Lavorare meno, lavorare tutti

Lavorare meno, lavorare tutti

di Claudio Gnesutta – da Sbilanciamo l’Europa – supplemento a il manifesto del venerdì -

«Lavo­rare meno, lavo­rare tutti». Che cosa ci dice oggi que­sto slo­gan tanto vec­chio e tanto attuale, tanto soli­dale e tanto con­flit­tuale, tanto vel­lei­ta­rio e tanto pro­fe­tico? Molte per­so­na­lità del pas­sato più o meno pros­simo (Key­nes, Gorz, Rif­kin, Beck) hanno inter­pre­tato, con l’ottimismo della ragione, il dina­mi­smo del pro­gresso tec­no­lo­gico come il deus ex-machina dell’inevitabile pro­cesso di libe­ra­zione dell’uomo, della sua libe­ra­zione dal lavoro. Alla ridu­zione della fatica per i sin­goli si accom­pa­gne­rebbe una distri­bu­zione del red­dito più giu­sta ed equi­li­brata.
Quell’affermazione ci dice che è rea­li­stico pen­sare a una rior­ga­niz­za­zione più equa della società che distri­bui­sca a tutti i frutti della cre­scita tec­no­lo­gica. Ma quello che sta suc­ce­dendo è diverso: l’aumento di pro­dut­ti­vità del lavoro che potrebbe por­tare alla ridu­zione delle ore di lavoro di cia­scuno, viene uti­liz­zato per ridurre le per­sone che lavo­rano a tempo pieno. La ridu­zione delle ore com­ples­si­va­mente uti­liz­zate (di chi lavora e chi rimane a zero ore) è assi­cu­rata; l’equità no.
«Lavo­rare tutti» signi­fica che le pos­si­bi­lità di occu­pa­zione si pos­sono esten­dere, al di là dei Cip­puti – delle fab­bri­che, dei ser­vizi e dei lavori auto­nomi – che hanno un lavoro, anche alle loro mogli e figlie, aumen­tan­done le oppor­tu­nità di impiego e le pos­si­bi­lità di rea­liz­za­zione per­so­nale. E che cosa suc­cede ai salari se «lavo­riamo tutti»? La redi­stri­bu­zione del lavoro tra un numero mag­giore di per­sone ruchiede di allar­gare la massa sala­riale, inte­grando i livelli più bassi di red­dito con un più inci­sivo pro­cesso di redi­stri­bu­zione. Ma il potere eco­no­mico e poli­tico ci dice che la prio­rità è la ridu­zione del costo del lavoro e che la redi­stri­bu­zione attra­verso l’azione pub­blica è già ora inso­ste­ni­bile.
«Lavo­rare meno» ci dice che redi­stri­buire il lavoro impie­gato nella pro­du­zione di merci libera tempo che le per­sone pos­sono impie­gare per altre atti­vità capaci a loro volta di “pro­durre” beni utili per miglio­rare la qua­lità della vita, indi­vi­duale e col­let­tiva. Ma per chi governa l’economia una migliore qua­lità della vita e del lavoro non è un obiet­tivo: non si tra­duce in beni da ven­dere sul mer­cato, è un aspetto poli­ti­ca­mente irri­le­vante.
«Lavo­rare meno» ci dice che le mag­giori occa­sioni offerte dal tempo libe­rato pos­sono modi­fi­care la com­po­si­zione dei con­sumi, poi­ché la dispo­ni­bi­lità di rela­zioni inter­per­so­nali capaci di sod­di­sfare le esi­genze di rea­liz­za­zione per­so­nale sono alter­na­tive all’accentuarsi di com­por­ta­menti con­su­mi­stici. Ma dall’alto ci dicono che se il con­sumo (di merci) si ridi­men­siona, il Pil cade ed è messo a rischio l’equilibrio macroe­co­no­mico.
«Lavo­rare meno, lavo­rare tutti» ci dice che vi è un grande e entu­sia­smante spa­zio per deli­be­ra­zioni demo­cra­ti­che sulla defi­ni­zione con­sa­pe­vole dei modelli di pro­du­zione e di con­sumo e delle regole distri­bu­tive della futura società. Il potere eco­no­mico e poli­tico ci dice che que­ste scelte non sono ammis­si­bili poi­ché il futuro è tutto inscritto nelle leggi natu­rali del mer­cato. Le deci­sioni di come, quanto e cosa pro­durre devono rima­nere nelle mani dei Mar­chionne di turno, cui spetta anche la scelta dei Cip­puti ai quali con­ce­dere la pro­pria bene­vo­lenza.
«Lavo­rare meno, lavo­rare tutti» ci dice che que­sto pro­getto di libe­ra­zione è rea­li­stico, ma non rea­liz­za­bile a breve ter­mine; che rap­pre­senta una con­qui­sta col­let­tiva deter­mi­nante, ma solo se si rie­sce a ribal­tare il cuore e la mente – e i rap­porti di forza – dell’attuale orga­niz­za­zione poli­tica e sociale.

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