Care compagne, cari compagni

Care compagne, cari compagni

di Giuseppe Prestipino -

Cari compagni-amici e care compagne-amiche,

non sono propenso a scrivere una lettera indirizzata a diverse persone, usando il voi, e sono invece avvezzo, nell’epistolario, a usare il tu. Ma stavolta farò eccezione. Per la seconda volta, nelle elezioni politiche, non mi hanno fatto votare per il mio partito (di rifondazione) comunista. Abbiamo ormai ficcato in testa ai nostri vecchi elettori che il nostro partito non può presentarsi come tale in nessuna competizione politica nazionale. Altri hanno sconsigliato il voto inutile; il voto che avremmo voluto esprimere era invece inesistente. Questa seconda volta nessun capolista aveva in tasca la tessera del mio partito. Dovevo votare per un extraterrestre, per un signore venuto da non sappiamo quale lontano pianeta. Il suo secondo, in ogni lista italiana, era un rappresentante della cosiddetta società civile, come se i partiti (ma forse questi ultimi dinosauri sono ormai estinti) non fossero anch’essi parte della società civile intesa nel suo significato gramsciano. Il fatto è che tanto il nostro partito quanto alcuni movimenti di buone intenzioni, ma settoriali, sono una minuscola parte di quel grosso mollusco che sarebbe oggi preferibile chiamare società incivile. Avverto che voi, compagne e compagni, mi esortate ora a concludere rapidamente, dopo le mie troppo prolisse premesse distruttive, con un sia pur dubbiosa proposta costruttiva. Ma la mia conclusione sarà più lunga delle premesse, perché sarà copiata dal paragrafetto finale di un lungo articolo che ho scritto per me, prima delle elezioni, e che non manderò a nessuna rivista: «Il crollo delle dittature, anche di quelle rivoluzionarie, ha rinvigorito l’idea di Stato democratico. Pur se ammettiamo che vi sia stata una (breve) fase aurea della democrazia rappresentativa, non possiamo negare che essa attraversi oggi una crisi forse irreversibile, anche perché il potere reale si è trasferito altrove: nell’a-democratica governance globale, tecnocratico-finanziaria. Potere rappresentativo e forma partito appartengono infatti alla tramontata figura storica della sovranità nazionale, che la globalizzazione capitalistica ha di fatto abolito. Un simulacro di democrazia partitica perdura ancora, in alcuni paesi, con qualche antagonismo tra maggioranze e opposizioni? Ma, se tra gli oppositori anti-sistema vi sono ancora militanti comunisti, forse giova che non perdano la memoria del pensiero politico gramsciano. Che dichiarino fedeltà ai patti e ai programmi di legislatura condivisi con altri partiti e movimenti in una coalizione tra diverse liste e relativi simboli (non in una informe mescolanza), in una coalizione strumentale dichiaratamente condizionata dalle barbariche leggi elettorali; ma tengano ferma e pronuncino con chiara voce come idea di libertà presente quella di un futuro proiettato nei tempi lunghi che verranno, dopo quella breve legislatura. E, a tal proposito, sappiano elaborare anche una coerente critica di se stessi. L’idea moderna di comunismo non può essere disgiunta dal concetto moderno di proprietà sulle cose perseguita, come ci insegna Marx, per poter dominare indirettamente le persone, concetto subentrante a quello premoderno di un dominio proprietario direttamente esercitato sulle persone. Il comunismo tradizionale, lottando per la proprietà (ancorché collettiva o appunto “comune”) sulle cose, non si discosta dal paradigma della modernità e quindi dai suoi presupposti “materialistici”. Non raggiunge ancora la tensione etica che, rovesciando ogni rapporto moderno o premoderno, fa dipendere la pur necessaria comunità dei beni dalla, preminente, comunanza tra le persone umane, tra tutte le persone umane. Gramsci, pensando al comunismo, lo designava come ‘umanesimo assoluto’ e aggiungeva: ‘In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo’».

Cari saluti.

Giuseppe Prestipino


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