Lavorare meno, lavorare tutti
Pubblicato il 22 ago 2014
di Claudio Gnesutta – da Sbilanciamo l’Europa – supplemento a il manifesto del venerdì -
«Lavorare meno, lavorare tutti». Che cosa ci dice oggi questo slogan tanto vecchio e tanto attuale, tanto solidale e tanto conflittuale, tanto velleitario e tanto profetico? Molte personalità del passato più o meno prossimo (Keynes, Gorz, Rifkin, Beck) hanno interpretato, con l’ottimismo della ragione, il dinamismo del progresso tecnologico come il deus ex-machina dell’inevitabile processo di liberazione dell’uomo, della sua liberazione dal lavoro. Alla riduzione della fatica per i singoli si accompagnerebbe una distribuzione del reddito più giusta ed equilibrata.
Quell’affermazione ci dice che è realistico pensare a una riorganizzazione più equa della società che distribuisca a tutti i frutti della crescita tecnologica. Ma quello che sta succedendo è diverso: l’aumento di produttività del lavoro che potrebbe portare alla riduzione delle ore di lavoro di ciascuno, viene utilizzato per ridurre le persone che lavorano a tempo pieno. La riduzione delle ore complessivamente utilizzate (di chi lavora e chi rimane a zero ore) è assicurata; l’equità no.
«Lavorare tutti» significa che le possibilità di occupazione si possono estendere, al di là dei Cipputi – delle fabbriche, dei servizi e dei lavori autonomi – che hanno un lavoro, anche alle loro mogli e figlie, aumentandone le opportunità di impiego e le possibilità di realizzazione personale. E che cosa succede ai salari se «lavoriamo tutti»? La redistribuzione del lavoro tra un numero maggiore di persone ruchiede di allargare la massa salariale, integrando i livelli più bassi di reddito con un più incisivo processo di redistribuzione. Ma il potere economico e politico ci dice che la priorità è la riduzione del costo del lavoro e che la redistribuzione attraverso l’azione pubblica è già ora insostenibile.
«Lavorare meno» ci dice che redistribuire il lavoro impiegato nella produzione di merci libera tempo che le persone possono impiegare per altre attività capaci a loro volta di “produrre” beni utili per migliorare la qualità della vita, individuale e collettiva. Ma per chi governa l’economia una migliore qualità della vita e del lavoro non è un obiettivo: non si traduce in beni da vendere sul mercato, è un aspetto politicamente irrilevante.
«Lavorare meno» ci dice che le maggiori occasioni offerte dal tempo liberato possono modificare la composizione dei consumi, poiché la disponibilità di relazioni interpersonali capaci di soddisfare le esigenze di realizzazione personale sono alternative all’accentuarsi di comportamenti consumistici. Ma dall’alto ci dicono che se il consumo (di merci) si ridimensiona, il Pil cade ed è messo a rischio l’equilibrio macroeconomico.
«Lavorare meno, lavorare tutti» ci dice che vi è un grande e entusiasmante spazio per deliberazioni democratiche sulla definizione consapevole dei modelli di produzione e di consumo e delle regole distributive della futura società. Il potere economico e politico ci dice che queste scelte non sono ammissibili poiché il futuro è tutto inscritto nelle leggi naturali del mercato. Le decisioni di come, quanto e cosa produrre devono rimanere nelle mani dei Marchionne di turno, cui spetta anche la scelta dei Cipputi ai quali concedere la propria benevolenza.
«Lavorare meno, lavorare tutti» ci dice che questo progetto di liberazione è realistico, ma non realizzabile a breve termine; che rappresenta una conquista collettiva determinante, ma solo se si riesce a ribaltare il cuore e la mente – e i rapporti di forza – dell’attuale organizzazione politica e sociale.
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