Scavare nella polvere con Pietro Ingrao

Scavare nella polvere con Pietro Ingrao

di Leonardo Paggi, ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Modena e Reggio Emilia

intervento alla Camera dei Deputati, 31 marzo 2015 nell’ambito del convegno dedicato al compagno Pietro Ingrao in occasione dei suoi cento anni. Il video integrale lo trovate qui. Una versione ridotta dell’intervento è stata pubblicata nell’inserto che il Manifesto ha dedicato al compleanno di Ingrao con il titolo “A che ora è il comunismo?”.

1. Siamo oggi qui riuniti per onorare Pietro Ingrao, non per lodarlo – vorrei dire parafrasando versi famosi. I suoi cento anni sollecitano infatti un bilancio impegnativo e severo di quella cultura del bene comune di cui ostinatamente ci sentiamo parte, e che pur passando attraverso tante incarnazioni e tante vicissitudini sembra non voler sparire dalla mente degli umani. Il nodo storico che si impone alla riflessione è quello dell’intreccio strettissimo tra storia del pci e storia della nostra democrazia repubblicana, quale comincia a delinearsi quanto meno all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, allorché Ingrao tiene il suo primo comizio a Porta Venezia, a Milano, salendo sul tetto di un camioncino affittato con Elio Vittorini. Ingrao ci ha raccontato molto di sé. Ci ha detto anche che la scelta della lotta politica è nata in lui da un impulso di libertà indotto dalla violenza nazista. A guerra finita Sartre scriverà in modo volutamente paradossale: non fummo mai tanto liberi come durante l’occupazione nazista. Stiamo parlando della libertà come impulso esistenziale che si origina da una percezione incoercibile della propria individualità, e dunque della propria capacità di scegliere e di decidere. Non a caso il giovane Ingrao parte come poeta. La poesia è la prima manifestazione del suo impulso di libertà, libertà di creare con la lingua e nella lingua. Ma tutti i linguaggi sono un mezzo e nello stesso tempo un limite. Con questa ambivalenza Ingrao farà a lungo i conti avendo scelto di parlare la lingua del comunismo italiano e internazionale che da un lato veicola ribellione e rivolta, bisogno di libertà, dall’altro impone disciplina, conformismo, e la ripetizione di stereotipi che bloccano l’innovazione necessaria. Della decisione di pubblicare un suo libro di poesie darà nel 1986 questa spiegazione: “C’entra la convinzione che un certo tipo di linguaggio non riusciva più a cogliere tutti gli aspetti della realtà. La comunicazione politica è ormai poverissima. Io stesso quando salgo su una tribuna sento una costrizione”. Ma quando tre anni dopo si apre per quel linguaggio politico la resa dei conti finale Ingrao difende il suo comunismo come “grumo del vissuto”, o ancora come “orizzonte” irrinunciabile. In che misura fu conservazione, ossia fedeltà a un passato ormai irrimediabilmente concluso, come dissero i suoi avversari, e in che misura fu un modo per rimanere fedele a contenuti politici irrinunciabili che stavano per essere archiviati nel nuovo corso politico del suo partito? Forse entrambe le cose. Certo è che l’oscillazione tra conservazione e innovazione, tra ortodossia e eresia, accompagna Ingrao in tutta la sua vita di politico e di intellettuale. Da un lato si sente erede di tutta la storia del movimento operaio, di cui accetta i successi come le sconfitte e le involuzioni, dall’altro è pervaso dall’ansia, quasi dall’ossessione di cogliere tempestivamente i cambiamenti che si producono nel mondo che attraversa nella sua lunga vita ed è quindi insofferente delle vulgate. Questa ambivalenza, che è anche un’inquietudine, lo rende inconfondibilmente diverso rispetto al gruppo dirigente del pci che nel suo modo di parlare e di scrivere sembra spesso appagarsi di una tranquilla, un po’ noiosa, spesso inconcludente, routine politica.

2. Nella storia del comunismo italiano Ingrao si distingue inconfondibilmente per l’enfasi che pone su due aspetti della via italiana al socialismo. In primo luogo la consapevolezza che le sorti della democrazia sono sempre affidate non alle procedure ma ai rapporti di forza. E’ questo il nucleo autenticamente machiavellico del pensiero di Togliatti che dall’andamento catastrofico della prima metà del 900 ha ricavato la convinzione che nessuna conquista del movimento operaio possa essere considerata acquisita una volta per tutte. L’attenzione che Ingrao porta ai movimenti sociali non è movimentismo (come gli viene spesso rimproverato), ma consapevolezza che solo nel conflitto sta la possibilità di accumulare nuove risorse politiche indispensabili per una strategia di lunga lena. Nello stesso tempo c’è una attenzione costante ai profili istituzionali della forma della rappresentanza e della forma di governo, ossia una grande consapevolezza del ruolo che la forma giuridica può svolgere nell’esito del conflitto sociale. Sono accenti che accompagnano tutta la sua riflessione e la sua attività quale comincia a caratterizzarsi negli anni Sessanta. Togliatti, che nel 1961-62 ha fatto al centrosinistra decise aperture di credito, non chiudendosi in una condanna astrattamente ideologica del riformismo, afferma nel luglio del 1964, ormai a consuntivo di quella esperienza: “La sola riforma è stata quel tanto o poco di aumento delle retribuzioni che il movimento sindacale è riuscito ad imporre”. Affermazione lungimirante: nei prossimi dieci anni saranno proprio le lotte dei lavoratori, e non le formule di governo, a cambiare il volto del paese, e a introdurre decisive riforme dal basso . Il vento soffia ora nelle vele della via italiana al socialismo. E con Ingrao nasce l’ “ingraismo”, che non è una corrente ( come è noto, lui voterà a favore dell’espulsione del gruppo del Manifesto con una paradossale difesa del centralismo democratico), ma un tentativo di mettere la tradizione dei comunisti italiani in comunicazione con una società che sta cambiando in modo turbinoso. Credo tuttavia che se vogliamo onorare Ingrao, ossia andare ad una considerazione non solo celebrativa e di maniera del suo profilo intellettuale e politico, sia giusto metterlo a confronto con la grande difficile sfida che si profila alla metà degli anni Settanta, quando improvvisamente si arresta il circolo virtuoso tra sviluppo capitalistico, crescita del movimento operaio e allargamento della democrazia, e la crisi di identità del partito comunista che ne deriva comincia a riflettersi specularmente nella crisi di stabilità della repubblica. Con il compromesso storico Berlinguer ha evocato la possibilità di una avventura reazionaria. Ma all’orizzonte si affaccia qualcosa di molto più radicale del tintinnare delle sciabole. Per usare il linguaggio di Montale, la storia cambia ora di binario.

3. Non è facile riassumere in breve quella cesura profonda nella storia del capitalismo internazionale, che è anche in qualche misura fine del lungo dopoguerra. Per rimanere ai termini di una analisi essenzialmente economica, eppure densissima di implicazioni politiche, si può dire che l’obbiettivo storico della piena occupazione viene retrocesso rispetto a quello della lotta all’inflazione. Per la prima volta le grandezze monetarie cominciano a comandare gli andamenti della economia reale. Cosa vuol dire questo per il movimento operaio? Che le lotte rivendicative che fino a ieri hanno fruttuosamente spinto per un allargamento del mercato interno e per l’attuazione di riforme sociali che tardivamente hanno allineato l’Italia agli standards europei di stato sociale, sono improvvisamente dichiarate incongruenti e nocive. Contestualmente, ed è forse questo il dato più importante, tra il 1971 e il 1973 si compie il tramonto definitivo del sistema monetario di Bretton Woods fondato su un regime di cambi fissi e il controllo amministrativo dei flussi di capitale. Si chiude quel vantaggioso rapporto tra economie nazionali e mercato mondiale, fatto di interdipendenze ma anche di autonomia, che ha consentito il grande rilancio economico di un’Europa che la seconda guerra mondiale ha trasformato in un campo di battaglia. D’ora in poi masse crescenti di capitale finanziario liberamente fluttuanti sui mercati internazionali cominciano ad erodere la sovranità dello stato nazione europeo. Si delinea prospettiva la crescita esponenziale del debito pubblico sempre più collocato fuori dei confini nazionali, che apre il fianco ad un ricatto permanente, e la diminuzione progressiva del governo autonomo delle grandezze macroeconomiche. Fa la sua prima apparizione il vincolo esterno come nuovo, cruciale protagonista politico, che deriva la sua forza dal presentarsi come risultante di una presunta assoluta e indiscutibile oggettività economica. Man mano che si assottiglia lo spessore della dimensione nazionale la politica si spoliticizza, diventa tecnica. Il movimento operaio perde progressivamente l’unica controparte su cui può premere con la sua forza organizzata, nello stesso momento in cui i livelli già conseguiti della contrattazione economica e politica sono messi sotto attacco. In questa situazione imprevista ed inedita, che in Italia si interseca con i problemi politici posti dalla fine della centralità della Dc, Ingrao comincia a scrivere libri. Talvolta sembra quasi che l’intellettuale sopravanzi il politico, che la tribuna del partito non riesca più a recepire la complessità delle domande che si affollano nella sua mente. In questo senso è davvero significativa la sua decisione di non rinnovare nel 1979 l’incarico di presidente della Camera, come gli viene pressantemente richiesto dal partito, per riservarsi un compito di organizzazione della cultura. Il linguaggio del pci è chiamato a fare i conti con uno scenario radicalmente mutato. La tesi, ardua, di Berlinguer è che dalla crisi proviene “un bisogno di socialismo”. Ingrao elabora una sua più personale e più sofisticata visione della fase in corso, che è a suo avviso contrassegnata da “l’inceppo complessivo nei meccanismi con cui lo stato assistenziale tende a controllare e a governare la vita delle masse”. Si tratta di una crisi di egemonia, egli dice espressamente, che in quanto tale aprirebbe la possibilità di equilibri più avanzati. Naturalmente non c’è traccia di automatismo nella sua analisi, al contrario “lo sbocco- egli dice- è tutto da vedere”. Insiste sulla compresenza di “potenzialità e pericoli” e in una intervista del 1977 parla di una “ambiguità” diffusa, “come se stessimo in bilico tra un salto di qualità verso una civiltà superiore e il precipitare nella degenerazione”. Da questo scenario a maglie assai larghe, che però sicuramente privilegia la possibilità di nuovi significativi avanzamenti del movimento operaio, nasce la proposta di una terza via, oltre il fallimento di comunismo e socialdemocrazia. C’è indubbiamente la volontà di andare ad una riflessione libera, a 360 gradi, ma l’indicazione non supererà la soglia di una vaga suggestione, senza riuscire a tradursi in concretezza programmatica. Eppure, che le politiche keynesiane non siano più applicabili, che lo stato sociale cominci ad essere presentato come un costo troppo oneroso non è cosa che riguardi solo le socialdemocrazie. Frana anche il terreno su cui il PCI, e il sindacato, hanno costruito il rapporto tra rivendicazioni e riforme, e si appanna contestualmente lo scenario, tante volte evocato, secondo cui lo sviluppo della partecipazione e la diffusione della politica sarebbero stati sufficienti, di per sé, a far progredire verso il socialismo. Insomma il partito comunista, ad onta dei suoi collegamenti internazionali che ne hanno segnato la indubbia diversità, ha avuto successo nella misura in cui ha saputo beneficiare delle stesse condizioni che hanno favorito il movimento operaio europeo. Ed è esso stesso investito dalla crisi nel momento in cui quelle condizioni vengono meno. E’ quanto l’ipotesi della terza via sembra non volere accettare, rivendicando una specificità italiana che non è confortata dai fatti.

4. Mi spiego anche con la mancanza di un confronto ravvicinato con i problemi stringenti insorti con lo shock degli anni Settanta il fatto che la sinistra comunista non riesca a contrastare la cultura del postcomunismo che comincia ora a prendere piede all’interno del partito e del sindacato. In questa area politica è dichiarata l’intenzione di porsi nell’alveo del socialismo europeo, il quale viene tuttavia invocato più come manichino ideologico, come segnale di appeasement verso il partito socialista di Bettino Craxi, incoronato come il Mitterrand italiano, che come terreno di confronto reale con la ricca e multiforme esperienza di governo delle socialdemocrazie di Germania, di Svezia, di Austria. Forse proprio su questo terreno si sarebbe potuto portare allo scoperto tutta la debolezza e il bluff di un indirizzo politico che in nome della modernità propone una agenda in cui cadono uno ad uno tutti i temi storici del movimento operaio Con la vocazione nazionale della classe operaia il postcomunismo giustifica l’ accoglimento della politica di moderazione salariale richiesta, in nome del vincolo esterno, dalla Confindustria di Guido Carli. Naturalmente le politiche dei redditi sono parte integrante della esperienza socialdemocratica, ma sempre nel più vasto quadro di accordi complessivi sull’andamento delle grandezze macroeconomiche. Il tratto singolare di questa versione postcomunista della politica dei redditi sta nell’assenza di garanzie o contropartite di alcun tipo. C’è solo la presunzione azzardata, priva di qualsiasi supporto teorico e politico, che sia sufficiente ridare spazio al profitto, a scapito del salario, per avere più investimenti e quindi più occupazione. Questa idea politicamente suicida, oltre che priva di ogni fondamento di teoria economica, che il peggioramento delle condizioni contrattuali e retributive del lavoro sia un passaggio necessario per la ripresa economica arriva come è noto fino ad oggi. Ha inizio così, con una inflazione rampante, il progressivo abbandono della scala mobile, fino a quando nel 1992 Bruno Trentin, interlocutore privilegiato di Ingrao nel sindacato, sigla con il governo Amato la definitiva soppressione del provvedimento. Il significato simbolico di questo approdo, sul terreno delle relazioni politiche, è forse più importante delle implicazioni negative che esso ha per il salario e i livelli della domanda globale. Successivamente, negli anni Novanta, la cultura del postcomunismo si eserciterà essenzialmente nel veicolare una visione totalmente acritica del processo di unificazione europea. La filosofia del Trattato di Maastricht, costruita attorno alla centralità del mercato, è frontalmente contrapposta alla filosofia della nostra Costituzione, costruita attorno alla centralità del lavoro. Ma tutti preferiscono fare finta di nulla. Guido Carli, che firma il Trattato in qualità di Ministro del Tesoro, scrive nelle sue memorie: “ Ancora una volta si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria…ancora una volta dobbiamo ammettere che un cambiamento strutturale avviene attraverso l’imposizione di un vincolo esterno”. La retorica politica di quegli anni non è sfiorata da ombra di dubbio: “In Europa, in Europa”, si ripete con enfasi crescente. Ed è un po’ come “ A Mosca a Mosca” nel Giardino dei ciliegi. Intanto i cosiddetti parametri di Maastricht, che Ciampi sottoscrive senza ombra di dubbio, chiudono la nostra economia in un corsetto di acciaio. Ci vorrà la crisi del 2008 e poi il tonfo delle ricette di Mario Monti perché si cominci ad aprire gli occhi. Ma la “cultura della stabilità” di stampo tedesco ha messo ormai radici troppo profonde, ed il segno della sua egemonia è dimostrato dal fatto che il termine di riforma passi dalla sinistra alla destra con un ribaltamento totale di significato.

5. Il confronto più ravvicinato che Ingrao impegna con il postcomunismo si sviluppa tuttavia nella lettura della crisi del sistema politico repubblicano che esplode vistosamente negli anni Ottanta. A questo proposito il suo scambio di lettere con Norberto Bobbio pubblicato da Luisa Boccia e Alberto Olivetti, con il commento di Luigi Ferraioli, costituisce un documento di grande interesse storico. Riletti oggi gli interventi di Bobbio colpiscono per una certa loro arroganza intellettuale. L’intenzione è quella di azzerare, destituendole di ogni significato, le parole chiave di un intero lessico politico che è, sì , quello dei comunisti italiani, ma in misura non secondaria anche quello della Costituzione, non a caso nata all’unisono con la cultura della stato sociale, dominante in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Affermare che l’unico linguaggio dotato di significato concreto è quello dello stato di diritto, per cui la libertà si definisce solo in negativo, significa mettere in mora l’articolo 3 della Carta. Bobbio se la prende con il termine “masse”. Ma il tratto inconfondibile della democrazia europea rinata con il 1945, dopo il fallimento clamoroso degli anni Venti e Trenta, è stato quello di realizzare la piena integrazione del movimento operaio, che è per l’appunto un movimento di massa. Si denuncia poi la politica di unità come impossibile alternativa al “modello Westminster” della alternanza. Ma nella storia del comunismo italiano il tema nasce da una riflessione sui pericoli politici insiti in una stratificazione economica e sociale segnata da fratture e contraddizioni profonde. E’ il frutto di una analisi che fa i conti con la storia d’Italia, non nasce da astratte prescrizioni politologiche. Procedendo su questa strada Bobbio vuole mettere nell’angolo, in punizione, anche Antonio Gramsci. Perché ricorrere al concetto fumoso di egemonia quando il dispositivo elettorale basta a dirci chi ha il consenso e chi no? A questo punto le risposte di Ingrao si fanno di necessità didascaliche : il consenso elettorale della Dc non è facilmente spiegabile senza il ruolo della Chiesa, senza il controllo di tutte le istituzioni che fungono da volano dello sviluppo, senza la gestione ad libitum del bilancio pubblico. Eppure Bobbio è uno studioso appassionato di Mosca e Pareto, i teorici della circolazione delle elites, a cui non a caso Gramsci ha guardato con grande attenzione già negli anni della formazione, secondo cui ogni avanzamento democratico è destinato a svuotarsi nello scontro con i poteri costituiti, i poteri egemonici, appunto, e a risolversi in un semplice avvicendamento di classe politica. Perché allora misurare i problemi politici di una società di capitalismo maturo con il costituzionalismo di primo Ottocento, con “la libertà dei moderni” di Benjamin Constant? Siamo dinanzi ad una scelta tutta politica. La governabilità, si pensa, può e deve essere garantita con la riduzione della complessità, con un esplicito ritorno allo statuto. Ma alleggerire così vistosamente la responsabilità e vorrei dire la complessa carica semantica del lessico democratico significa incoraggiare la separazione della politica dalla società civile, ossia spingere di fatto in direzione della casta. Non a caso al centro della proposta di Bobbio sta la riforma della legge elettorale. Lo scopo è quello di fare arretrare il potere dei partiti con meccanismi di ingegneria istituzionale, senza riflettere sulle ragioni di una crisi che si origina nei loro mutati rapporti con la società e con lo stato. La tesi di Bobbio sarà largamente vincente. In un clima di attacco sempre più generalizzato al partito di massa, le condizioni dell’alternanza sono, con il cambiamento del nome, il tema che più di ogni altro caratterizza lo scioglimento del pci. I tecnici della legge elettorale sono gli intellettuali organici della nuova formazione politica. Nel 1993 il Partito democratico della sinistra è determinante per l’affermazione del movimento referendario guidato dal conservatore Mario Segni, la cui parola d’ordine, di stampo apertamente populista, suona: dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini. E’ proprio questa la strada che si appresta a percorrere la nuova destra di governo. Il tema della riforma elettorale, di cui stiamo vivendo ora una preoccupante riedizione, è insomma nel Dna di questo partito, che fin dalla sua costituzione punta decisamente ad una modificazione di tratti fondativi della repubblica parlamentare.

6. Credo sia giusto ricordare che Ingrao è l’unico membro del gruppo dirigente comunista che fin dagli anni Settanta contrasta apertamente l’offensiva di Bobbio su Gramsci e sul problema istituzionale. Altri l’accolgono come liberatoria, portatrice di laicità e modernità, stimolo utile per emanciparsi dalle vecchie identità del passato. La risposta di Ingrao sta nella difesa a oltranza della centralità del parlamento. Ferraioli ha già messo in evidenza quanto forti siano nelle sue analisi di allora le premonizioni della crisi in cui versa oggi la nostra democrazia. La sua debolezza, invece, mi sembra consistere nel fatto che la riproposizione di quel tema non si fa carico di un fatto nuovo. Ossia la crisi della forma partito su cui invece insiste con toni sempre più apertamente liquidatori la cultura del liberalismo ristretto ora ricordata. Nel 1984 Paolo Barile organizza a Firenze un convegno che solleva il punto cruciale : il sistema dei partiti sta perdendo capacità di decisione e impone all’organo giurisdizionale un crescente ruolo di supplenza. Non c’è qui l’attacco ideologico alla partitocrazia, ma la denuncia allarmata di un pericolo che minaccia l’assetto istituzionale previsto dalla Costituzione. Siamo ancora nell’alveo di pensiero di Piero Calamandrei, con cui la cultura azionista ha raggiunto il suo massimo punto di apertura democratica. In effetti la centralità del parlamento voluta dal costituente implica come corollario necessario l’esistenza di partiti che pur nascendo nelle pieghe della società civile siano capaci di trascenderla, superando il condizionamento degli interessi sezionali. Se nel modello liberale, che allora viene riproposto in toto, il partito è fonte di disgregazione, nel modello democratico è risorsa essenziale per la formazione dell’indirizzo di governo. Solo con partiti capaci di svolgere la funzione di sintesi il parlamento può divenire il luogo in cui prende corpo un processo legislativo spedito ed efficace. Ingrao propone l’abolizione del Senato come risposta alla crescente insidia corporativa, ma non si misura a sufficienza con questo più grave tema sottostante. Nel 1981 il Centro di riforma dello stato ha pubblicato una piccola raccolta di saggi che riconduce la crisi del partito proprio alla molteplicità delle spinte democratiche. Da un lato il partito aumenta il suo potere di comando come canale di redistribuzione delle risorse pubbliche, dall’altro – vi si dice – vede diminuire la sua capacità di sintesi di un sistema assai differenziato di interessi sociali. Forse sul filo di questa analisi sarebbe stato possibile rispondere alla indiscriminata offensiva antipartitica che sta aprendo la strada al partito personale del decennio successivo. Il tema cade invece rapidamente, anche in ragione della più facile e più gratificante agitazione sulla questione morale con cui il segretario del pci cerca di rispondere alla sconfitta elettorale del 1979. Quella presa di posizione, a cui Berlinguer deve in gran parte la sua rinata popolarità di oggi, ha nel contesto di allora un effetto a mio avviso deleterio nella misura in cui finisce, paradossalmente, per confondersi con la campagna che già preme per una seconda repubblica, emancipata dai “sovraccarichi” della democrazia. Del resto anche il PCI, se pure non coinvolto nel modello spartitorio, è afflitto da una crescente incapacità di sintesi politica. Il partito nuovo è diventato qualcosa di profondamente diverso dal movimento di popolo degli anni Quaranta. C’è sicuramente ancora la classe operaia che dal 1969 al 1975 ha combattuto grandi battaglie di emancipazione. Ma attraverso il sistema del governo locale, che ha raggiunto nel 1975 una diffusione nazionale, il partito governa anche nella misura in cui convive e tratta con forti interessi costituiti. Nell’Italia centrale la mezzadria comunista è diventata piccola impresa esportatrice che deve molta parte dei suoi profitti alla sistematica evasione fiscale e all’impiego massiccio di lavoro nero. Il ceto intellettuale, cresciuto a dismisura con la moltiplicazione dei servizi, non è più quello di Vittorini e Pavese. Cerca posti e ruoli nella organizzazione della cultura e smania per diventare classe politica tramite l’ingresso nelle assemblee elettive. Insomma sono largamente presenti proprio i tratti di quel “partito sensale” che Ingrao è solito evocare per condannare una politica che si risolve nella mediazione paralizzante di interessi corporativi. Forse anche questa composizione sociologica aiuta a spiegare il successo della proposta di auto scioglimento che ebbe i tratti di una scorciatoia teatrale. Anche alla luce delle involuzioni successive deve essere rivalutata la valenza critica anche se non propositiva del “non ci sto” di Ingrao. Con questa versione della trasformazione del PCI, che era pur necessaria, e anzi troppo a lungo differita, prendeva piede una strana declinazione del termine di riformismo. I suoi tratti distintivi erano il ritorno allo statuto in politica istituzionale e la accettazione sostanziale del liberismo in politica economica. Certo si trattò di un passaggio arduo, anche sul piano internazionale. Emmanuel Levinas disse nel 1992: “ Il dramma è che la fine del comunismo è la tentazione di un tempo che non è più orientato. Noi siamo abituati da sempre a considerare che il tempo va da qualche parte…ed ecco che oggi si ha l’impressione che il tempo non vada più da nessuna parte”. Oggi è più facile vedere come la prospettiva di un futuro possibile, entro cui formulare la domanda cara a Levinas “che ora è?”, può essere articolata politicamente, laicamente, senza il supporto del mito.

7. Consentitemi di ricordare in chiusura una lunga conversazione che ebbi con Ingrao a Firenze, in una piccola trattoria di San Frediano, nell’ottobre 1989. Era deciso a combattere una battaglia di resistenza in nome del 34% di consensi che aveva ricevuto nel partito. Io sostenevo invece che proprio lui avrebbe dovuto prendere la testa del rinnovamento, per garantire la trasmissione di contenuti politici essenziali, palesemente sempre più a rischio. Ci lasciammo con posizioni diverse. Sperimentai ancora una volta il suo grande rispetto per la differenza. Amava troppo il dialogo, e troppo connaturata era la sua attenzione per l’altro, per chiedere fedeltà di alcun tipo. Dopo l’89 lo sforzo di Ingrao sarà quello di tenere aperte le maglie di una analisi politica che si fa sempre più asfittica e provinciale. Ma tra il pensiero e l’azione si è determinata ormai una frattura. La forza delle cose lo spinge inevitabilmente fuori dal “gorgo”, che nel suo lessico significa, credo, il farsi quotidiano, imprevedibile, e sempre aggressivo, della storia. Ricucire quella frattura è forse il compito più arduo per la ricostituzione di una sinistra critica. “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”, dice un bel verso di Ingrao, che lui stesso così commenta: ”La parola torre e la parola polvere fanno pensare ad una distanza che in realtà non c’è: scavare nella polvere se si vuole essere torre”. Lasciandosi alle spalle l’attesa infantile di un improbabile leader, è tempo di tornare nel gorgo, nella polvere, con la forza ragionata di un programma, a cui ciascuno possa dare un suo contributo. Mi pare che un intero periodo storico si stia chiudendo. Nello spazio politico del centrosinistra che si delinea con lo scioglimento del PCI ha preso corpo un attacco frontale ai diritti del lavoro e al carattere parlamentare della nostra democrazia. La battaglia per un’altra Italia in un’altra Europa non è nemmeno pensabile, per la sua complessità, senza la definizione di un programma. Alla sua articolazione dovrebbero attendere quanto prima le forze che in modi diversi sentono un loro legame con la vita di Ingrao, in quel pieno rispetto della differenza reciproca che è stato tratto così marcato della sua personalità.


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