L’inchino europeo al capitale privato

L’inchino europeo al capitale privato

di Alberto Burgio – il manifesto -

Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa

Afferma un cele­bre ada­gio che nella per­vi­ca­cia si annida il demo­nio. Se è vero, le lea­der­ship euro­pee sono pri­gio­niere di potenze infere. Da sette anni inflig­gono ai pro­pri paesi e alle loro eco­no­mie una tera­pia nel segno dell’auste­rity che dovrebbe debel­lare la crisi e rimet­tere in moto la cre­scita. Non solo que­sta cura non ha pro­dotto nes­suno dei risul­tati attesi. Tutte le evi­denze depon­gono in senso con­tra­rio, al punto che sem­pre più nume­rosi eco­no­mi­sti main­stream si pro­nun­ciano a favore di poli­ti­che espan­sive. Ciò nono­stante la musica non cam­bia, nem­meno ora che l’Istituto sta­ti­stico nazio­nale della Ger­ma­nia fede­rale ha reso noti i dati sul secondo seme­stre di quest’anno. Anzi, il man­tra delle «riforme strut­tu­rali» imper­versa più forte che mai.
Insomma, il demo­nio sbanca. O c’è sem­pli­ce­mente un dio dispet­toso che si diverte ad acce­care gente che vuol per­dere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta sui­ci­dando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nono­stante il buon esem­pio degli Stati uniti roo­se­vel­tiani, che pure di capi­ta­li­smo ne capivano.

Que­sta è una let­tura pos­si­bile. I capi di Stato e di governo e i grandi ban­chieri sta­reb­bero sba­gliando i conti. Per super­bia e pre­sun­zione, forse per inca­pa­cità, come pare sug­ge­rire il mini­stro Padoan par­lando di pre­vi­sioni errate. Ma c’è un’altra ipo­tesi altret­tanto plau­si­bile. Anzi, a que­sto punto ben più vero­si­mile. Che non si tratti di errori ma del pesante tri­buto impo­sto dal mas­simo potere oggi regnante. Non­ché (di ciò troppo di rado si discute) del per­se­gui­mento di un lucido pro­getto. E di un cal­colo costi-benefici forse spe­ri­co­lato ma coe­rente, in base al quale la reces­sione, con i suoi deva­stanti effetti col­la­te­rali (defla­zione, disoc­cu­pa­zione, dein­du­stria­liz­za­zione), appare un prezzo con­ve­niente a fronte del fine che ci si pre­figge: la messa in sicu­rezza di un deter­mi­nato modello sociale nei paesi dell’eurozona.
Quale modello, è facile a dirsi, se leg­giamo in chiave poli­tica le «riforme strut­tu­rali» di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costrin­gere gli Stati a «far qua­drare i conti» signi­fica nei fatti imporre loro, spesso con­giun­ta­mente, tre cose. La prima: ven­dere (sven­dere) il pro­prio patri­mo­nio indu­striale e demaniale.

La seconda: accre­scere la pres­sione fiscale sul lavoro dipen­dente (posto che ci si guarda bene – soprat­tutto ma non solo in Ita­lia – dal col­pire ren­dite, patri­moni e grandi eva­sori). La terza: tagliare la spesa sociale desti­nata al wel­fare (vedi le ultime ester­na­zioni del mini­stro Poletti in tema di pen­sioni), al sistema sco­la­stico pub­blico e all’occupazione nel pub­blico impiego (dato che altre voci del bilan­cio non sono mai in discussione).

Non è dif­fi­cile capire che tutto ciò signi­fica affa­mare il lavoro e spo­stare enormi masse di ric­chezza verso il capi­tale pri­vato. Nel frat­tempo, accanto a que­sti prov­ve­di­menti, ci si impe­gna a modi­fi­care le cosid­dette rela­zioni indu­striali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un deno­mi­na­tore comune: l’attacco ai diritti dei lavo­ra­tori (“rigi­dità”) al fine di fare della forza-lavoro una varia­bile total­mente subor­di­nata (“fles­si­bile”) al cosid­detto “datore”, che deve poter deci­dere in libertà se, quanto e a quali con­di­zioni utilizzarla.

Ne emerge un pro­getto nitido, che rove­scia di sana pianta non solo il sogno sov­ver­sivo degli anni della som­mossa ope­raia ma anche quello dei nostri costi­tuenti. Si vuole fare final­mente della vec­chia Europa quello che il mondo anglo­sas­sone da sem­pre con­si­dera l’essenza della demo­cra­zia moderna: una società di indi­vi­dui fon­data sulla libertà d’intrapresa, cioè sul potere pres­so­ché asso­luto del capi­tale pri­vato. Dopo­di­ché potrà forse spia­cere che dila­ghino disoc­cu­pa­zione e povertà men­tre enormi ric­chezze si con­cen­trano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intan­gi­bile, al quale è senz’altro oppor­tuno sacri­fi­care un fetic­cio d’altri tempi come la giu­sti­zia sociale.

A chi obiet­tasse che que­sta è una let­tura ten­den­ziosa, sarebbe facile repli­care con un rapido cenno alla teo­ria eco­no­mica. L’enfasi sulla disci­plina di bilan­cio sup­pone il ruolo-chiave del capi­tale finan­zia­rio nel pro­cesso di pro­du­zione, secondo quanto sta­bi­lito dalla teo­ria neo­clas­sica. Nel nome della “demo­cra­zia” que­sta teo­ria affida la dina­mica eco­no­mica alle deci­sioni del capi­tale pri­vato. Il pro­cesso pro­dut­tivo si inne­sca sol­tanto se esso pre­vede di trarne un pro­fitto, il che signi­fica con­ce­pirlo non sol­tanto come domi­nus natu­rale della pro­du­zione ma anche come il sovrano sul ter­reno sociale e poli­tico.
Vi sono natu­ral­mente altre teo­rie. Marx, per esem­pio (ma anche Key­nes) vede nella pro­du­zione una fun­zione sociale deter­mi­nata prin­ci­pal­mente da due fat­tori: la domanda (i biso­gni sociali, com­presi quelli rela­tivi a beni o ser­vizi “fuori mer­cato”) e la forza-lavoro dispo­ni­bile a sod­di­sfarli. In que­sta pro­spet­tiva la fun­zione del capi­tale (soprat­tutto di quello finan­zia­rio, il denaro) è solo quella di met­tere in comu­ni­ca­zione la domanda col lavoro. Per que­sto non gli è rico­no­sciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovra­nità. Anzi: la dispo­ni­bi­lità di capi­tale è inte­ra­mente subor­di­nata alla deci­sione poli­tica, per quanto con­cerne sia la leva fiscale, sia la massa mone­ta­ria. Inu­tile dire che que­ste teo­rie sono tut­ta­via reiette, bol­late come stra­va­ganti e antimoderne.

Si pensa alle teo­rie come cose astratte, ma, come si vede, esse in fili­grana par­lano di sog­getti in carne e ossa e di con­cre­tis­simi con­flitti. Il che spiega in abbon­danza la povertà logica delle resi­stenze alle cri­ti­che key­ne­siane e mar­xi­ste. Spiega il ver­go­gnoso ser­vi­li­smo dei media, fatto di igno­ranza e oppor­tu­ni­smo. E spiega soprat­tutto per­ché, per l’esta­blish­ment euro­peo, le “riforme strut­tu­rali” pro­pu­gnate nel nome della teo­ria neo­clas­sica siano un valore in sé, ben­ché non ser­vano affatto a risol­vere la crisi, anzi la stiano aggra­vando oltremisura.

La que­stione, insomma, è solo in appa­renza eco­no­mica e in realtà squi­si­ta­mente poli­tica. Del resto, nella sovra­nità asso­luta del capi­tale e nella totale subor­di­na­zione della classe lavo­ra­trice risiede la sostanza dei trat­tati euro­pei che in que­sti vent’anni hanno modi­fi­cato i rap­porti di forza tra Stati e isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie, tra assem­blee elet­tive e poteri tec­no­cra­tici. È que­sto il punto di caduta di prov­ve­di­menti in appa­renza det­tati dalla ragion pura eco­no­mica come il fami­ge­rato fiscal com­pact; que­sta la ratio della scia­gu­rata deci­sione, al tempo del “governo del pre­si­dente”, di inse­rire il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione. Non ve n’era biso­gno, essen­doci già Maa­stri­cht. Ma si sa, si prova un bri­vido par­ti­co­lare nel pro­ster­narsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espres­sioni ser­vili. In altri tempi si sarebbe par­lato di collaborazionismo.

Un solo dub­bio resta, nono­stante tutto. È chiaro che alle lea­der­ship euro­pee non inte­ressa gran­ché dell’equità sociale, né fa pro­blema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai pros­simo) non sarà più tec­ni­ca­mente pos­si­bile dre­nare risorse verso il capi­tale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfun­zioni gravi, come dimo­stra l’imperiosa esi­genza di “rifor­mare” le Costi­tu­zioni per affran­care i governi dall’onere del con­senso. Insomma, è sem­pre più evi­dente che il modello neo­li­be­ri­sta urta con­tro limiti sociali e poli­tici non facili a var­carsi. È vero che in un certo senso il capi­tale non cono­sce patria (è di casa ovun­que rie­sca a valo­riz­zarsi). Ma, a parte il fatto che gli equi­li­bri geo­po­li­tici risen­tono del grado di forza interna delle com­pa­gini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel con­fronto con l’«altro mondo», in ver­ti­gi­nosa cre­scita, ricco di capi­tali e di risorse umane), dav­vero è pen­sa­bile tenere a bada società già avvezze alla demo­cra­zia sociale (in que­sto l’Europa si distin­gue dagli Stati uniti) a dispetto di una regres­sione ad assetti neo­feu­dali? Abbiamo detto che non si capi­sce la discus­sione eco­no­mica se non la si legge in chiave poli­tica. Ma è pro­prio un pro­blema poli­tico quello che le lea­der­ship neo­li­be­ri­ste sem­brano non porsi. Con­fer­mando tutta la distanza che corre tra gli sta­ti­sti e i politicanti.


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