Ma quale “Devastazione e Saccheggio”.. aboliamo il Codice Rocco

Ma quale “Devastazione e Saccheggio”.. aboliamo il Codice Rocco

di Italo Di Sabato – Osservatorio sulla Repressione

Da Genova in poi è tornato di moda e il reato che si rifà alle norme fasciste: accuse generiche e pene pesanti è ora di finirla. Il 20 dicembre a Teramo un assemblea nazionale per la lanciare la campagna per l’aboilizione del Codice Rocco.

L’articolo 419 del codice penale recita: “Devastazione e saccheggio” e dispone: “Chiunque commette fatti di devastazione o saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”.

Si tratta di un reato contro l’ordine pubblico introdotto in Italia sotto il regime fascista col famigerato Codice Rocco del 1930 (codice tuttora vigente in moltissime sue parti). Un reato espressamente pensato per reprimere sommosse e moti di piazza. Ai tempi della dittatura prevedeva addirittura la pena di morte.

Grazie a questa particolare norma giuridica è possibile infliggere condanne che vanno dagli 8 ai 15 anni senza dover materialmente provare una condotta criminosa. E’ sufficiente trovarsi in un luogo dove ci sono dei disordini, venire fotografati o riconosciuti, sorridere o dimostrare “empatia” nei confronti di quello che accade. Dagli stadi alle piazze, passando per i CIE, veri e propri lager per migranti, questo reato è stato recuperato per annichilire qualsiasi espressione del dissenso, uno spauracchio ingombrante, grazie al quale è più facile comminare pene enormi a chi si vuole colpire. Pene persino superiori a quelle previste per reati come l’omicidio.

E’ accaduto nei processi per il g8 di Genova del luglio 2001 e per gli incidenti a Piazza San Giovanni a Roma dell’11 ottobre 2011, sta accadendo ora con frequenza sempre più allarmante.

Questo articolo del codice penale è stato, per onor di cronaca, “usato” nel nostro paese molto raramente dal dopoguerra fino alla fine del secolo. Bisogna arrivare al 4 Aprile 1998, quando il reato di devastazione viene riutilizzato per la prima volta. A Torino in seguito agli incidenti avvenuti al corteo dopo la morte nel carcere delle Vallette dell’anarchico Edoardo “Baleno” Massari, ingiustamente detenuto per attentati contro i primi cantieri del TAV in Val di Susa, la Procura denunciò alcuni manifestanti per devastazione.

Dopo i fatti accaduti durante il vertice del G8 a Genova nel luglio del 2001 si è in qualche modo “sdoganato” nella giurisprudenza corrente il reato di devastazione e saccheggio, ed il ricorso delle procure nell’applicare il reato è divenuto costante.

Per il G8 di Genova, 10 manifestanti sono stati condannati a 100 anni di carcere. Le pesantissime condanne vanno da un massimo di 15 anni ad un minimo di 6 anni e 6 mesi di carcere.

Dopo Genova l’accusa è ricaduta sui militanti antifascisti a Milano durante gli scontri in Corso Buenos Aires dell’11 Marzo 2006 e per gli scontri in Piazza San Giovanni a Roma del 15 Ottobre 2011. Undici persone hanno già subito dure condanne. A questi si aggiungono altre 25 persone imputate per un altro procedimento, apertosi nell’Ottobre del 2013.

Senza dimenticare che più volte il reato è stato contestato agli ultras per incidenti durante le manifestazioni sportive.

Un reato sempre “di moda” quindi. E mentre i mass media sono pronti a trepidare per qualsiasi tipo di rivolta al di là dei nostri confini, quando a ribellarsi sono i giovani di casa nostra, li additano come nuovi terroristi.
E’ chiaro che il reato di “devastazione e saccheggio” è diventato la scure in mano alla magistratura per recidere il conflitto sociale, per punire in misura abnorme ogni manifestazione di conflitto che non rientri nel recinto della compatibilità e della concertazione. Denunce di ogni tipo, arresti e carcerazioni preventive, obblighi di firma e di dimora nei confronti di chi ha provato a costruire strade alternative dentro la crisi: basta un magistrato zelante e il gioco è fatto.

Il paradosso è che viviamo in un paese in cui i comportamenti delle forze dell’ordine e la cultura fascistoide egemone negli apparati di sicurezza sono diventati un vulnus per la democrazia.
Del resto siamo il paese che in questi anni si è fatto “promotore” in giro per il mondo della “difesa dei diritti umani” a suon di bombe (in ex-Yugoslavia come in Libia, in Irak come in Afghanistan), ma si è “dimenticato” di inserire nel proprio codice penale il delitto di tortura e non ha nessuna intenzione di inserire una norma di civiltà come il numero identificativo di riconoscimento sulle divise delle forze di polizia in servizio di ordine pubblico.

Altrettanto significativo che alcuni gravissimi reati contro la persona, come lo stupro e la pedofilia, prevedano pene molto minori rispetto al reato politico di devastazione e saccheggio, oppure che i dirigenti di polizia che hanno permesso che si torturassero i ragazzi nelle caserme Ranieri a Napoli e Bolzaneto a Genova, sono stati condannati a pene lievissime. Come a dire che in Italia chi tocca la proprietà privata muore, chi infierisce su un essere umano può invece farla franca a buon mercato.

Questo è un problema che abbiamo di fronte, oramai non più rinviabile, che deve indurci ad interrogarci sulle ragioni per le quali in tutti questi anni non si è mai avuto la forza e la capacità di abrogare il codice Rocco e chiudere con la stagione della legislazione di emergenza.

Davide Rosci e Mauro Gentile, due giovani condannati per devastazione e saccheggio per fatti accaduti l’11 ottobre 2011 in piazza San Giovanni a Roma, nelle scorse settimane hanno lanciato un appello per una assemblea nazionale, da tenersi a Teramo sabato 20 dicembre, contro la repressione e per lanciare una campagna per l’abrogazione del codice Rocco.

Se, com’è possibile, in tempi futuri ci saranno tumulti e momenti di resistenza sempre più intensi, sarà bene riprendere l’iniziativa politica sulla questione giustizia come tema di elevato significato, civile e costituzionale. E’ essenziale riappropriarci dei valori storici di libertà e di uguaglianza, nelle piazze come nella aule di giustizia. L’appuntamento di Teramo può e deve essere un occasione di una mobilitazione unitaria per tutti i movimenti.

 


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