla rifeudalizzazione delle sovranità nazionali o all’odio del populismo xenofobo. La loro impresa genealogica la colloca correttamente nel diritto romano, rinviando all’antico senso del “municipium”. Questa tradizione ha avuto un singolare sviluppo nella tradizione del federalismo europeo e, in particolare, nel municipalismo repubblicano e civile italiano, come abbiamo ricostruito nel Quinto stato, un libro che ha singolari assonanze con quello di Dardot e Laval. C’è tuttavia una differenza sostanziale non colta dagli autori francesi: il diritto romano imponeva a tutti l’obbligo dei tributi e del servizio militare. Nel 1858 Carlo Cattaneo invece scriveva che il mutualismo emerge come il senso del diritto e della dignità civile.

Dal punto di vista storico, le pratiche mutualistiche sono state applicate nel municipalismo italiano tra il X e il XII secolo. Fu questo il primo incubatore della borghesia moderna. In seguito furono applicate all’origine del movimento operaio. Oggi Del Comune propone la loro applicazione nella società del lavoro indipendente (precari, autonomi, inoccupati) per favorire la crescita di un processo di costituzione civile antagonista alla storia, culturale e costituzionale, dello Stato-Nazione.

L’obiettivo è creare una cittadinanza non statale e non nazionale, ma insorgente. L’attenzione del libro è rivolta alla creazione di cittadini politicamente capaci di inventare istituzioni che permettano di essere co-produttori coscienti del comune, non solo consumatori di servizi o di merci. L’operazione è ardita, e mai come oggi l’attitudine alla cooperazione viene negata alla radice. E, tuttavia, queste sono le coordinate condivise dalla cultura globale dei “beni comuni”.

La strada in salita

Quello di Dardot e Laval è un programma filosofico ambizioso, ispirato alla vena socialista eretica e al costituzionalismo illuminista radicale che presenta un’ipotesi di comunismo per il XXI secolo. In questa cornice, lo Stato non scompare, ma diventa l’estensione di un continuum istituzionale che lo eccede dall’alto e dal basso.

Il suo principio-base è la comune, non la comunità. L’auto-governo, non la sovranità popolare. L’attività, il lavoro, la professione, l’interesse culturale, civico ed economico per garantire il quale gli estranei si uniscono per condividere risorse, saperi, tempo libero e possibilità. La reciprocità riguarda potenzialmente tutti gli aspetti della vita individuale e associata.

È una strada in salita. Viviamo in tempi non rivoluzionari. E, se una rivoluzione esiste, è quella neoliberista per la quale non esiste altra realtà che quella in cui viviamo. Nell’orizzonte di una vita umana, ovunque è negata la praticabilità di un’autonomia. Il lavoro non è il luogo della cooperazione, ma dell’auto-sfruttamento a titolo gratuito. Il futuro è un incubo, senza pensione, né reddito.

Proprio in questo abisso, al culmine della disperazione, c’è una vita che brulica e dimostra l’esistenza di un’alternativa nelle pratiche quotidiane. Quelle incarnate nei corpi che si spingono contro quell’orizzonte. Al crepuscolo, torniamo a leggere il verso di Baudelaire, citato all’inizio del libro: “Avviso ai non comunisti: tutto è comune, anche Dio”.

fonte: Alfabeta2


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