La sinistra alla prova regionale

La sinistra alla prova regionale

di Tommaso Nencioni

La sfida por­tata dal ren­zi­smo è a tutto campo, e a poco serve la denun­cia, è più che mai urgente la ride­fi­ni­zione del campo dell’alternativa. Magari comin­ciando, in pros­si­mità di un’importante tor­nata di ele­zioni ammi­ni­stra­tive, pro­prio dal livello locale. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi, sugli enti locali è infatti uno dei pun­telli prin­ci­pali del nuovo assetto del potere cen­trale. Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi è uno dei pun­telli del nuovo assetto del potere centrale.

Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il bastone delle pri­va­tiz­za­zioni, degli appalti anti-economici, della pre­ca­rietà e delle sue forme estreme, che Anto­nio Bevere di recente rifor­mu­lava come nuove schia­vitù (il “lavoro gra­tis”). E la carota del clien­te­li­smo, della “con­su­lenza” maxi e mini come scor­cia­toia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di pro­gres­sivo sfa­ri­na­mento. Anche appro­fit­tando del bat­tage pub­bli­ci­ta­rio delle “archi­star” ami­che, chia­mate a dar lustro al regime tra­mite opere di dub­bio impatto sociale.

Troppo a lungo le forze di alter­na­tiva si sono illuse di poter lucrare un qual­che van­tag­gio dalla par­te­ci­pa­zione subor­di­nata alla gestione locale del potere, a meno di con­si­de­rare tali le ren­dite di posi­zione di mini-apparati buro­cra­tici auto­re­fe­ren­ziali. La risco­perta del valore popo­lare e con­te­sta­tivo delle auto­no­mie locali dovrebbe entrare di diritto a far parte di un più vasto dise­gno di ripresa dell’alternativa politica.

E sì che la sto­ria del movi­mento ope­raio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fer­menti da ripro­porre, aggior­nati alla nuova sta­gione di lotte. Non solo di “buona ammi­ni­stra­zione” si sta qui par­lando. Anche di que­sto, certo: l’orgoglio che anche i subal­terni potes­sero dar prova di sapienza ammi­ni­stra­tiva, appren­dendo a farsi classe diri­gente attra­verso la pale­stra del “comune demo­cra­tico”, costi­tuì una potente leva per il muni­ci­pa­li­smo socia­li­sta e poi comu­ni­sta. Ed un pro­fondo rin­no­va­mento del per­so­nale ammi­ni­stra­tivo si rende neces­sa­rio ancor oggi, a fronte del più sfre­nato tra­sfor­mi­smo e dell’infeudamento dei gruppi diri­genti locali al partito-dello-Stato e agli inte­ressi delle élite economico-finanziarie che lo sosten­gono.

Ma, più in gene­rale, è la teo­riz­za­zione delle auto­no­mie locali come contro-potere a pre­starsi ad un’opera di attua­liz­za­zione. Oggi come allora infatti, per usare le parole di Filippo Turati, l’ente locale appare «servo dello Stato, qual­che volta servo rilut­tante e non mai ribelle; pre­cet­tore, ammi­ni­stra­tore, poli­ziotto, in gran parte per conto dello Stato, quasi tenesse il potere per tol­le­ranza di que­sto; non rea­gi­sce né influi­sce sul governo, non sente biso­gno di auto­no­mie, non lotta per la pro­pria libertà».

Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giu­di­zio sugli indi­rizzi per­se­guiti nell’attuale sta­gione varia di poco. Sem­pre è stata viva, a sini­stra, la pre­oc­cu­pa­zione che l’istituto regio­nale si con­fi­gu­rasse come una som­ma­to­ria di buro­cra­zie mera­mente sovrap­po­ste a quelle dello Stato cen­trale. Per ovviare a que­sti rischi, la bat­ta­glia regio­nale fu da subito legata da un lato a quella per la pia­ni­fi­ca­zione eco­no­mica e ter­ri­to­riale — fu in que­sto senso il Pli di Mala­godi il più aspro e con­se­guente avver­sa­rio del varo delle regioni; dall’altro ad una esi­genza di mag­giore par­te­ci­pa­zione popo­lare — è signi­fi­ca­tivo che alle regioni si arrivi al cul­mine del “secondo bien­nio rosso” (1968–1969). Il rove­scia­mento a cui oggi assi­stiamo in que­sti campi è totale: i con­si­gli regio­nali ridotti a casse di com­pen­sa­zione per un ceto poli­tico iper­tro­fico e desi­de­roso di ban­chet­tare sulle spo­glie dello Stato; dere­gu­la­tion eco­no­mica ed urba­ni­stica pro­mossa in con­certo tanto dallo Stato cen­trale quanto dalle ammi­ni­stra­zioni peri­fe­ri­che; leggi elet­to­rali regio­nali che in molti casi mor­ti­fi­cano la libera espres­sione della volontà elet­to­rale, ben oltre i limiti già scan­da­losi del modello nazio­nale su cui ven­gono ricalcate.

Non basta tut­ta­via ispi­rarsi alla let­tera della lezione della sto­ria per inver­tire le attuali ten­denze regres­sive; né denun­ciare mora­li­sti­ca­mente lo stato di cose esi­stente. E’ la stessa rifles­sione cri­tica sul pas­sato del nostro movi­mento ope­raio a con­se­gnarci una duplice ere­dità, da tener di conto ora più che mai. Gli avan­za­menti del potere popo­lare a livello locale, infatti, sem­pre sono stati in con­nes­sione con lo svi­luppo delle grandi mobi­li­ta­zioni sociali, e con l’emergere di gruppi diri­genti nuovi in sim­biosi con le aspi­ra­zioni emerse dal con­flitto. E sem­pre si sono rile­vati assai fra­gili, in assenza di una stra­te­gia nazio­nale al cui interno potes­sero essere inqua­drati.

Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza poli­tica e del rifu­gio nel loca­li­smo pro­ce­dono di pari passo. La dia­let­tica tra il momento locale e quello nazio­nale nella sfida poli­tica di alter­na­tiva può assu­mere però con­torni vir­tuosi, a patto che si incarni in una serie di can­di­da­ture legate a movi­menti di resi­stenza con­cre­ta­mente dispie­gati sui ter­ri­tori, ed allo stesso tempo uni­fi­cate da un dise­gno com­ples­sivo di cam­bia­mento politico.

fonte: Il manifesto, 27 febbraio 2015

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