“La donna contro se stessa”

“La donna contro se stessa”

Carla Ravaioli –

Pubblichiamo di seguito un testo Di Carla Ravaioli ormai pressoché introvabile nelle librerie, eppure così storicamente importante per lo sviluppo di un pensiero e di una pratica sociale e politica del movimento femminista. Si tratta della prefazione dell’autrice – integralmente riprodotta – alla seconda edizione de “La donna contro se stessa”, ripubblicato nel 1977, ben nove anni dopo la prima edizione. Un messaggio che non sente il peso dei decenni trascorsi e che non finisce mai di dire – anche e forse soprattutto nel mondo odierno – quel che aveva da dire. Pochissimi giorni fa, Carla ci ha fatto dono di questo suo libro, con le sottolineature vergate di sua mano. Non è certo questo il solo suo lavoro di valore, ma è senz’altro quello con cui ha più profondamente scavato in se stessa, in controluce quasi un’autobiografia e un testamento culturale e politico. (D.G.)

Rileggere, per la prima volta dall’inizio alla fine, questo libro significa per me rituffarmi in un passato che mi sembra lontanissimo, e che per certi versi lo è davvero. Sono trascorsi nove anni esatti da quando, nel giugno 1968, lo consegnai all’editore (la data della prima edizione è di sei mesi dopo, gennaio 1969) e nove anni non sono pochi nella vita di una persona, né lo sono nella vicenda di una società come la nostra, così carica di spinte al mutamento e di mutamenti già in atto; ma sono moltissimi se questa società la si legge entro l’ottica specifica del problema femminile, e se questo problema è stato ed è motivo dominante nell’esistenza di una persona, come lo è stato per me.
Rileggere questo libro significa innanzitutto ritrovare un’Italia “prefemminista”, in cui il femminismo come movimento organizzato era del tutto assente (giungevano appena dall’America le primissime notizie di gruppi del genere, nati nell’ambito della “nuova sinistra”, e ricordo che solo sulle bozze ebbi modo di inserire un cenno in proposito; di qualche aggregazione analoga anche tra noi in via di formazione non si sapeva ancora nulla) e in cui tuttavia il problema era “nell’aria”, come si dice: vissuto da un numero crescente di donne, ma soltanto a livello individuale, come oscura nevrotizzante insofferenza, ancora ben lontana dall’essere lucida consapevolezza della storia e rifiuto attivo di essa; presente come un’inquietudine strisciante sotto la pelle del corpo sociale femminile, ma ancora incapace di coagularsi in pulsione collettiva e incidere sulla realtà; solo sporadicamente, sebbene con sempre maggiore insistenza, emergente nel dibattito pubblico, ma già percepibile come una sorta di rivolta endemica latente. Significa dunque misurare che cosa le lotte delle donne abbiano cambiato in quell’Italia in cui già esistevano tutti i presupposti dell’esplosione femminista, ma ancora immobile sul crinale di una situazione prerivoluzionaria, che fu oggetto della mia osservazione in queste pagine.
Sono trascorsi solo nove anni e il femminismo – accettato o osteggiato, discusso con scientifico distacco o pubblicitato nei modi tipici del consumismo culturale, contestato o addirittura rifiutato con i più rigidi viscerali sbarramenti difensivi – è ormai comunque, irreversibilmente, una costante del panorama umano e sociale, in Italia come in tutti i paesi dell’Occidente. Provocatoriamente presente nei settori più diversi della vita associata, culturale e politica, pronto allo scatto della protesta dovunque più vistosa si esprima la violenza antifemminile, capace di mobilitare da un giorno all’altro decine di migliaia di donne nei momenti cruciali delle sue battaglie; movimento di massa che ha ormai superato i confini elitistici, intellettuali e borghesi della sua origine, per conquistare fabbriche, scuole di ogni ordine e grado, province depresse, periferie proletarie e sotto proletarie, che ha contribuito a rivitalizzare e orientare tutte le organizzazioni femminili preesistenti, che inevitabilmente si impone all’attenzione, al confronto e al calcolo dei partiti politici; forte di una sempre più vasta e spesso più altamente qualificata letteratura specialistica e di tutto un corredo di centri di produzione, teatri, librerie, case editrici, consultori, gruppi di studio e di documentazione, circoli di lavoro per quartieri; soprattutto portatore di un’analisi che non solo ha affrontato la realtà femminile in tutta la molteplicità delle sue innumerevoli facce, evidenti e nascoste (me ne occuperò specificamente via via, nella rilettura dei vari capitoli del libro) ma che ha capovolta l’ottica delle precedenti analisi, tendenti a circoscrivere la questione nell’ambito dello sfruttamento capitalistico, per la rimessa in discussione di una politica prevalentemente economicistica.
Il femminismo infatti muove non più dall’osservazione del “sociale2 ma del “privato” (cioè di quel “vissuto” in cui ogni donna quotidianamente sperimenta la propria sudditanza, attraverso gli eventi spiccioli della più minuta fenomenologia esistenziale come nello scontro coi più gravi e coinvolgenti problemi della maternità, della sessualità, del lavoro domestico obbligato) per un confronto e una verifica fra donne dove i più drammatici conflitti, da sempre gestiti e sofferti in solitudine, come fatti strettamente personali e non condivisibili, si rivelano dato costante di una condizione comune, problema non più privato quindi, ma “sociale”, dunque “politico”. Solo a questo modo la “specificità” della questione femminile – precedentemente più postulata che dimostrata – viene definita in tutta la sua complessità: fenomeno che ha radici assai più lontane dell’attuale organizzazione della società e che però la struttura produttiva capitalistica ha integrato fondando su di esso un momento determinante della propria speculazione; che non è in alcun modo identificabile con la subalternità di classe, ma, in quanto riguarda le donne di ogni ceto, attraversa verticalmente l’intera stratificazione classista,; che non può dunque attendere soluzione dalla rivoluzione sociale e tuttavia da essa non può prescindere; che nella famiglia trova il luogo primario della sua produzione e del suo sfruttamento. E’ nella famiglia, nella sua forma attuale, che i ruoli storicamente assegnati ai due sessi (l’uomo produttore, la donna riproduttrice) trovano la loro più esemplare formulazione, secondo le esigenze del sistema sociale complessivo: il marito tenuto a procurare dall’esterno i mezzi di sussistenza, la moglie, in quanto madre, tenuta non solo ad allevare i figli, ma a organizzare la vita pratica di tutti, bambini e adulti, di fatto fornendo col lavoro domestico una massa di “servizi” che, in base alla pretesa naturalità della sua funzione, le vengono richiesti gratuitamente a beneficio della società, anche quando svolga un’attività extradomestica; ciò che determina la debolezza, la precarietà, gli scarsi e marginali spazi del lavoro domestico femminile.
E’ nella famiglia che la donna si trova a vivere una sessualità ancestralmente mutilata e a subire la separazione dal suo stesso corpo, come da cosa che non le appartiene, che viene usata da altri, terreno di conquista maschile e merce di scambio, da barattare contro la sicurezza economica. E’ nella famiglia che, mediante l’educazione differenziata secondo il sesso e i modelli di comportamento proposti dai genitori, vengono “fabbricati” donne e uomini conformi ai ruoli sociali che li attendono, e addestrati fin nel più profondo della psiche a una gerarchia di rapporti omogenei a quelli che fondano e reggono la società. E’ ancora nella famiglia che la donna viene indotta a identificarsi totalmente con la “legge del padre” che la opprime fino a farsene lei stessa portatrice e rigida garante nei confronti dei figli.
Un’analisi di questo tipo – sia pure elaborata lentamente e frammentariamente, fra inevitabili contraddizioni e deviazioni, ma che di recente ha trovato felici momenti di sintesi in saggi di alta qualità – è qualcosa che va oltre lo specifico problema femminile. Rompendo la scissione tipicamente borghese fra “personale” e “sociale”, sottolineando l’interdipendenza dei fenomeni all’interno del sistema individuo-società, mettendo in luce norme e codici del rapporto intersessuale non solo profondamente radicati nella cultura ma assorbiti dalla stessa struttura produttiva e funzionali alla sua conservazione, di fatto le donne hanno allargato enormemente i limiti della critica alla società capitalistica.
Non è un lavoro da poco che, in appena nove anni di vita, i movimenti di liberazione della donna hanno compiuto. Resta, certo, tutta una serie di problemi irrisolti, di interrogativi senza risposta, di conflittualità interne al movimento stesso; una lunga strada da percorrere soprattutto perché l’elaborazione teorica si traduca in programma politico operativo. Resta – ciò che più pesa – una società ancora dominata dal “maschile”, organizzata per l’emarginazione e lo sfruttamento della donna, in cui però le donne si pongono già come forza dirompente all’interno di un sistema fondato sulle disuguaglianze, parte imprescindibile di un blocco sociale in lotta per il rovesciamento dei rapporti vigenti, forza traente e proposta radicalmente innovativa nei confronti delle stesse sinistre politiche, feconda ipotesi – la sola sopravvissuta al ’68 – di “rivoluzione culturale”.

Ma rileggere questo libro per me significa anche ritrovare (e sovente non riconoscere) la me stessa di nove anni fa, o dovrei dire di dodici, tredici anni fa, forse più: non ricordo esattamente quanto tempo impiegai a scriverlo, ma so per certo che è stato il mio libro più laborioso e tormentato. Idea imprecisa dapprima, nient’altro che una cartella disordinata di appunti e notazioni, di ritagli di giornale, di dati e statistiche, che andavo raccogliendo senza saper bene perché; poi progetto operativo, ma limitato a un saggio sulla stampa femminile, che d’altronde, appena affrontato, mi si allargò smisuratamente tra le mani: come parlare esaurientemente della stampa del genere, questo globale strumento di conformazione della donna al sistema, se non si analizza, non si tenta di analizzare e conoscere l’intera realtà femminile?; progetto trasformatosi così in un impegno che sentivo sproporzionato alle mie forze, che inseguivo tra crisi di scoraggiamento e ostinati recuperi, che abbandonavo per settimane e mesi ma che non riuscivo a non riprendere, che stava diventando un grosso farraginoso mucchio di scartoffie, di stesure abbozzate e lasciate a mezzo, di intuizioni annotate e non sviluppate, travagliato interminabile lavoro, sempre bisognoso di nuove letture, di ulteriori ricerche, di più approfonditi ripensamenti, portato avanti a sussulti, nel segno di una irrecuperabile insicurezza, nel tempo mai finito di una sorta di solitaria “autocoscienza”.
Questo infatti – ma me ne accorgo solo oggi – è stato soprattutto per me La donna contro se stessa: il tentativo di spiegare certi miei comportamenti, autolimitazioni, blocchi improvvisi dopo rincorse a perdifiato, paure di essere quello che volevo, o credevo di volere, confini che io stessa ponevo a una scelta di vita che pure avevo fatto fin da giovanissima (niente matrimonio figli famiglia, lavorare, campare con le mie forze, mettermi in piedi uno straccio di vita che avesse un senso senza che un uomo ne fosse garante e mediatore); il bisogno di oggettivare la mia fatica di donna inquadrandola e proiettandola nella condizione di tutte le donne. Senza d’altronde avere possibilità di dialogo e di verifica con le altre (senza nemmeno cercarla, per la verità) la vorando da sola e senza mai parlarne a nessuno (forse, ripensandoci, vergognandomene persino un po’) con l’aiuto dei pochi libri allora disponibili, libri importanti certo (la De Beauvoir, la Friedan, la Sullerot, Cesareo) ma che non mi bastavano; lavorando dunque in modo ben diverso da come le donne hanno lavorato dopo la nascita del neo-femminismo, discutendo in gruppo, confrontandosi tra loro e tra loro riconoscendo una comune subalternità millenaria, alimentando reciprocamente un processo conoscitivo che abbracciava via via tutti gli aspetti del problema, ognuna portando alla sua crescita il proprio contributo di vissuto e di ricerca; un modo ben diverso da come anch’io ho lavorato in seguito, direttamente o indirettamente misurandomi con tutte le altre, valendomi di un’elaborazione femminile sempre più ricca e valida.
Non è vano esibizionismo o calcolata corrività alla moda delle confessioni in pubblico, questo mio insistere sulla vicenda personale da cui è nato il libro. Credo che anche questa chiave, oltre a quella di un confronto storico-dialettico tra due Italie, sia necessaria oggi alla sua lettura: non soltanto a spiegare certe angolature di cui subito dirò, ma anche a testimoniare il modo di vivere una certa fase della maturazione della coscienza femminile, che non è stato soltanto mio, come le tante lettere ricevute al momento della pubblicazione mi provarono: di professioniste, studentesse, giornaliste e scrittrici molto più note di me, alcune delle quali divenute poi femministe impegnatissime, ma anche di donne senza nome, donne e basta.
Si deve innanzitutto alla mia esperienza autobiografica, e al fatto che questo libro ne sia il prodotto e insieme una parte essenziale, se la mia osservazione punta prevalentemente sul comportamento della “emancipata”; cioè di quel tipo di donna attiva, economicamente autonoma e magari giunta al successo, libera – anche se sposata – dagli impacci quotidiani dei doveri domestici, priva di pregiudizi nei rapporti sessuali, che nel dopoguerra era andato via via affermandosi, sebbene ancora limitatamente, nell’ambito dei ceti più evoluti, e che veniva additato come il modello della donna del futuro, o addirittura (con l’ottimismo tipico degli anni sessanta, in cui il boom economico, appena incrinato dalle prime “recessioni congiunturali” ma non ancora scosso nella sua “filosofia” di fondo, sembrava autorizzare, persino in vaste zone delle sinistre politiche, la fiducia in un mondo salvato dal neocapitalismo, e per suo mezzo risolto anche nei suoi massimi problemi sociali) dato come prova di un’emancipazione già in atto. Il tipo di donna che non solo conoscevo meglio di ogni altro, ma a cui anch’io appartenevo.
E tuttavia, sebbene in modo impreciso, avvertivo tutte le angustie e le insufficienze di un modello sostanzialmente ricalcato su quello maschile (e lo dico più volte nel libro). Da un lato rilevavo, in me come nelle altre, le manchevolezze e le contraddizioni della sua attuazione, e lo facevo rapportandolo continuamente alla ben più completa realizzazione di sé di cui mi parevano capaci gli uomini, dall’altro sentivo però il bisogno di un modello diverso da inventare, di una nuova identità femminile da riscoprire dopo aver buttato via quella che la storia ha cucito addosso alle donne, e che le donne hanno interiorizzato sin nel più profondo della psiche. Ero convinta (lo sono ancora) che studio, lavoro, inserimento nella società attiva (cioè gli obiettivi di fondo della linea “emancipatoria”, portata avanti dai movimenti e dai partiti di sinistra, e a cui d’altronde allora non esistevano proposte alternative) fossero presupposti necessari alla maturazione di quel mondo femminile che mi appariva come “un’umanità minore”, ma capivo che questo non bastava: sapevo (e lo pagavo ogni momento) che la condizione sociale della donna si esprime mediante una fenomenologia ben più complessa e diversificata, che penetra ogni piega della vita di relazione; annotava (e ricordavo) tutte le discriminazioni che le pesano addosso fin dalla nascita, tutti i condizionamenti di un’educazione sistematicamente finalizzata a un destino prestabilito, tutta la rigidità di una morale sessuale coercitiva a lei sola riservata; vedevo ( e mi ci scontravo continuamente con umiliazione e furore) l’arroganza “virile” degli uomini, la vischiosità di un costume misogino trasmesso da una generazione all’altra, la corale pressione di una cultura che costringe la donna a farsi nemica della sua stessa libertà, ad essere complice della sua stessa oppressione, ad agire, pensare, vivere “contro se stessa”.
Il fatto che io sia partita dall’osservazione della “emancipata”, cioè del mondo femminile a cui appartenevo (di me stessa dunque, forse soprattutto) e che faticosamente e tra mille errori andava cercando una sua strada, in cui più vistosamente esplodevano quindi incongruenze, deviazioni, contraddizioni tra il “volere” e l’”essere”, ha determinato quel taglio psicologico-culturale che fonda la maggior parte del libro; lo stesso taglio che in seguito è stato proprio di tutto un importantissimo filone della ricerca femminista. Ma questa ha anche limitato la mia riflessione prevalentemente ai ceti femminili borghesi. Anche le masse delle donne proletarie, sottoproletarie, contadine, sono presenti in queste pagine, ma non sono molto più che cifre, dati, statistiche, recuperi di indagini che parlano di analfabetismo, di lavoro marginale, umiliante e malpagato, di doppio lavoro, di voglia di tornare al focolare: mondo a me scarsamente noto, lontano fenomeno sociale indicato a riprova di una generale condizione soggetta e ancora lontanissima dal riscatto.
Mi sfuggiva insomma la totalità del mondo femminile. Mi rendevo conto che tutte le donne (mezza umanità, come vado ripetendo quasi ossessivamente) sono costrette alla dipendenza dal maschio e quindi9 alla subalternità sociale, ma non coglievo le ragioni di fondo di questo dato che tutte le accomuna; mi appariva evidentissimo lo sfruttamento psicologico, e in parete anche quello sessuale, cui le donne non possono sfuggire nel rapporto istituzionalizzato col maschio, ma non lo sfruttamento fisico e economico di cui sono oggetto mediante l’obbligo ai compito familiari e domestici, che pure a quello psicologico e sessuale è così strettamente legato tramite il ricatto affettivo, e che si colloca organicamente come funzione e segmento integrante nell’ambito dell’attuale organizzazione produttiva. Indugiavo sulle debolezze, le pigrizie, le insicurezze, i privilegi delle donne borghesi, mentre smarrivo la dimensione strutturale della specificità femminile, che passa attraverso l’istituto-famiglia quale pilastro della società, che affonda le sue radici nei rapporti di produzione e nella divisione del lavoro, e che, una volta messa a fuoco, proietta entro una dimensione totalmente diversa lo stesso discorso relativo alla “borghese” e ai “potenti strumenti di emancipazione” che mi parevano appartenerle.
D’altronde questa è la più grave deficienza del libro rispetto all’elaborazione posteriore, e che indubbiamente si deve alla mia scarsa conoscenza del mondo femminile proletario, sottoproletario, contadino, quanto alla mia mancanza di esperienza diretta (dato il tipo di vita “da scapolo” che mi ero messa in piedi) di questo fondamentale aspetto del problema, va riconnesso anche ad un altro lato della mia esperienza personale che forse merita di essere ricordato, in quanto mi pare significante riprova di quella “politicità” del problema femminile e intersessuale ancora da tante parti negato.
A differenza della maggior parte delle femministe, che sono partite dalle battaglie studentesche del’68, e proprio dall’attività politica nell’ambito delle formazioni dell’extrasinistra che ne derivarono sono pervenute alla “presa di coscienza” femminile, io ho percorso un cammino inverso. Quando scrivevo questo libro ero già una persona di sinistra e votavo di conseguenza, gravitavo in ambienti del medesimo orientamento, mi interessavo alla politica nazionale e internazionale seguendola con un’ottica coerente alle mie posizioni; il tutto però abbastanza genericamente, senza una preparazione specifica adeguata e senza un preciso impegno, non solo di militanza, ma di attenzione e disponibilità psicologica (pesava ancora in ciò, nonostante tutto, il tradizionale pregiudizio secondo cui la politica non è “roba da donne”?). E’ stata proprio la successiva riflessione sul problema femminile e intersessuale, che già allora intuivo come “politico” senza per altro individuare i nodi determinanti che lo rendono tale, a condurmi ad una politicizzazione consapevole e partecipata. Via via che lo approfondivo, e lo approfondiva un numero sempre maggiore e sempre più agguerrito di donne, mi si chiariva quel rapporto intrinseco, anche se mediato e schermato fino a risultare a volte irriconoscibile, che esiste tra tutto il complesso di norme, imperativi morali, credenze religiose, pregiudizi, discriminazioni, tabù, che regolano i rapporti umani (anche, anzi soprattutto, quelli tra uomo e donna) in una determinata società, e l’organizzazione economica e politica su cui tale società si regge. E che siano le forze politiche conservatrici a contrastare sistematicamente ogni tendenza innovatrice, nel costume, nelle istituzioni, nella cultura, nel “sociale” più vasto (anche, anzi soprattutto, nel rapporto uomo-donna) me lo confermava regolarmente; così come me lo confermava quel carattere fondamentalmente antiautoritaristico che in modo sempre più netto definiva la rivolta femminile, e che la iscrive, sia pure con una sua precisa specificità, nel panorama del gran moto antiautoritaristico che scuote oggi il mondo, cui appartengono la lotta di classe come la protesta giovanile, l’insurrezione terzomondista, come la critica alle “istituzioni totali”, la domanda di diritti civili da parte delle minoranze emarginate come le esplosioni antirazziste, tutti fenomeni convergenti nell’attacco alla struttura gerarchica e verticistica della società classista.
Certo si devono esclusivamente alla mia storia personale la severità, la durezza, a tratti perfino la rabbia con cui (me ne avvedo ora) in queste pagine andavo puntigliosamente e senza ombra di indulgenza sottolineando tutte le debolezze, le incongruenze, le miserie che osservavo nelle donne, addirittura lanciandomi in lunghe requisitorie d’accusa nei loro confronti; che d’altronde contrastano nettamente (anche questo lo vedo solo ora) con la mia lunga e circostanziata analisi dei condizionamenti, catene, impacci, opposti dalla società attuale come da un lunghissimo passato storico a una loro pienezza di libertà e di realizzazione, ponendomi come un vero e proprio salto logico tra la mia consapevolezza di questi mille “freni”, oggettivi e soggettivi, e la mia pretesa di un comportamento femminile autonomo e responsabile; che non posso non leggere oggi come una mia proiezione difensiva.
Rifiutare il modello e il ruolo che la storia le ha assegnato, e che ancora le vengono indicati come suoi dall’attesa del gruppo e dalle esigenze della società è certo cosa tutt’altro che facile anche per la donna d’oggi, nonostante la crescente forza dei movimenti femminili e la progressiva messa in crisi di tutta una serie di certezze su cui tradizionalmente si è fondata la discriminazione sessuale; ma negli anni cinquanta e sessanta questo significava una vera guerra, da condurre momento per momento, contro tutto e tutti. Una guerra in cui – mentre gli uomini, non ancora minimamente scossi nella sicurezza del loro privilegio, rispondevano per lo più con l’ironia, il paternalismo, l’indifferenza – sovente le nemiche più dure erano proprio le donne: nemiche dichiarate, e deliberatamente impegnate a manifestare con ogni mezzo la loro ostilità verso una loro simile che però in qualche modo sentivano “diversa”, come portatrice di una proposta colpevolizzante per quante già vivevano conflittualmente la loro condizione; oppure nemiche involontarie, ma oggettivamente tali, in quanto avallavano col loro comportamento e la loro totale adesione all’immagine femminile convenzionale, quel giudizio negativo della società maschile nei confronti delle donne che mi ricascava addosso e che invano cercavo di allontanare da me, affannandomi ad essere brava quanto gli uomini, autonoma quanto loro, il più possibile come loro; o, peggio, nemiche che solo inconsciamente vivevo come tali, che con la loro “emancipazione a metà”, con le loro esistenze scisse tra indipendenza conquistata nel lavoro, nei rapporti sociali, nel “pubblico”, come si direbbe oggi, e dipendenza, passività e arrendevolezza nel rapporto personale col maschio, nella famiglia, nel privato, ma anche con la forza di radica affettive che sia pure a così caro prezzo – cioè nell’unico modo possibile – riuscivano a costruirsi, costituivano per me una continua tentazione regressiva, un invito a cercare un’ancora nella rinuncia e nella rassegnazione, come in una sorta di specchio deformante malignamente mettendomi sotto gli occhi ogni momento quella parte di me che rifiutavo, che con rigore autopunitivo mi sforzavo di negare, che non potevo amare nelle mie simili.
Ma forse questa mia chiamata di correità verso le donne, nei confronti della loro stessa oppressione era anche altro. Era da un lato la mia insofferenza del vittimismo e della totale colpevolizzazione del maschio (che sentivo più come strumento dell’oppressione sociale della donna che come responsabile diretto) tipiche di certe posizioni emancipatorie, e in seguito anche di certo femminismo; dall’altro era la netta sensazione che i tempi fossero ormai maturi per la riscossa femminile, che le donne potessero, dovessero ormai “prendere in mano il proprio destino”, come esplicitamente dico, e avviare una rivoluzione che intuivo “diversa da ogni altra”, capace di comportare “il sovvertimento dei moduli esistenziali dell’umanità intera”, e per la quale non bastavano le strade percorse nelle sia pure importantissime lotte condotte finallora e certo fondamentale antefatto dello stesso neo-femminismo, che infatti era sul punto di esplodere. Me ne convincevo sempre più via via che scrivevo queste pagine, e non è un caso che proprio l’ultimo capitolo si concluda con un suggerimento di rifiuto del concetto di “emancipazione” e con un auspicio di “piena libertà”.
Avrei potuto ripubblicare La donna contro se stessa in “edizione riveduta e corretta”, come si dice, aggiornando i dati, sviluppando i temi qui appena sfiorati e divenuti poi materie fondamentali dell’analisi femminista, aggiungendone altri, eliminando le parti in cui non mi riconosco più, oppure emendandole, smussandone le posizioni più rigide, in pratica scrivendo un altro libro; quello d’altronde che in questi nove anni, tra articoli di giornali, brevi saggi pubblicati su riviste e diversi altri libri sono andata già scrivendo. Ho preferito riproporlo integralmente nella stesura originaria, premettendo ad ogni capitolo una rilettura critica, non solo come confronto dialettico fra passato e presente di una storia finalmente al femminile e tra due diversi momenti di una strada che per molte donne della mia generazione è stata obbligata, ma anche come proposta di riflessione su questo presente: in che misura le donne sono già riuscite a cambiare, a gettar via quelle due pelli in cui a lungo sono vissute, quell’immagine ambigua che io impietosamente definivo di “mezza odalisca mezza suffragetta”, a superare tutto quanto attraverso la storia le ha costrette a vivere “contro se stesse”?

Giugno 1977

 

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