BOLLETTINO DI INCHIESTA N° 5 GIUGNO 1998

Bollettino di inchiesta

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SOMMARIO



Materiali

Interventi

Notiziario dell'inchiesta

Un primo bilancio dell'inchiesta e alcune proposte per svilupparla - La lettera della segretria nazionale PRC
Bollettino di inchiesta
La lettera della segreteria nazionale PRC
di Franco Giordano della segreteria Nazionale del PRC
Care/i compagne/i, a più di sei mesi dall’avvio dell’iniziativa di inchiesta sul lavoro (e sul non-lavoro), promosso dal partito nell’autunno scorso, ci sembra opportuno farne un primo bilancio, che coinvolga il partito in tutte le sue articolazioni e strutture, sia quelle che sono già state direttamente impegnate in lavori di inchiesta in questa prima fase, sia quelle che sono ancora rimaste “ai margini” dell’iniziativa. 
Per questo vi inviamo in proposito una nota che insieme al bilancio del lavoro svolto e di orientamento per i suoi sviluppi futuri. 

1. Un bilancio della prima fase del lavoro di inchiesta 
L’iniziativa dell’inchiesta attorno ai problemi del lavoro ha trovato una rispondenza molto positiva (anche se con notevoli sperequazioni) tra i compagni e le compagne del partito. 
In termini quantitativi, sono moltissime le inchieste già avviate (alcune delle quali già concluse) e sono tantissimi i compagni e le compagne coinvolti. Non sono pochi i casi in cui ci si è trovati di fronte ad iniziative di inchiesta già avviate indipendentemente dall’impulso “centrale”. (Per un’informazione più precisa in materia, riceverete una “nota organizzativa” a cura del nucleo coordinatore dell’inchiesta). 
Ma quel che più conta è la diffusa assimilazione ed utilizzazione del metodo dell’inchiesta, non come “attività separata” o come esercitazione sociologica, ma come strumento quotidiano del lavoro politico del partito. 
Quali sono i limiti di questa prima fase? 
Un primo limite è, in un certo senso, “voluto”. Non si è cercato di proporre “dall’alto” temi e strumenti dell’inchiesta, ma si è preferito far emergere “dalla base” le esigenze di inchiesta che si collegavano più direttamente all’intervento politico del partito. 
Di qui, è nato un panorama “frastagliato”, in temi di inchiesta a volte di portata generale, altre volte di portata prettamente locale, di strumenti di inchiesta a volte molto elaborati, altre volte molto semplici e “grezzi”. 
Un secondo limite è più “politico”, e riguarda la risposta del partito. La risposta, molto ampia e attiva, ma fortemente disomogenea, riflette un impegno diffuso di compagni/e, ma è un impegno assai disuguale delle strutture del partito, legato a gradi di sensibilità molto diversi allo strumento dell’inchiesta visto come strumento permanente del lavoro polito. Complessivamente, possiamo dire che da parte del gruppo dirigente “largo” del partito l’inchiesta è stata accettata, ma non assunta (salvo eccezioni) come parte essenziale del lavoro politico del partito. 
A partire da questo primo bilancio, ci sembra che l’obiettivo che ci si deve porre oggi è quello di una saldatura più organica tra il lavoro d’inchiesta e l’iniziativa politica di massa del partito. 
L’inchiesta va cioè vista:  

  • come strumento essenziale per un lavoro di propaganda che non sia semplice “riproduzione di documenti centrali”, ma che entri in un dialogo fecondo con i problemi e le idee dei lavoratori;
  • come uno degli strumenti per la preparazione/costruzione di movimenti di massa, anche (ma non soltanto) per le indicazioni che essa può dare per la battaglia all’interno delle organizzazioni sindacali.
Più in generale, l’inchiesta è uno strumento essenziale per sviluppare una presenza (e “un’immagine”) del partito non ridotta ai suoi rapporti con il governo e alle loro alterne vicende. 
In questo quadro, essa è utile per sviluppare potenzialità nuove della nostra iniziativa di massa, quali ad es. sono emerse dalla manifestazione di Milano per la riduzione d’orario, o per evitare che siano disperse potenzialità quali quelle emerse a suo a suo tempo nella manifestazione di Venezia del settembre scorso. 

2. Di qui, nasce la scelta di concentrare il lavoro di inchiesta su alcuni dei temi centrali dell’iniziativa del partito in questa fase. 
Schematicamente, questa scelta può articolarsi secondo due filoni: 
a) la riduzione d’orario 
vista non solo in rapporto alla proposta di legge, ma nel quadro più ampio della prospettiva di lotta e di contrattazione su questo tema. Quindi vista non solo in termini di durata dell’orario, ma come parte di una più generale tematica dei tempi di lavoro e di vita, che includa problemi come i turni, i tempi/ritmi di lavoro, i tempi dei servizi, le modalità di fruizione della riduzione di orario. 
Si tratta, cioè, di valutare approfonditamente le spinte e anche le resistenze dei lavoratori su questo terreno e le loro motivazioni (un esempio: le resistenze legate al timore che la riduzione si accompagni a turni più disagiati), per tenerne conto nell’iniziativa legislativa e sindacale, e per sviluppare un’azione di orientamento efficace e non generica. 
b) l’occupazione 
vista non solo in termini di  livelli di disoccupazione, ma in tutti i “passaggi intermedi” tra lavoro e non – lavoro, e in tutte le articolazioni (sempre più diversificate e con crescenti elementi di precarietà) dei rapporti di lavoro. 
Ciò significa affrontare tematiche quali: 

  • i processi di “outsourcing”, esternalizzazione, appalto sia nel settore privato che in quello dei servizi pubblici;
  • il lavoro sommerso in tutte le sue gradazioni;
  • il “ terzo settore” con il suo mix contraddittorio di nuove e più “libere” forme di lavoro e di forme di supersfruttamento più o meno mascherato;
  • il lavoro autonomo di “seconda generazione” nelle sue dimensioni sia “emerse” che “sommerse”;
  • la figura del socio lavoratore di cooperative, che si intreccia sia con i “processi” di “outsourcing” che con il terzo settore.
  • Un elemento essenziale di questa “seconda fase” del lavoro di inchiesta è inoltre la pubblicizzazione / valorizzazione dei risultati delle inchieste finora svolte, in riferimento – a seconda dei casi – ai temi generali a cui esse si riferiscono più direttamente.
3. alcune indicazioni organizzative 
A partire da queste valutazioni, si propongono alcune indicazioni organizzative per i prossimi due – tre mesi. Come si può vedere, alcune di esse riguardano principalmente l’impegno delle strutture centrali del partito, ma altre richiedono un’iniziativa capillare delle strutture locali. 

a) La pubblicizzazione / valorizzazione dei primi risultati di inchiesta deve vedere la partecipazione dei compagni dirigenti locali del partito e dei compagni della direzione alle iniziative locali in cui essi verranno presentati, o deve trovare uno spazio adeguato e continuativo sulla stampa del partito. 

b) E’ necessario rafforzare “l’intelaiatura organizzativa” del dipartimento lavoro (ad es. coordinamento incontri periodici tra i responsabili regionali lavoro ed il dipartimento nazionale) e del lavoro di inchiesta (ad es. richiedono un preciso impegno dei responsabili lavoro a livello provinciale e regionale se possibile, allargando il nucleo centrale di coordinamento dell’inchiesta). 

c) E’ necessario che l’inchiesta sia uno dei riferimenti centrali della conferenza meridionale (in particolare sulla tematica “lavoro/non lavoro”), anche attraverso proposte rivolte “all’esterno”: ad es. con una proposta di inchiesta a Napoli sul lavoro sommerso, che raccolga “in positivo” il dibattito (spesso politicamente ambiguo) sulla necessità di “far emergere” il tessuto di lavoro (non sempre arretrato e “povero”) esistente nel Mezzogiorno. 

d) L’inchiesta può essere un elemento centrale di una conferenza dei lavoratori e delle lavoratori e delle lavoratrici: elemento centrale non il senso “formale” (la conferenza non deve essere una sfilza di “rapportini di inchiesta”, ma deve intrecciare elementi di analisi, di denuncia e di proposta non necessariamente provenienti dell’inchiesta), ma nel senso che essa può alimentare con elementi concreti e aggiornati di conoscenza della realtà il dibattito della conferenza (come in parte è già avvenuto alla riunione dei circoli aziendali tenutasi a Bologna il 28 Marzo) 

e) Infine, sarebbe opportuno utilizzare la presenza e i rapporti del partito a livello europeo per “allargare l’orizzonte” dell’inchiesta: I) raccogliendo materiali e informazioni, ad es. sul tema della riduzione d’orario, e raccogliendo risultati di altre inchieste affini alla nostra impostazione; II) gettando le basi per un futuro collegamento del lavoro di inchiesta tra diversi paesi.

Sommario

I MIRACOLI DELLE MOSCHE BIANCHE: LE ORLATRICI A DOMICILIO NELLA RIUVIERA DEL BRENTA
Di Gino Bortolozzo e Devi Sacchetto 
Nell’ambito dell’inchiesta che da più di un anno stiamo portando avanti nella Riviera del Brenta, abbiamo ritenuto importante conoscere la realtà delle lavoratrici a domicilio spesso immaginata come un residuo del passato ma che viene a calarsi a pieno titolo come elemento indispensabile nella forma dei rapporti di produzione odierni e nella struttura produttiva dell’area. Nella Riviera del Brenta l’industria calzaturiera investe l’intero territorio dalle fabbriche fin dentro alle abitazioni dove numerose orlatrici a domicilio (chiamate anche mistre) lavorano alla cucitura delle tomaie, come anche al completamento della scarpa. 
Il numero delle lavoratrici a domicilio è difficilmente stimabile in quanto oltre alle circa mille persone registrate ufficialmente sono presenti numerose lavoratrici che svolgono l’attività in modo irregolare. Il lavoro irregolare può essere causato sia dalle richieste delle imprese sia dalle esigenze delle lavoratrici dato l’esiguo salario che spesso gli viene corrisposto; non è quindi tanto il livello di tassazione elevato quanto i prezzi di pagamento delle commesse ad essere troppo esigui. In molti casi, sembra esistere una soglia minima che le imprese richiedono perché le lavoratrici possano essere regolarizzate; questa condizione è richiesta, probabilmente, dalle esigenze di tassazione delle imprese. In ogni caso, la demarcazione tra lavoro sommerso e regolare non è di facile definizione: vi sono casi di lavoratrici a domicilio regolari che svolgono anche commesse “in nero” per altre ditte o per la stessa ditta; in altre situazioni le orlatrici lavorano per alcuni anni in regola (o in nero) e poi cambiano il loro rapporto di lavoro; possono poi coesistere situazioni in cui una lavoratrice è pienamente regolare e qualche parente o amica svolge il lavoro in sub-sub-commessa in modo totalmente irregolare (il salario può anche essere pari a quello della lavoratrice regolare). In altri casi esistono veri e propri distributori di lavoro che “gestiscono” e distribuiscono il lavoro ad una serie di orlatrici per poi andare a recuperarlo una volta terminato. 
 All’interno del ciclo produttivo calzaturiero l’attività di orlatura è la fase lavorativa maggiormente decentrabile all’esterno delle fabbriche: il modesto investimento tecnologico necessario e l’estrema flessibilità della forza lavoro, quasi sempre femminile e poco sindacalizzata, risultano elementi fondamentali per la riduzione dei costi produttivi. Solitamente all’esterno vengono assegnate lavorazioni particolari di alta qualità che trovano maggiori difficoltà ad essere svolte all’interno di una catena produttiva in cui i tempi di esecuzione sono sempre più ristretti. 
 Le mistre devono provvedere ad ogni operazione in base ai tempi fissati per l’esecuzione delle scarpe che non prevedono rotture del macchinario; il loro salario dipende da un cottimo fissato dall’azienda sulla base di calcoli dell’impresa stessa. L’operazione viene eseguita da un’operaia, spesso la più capace ed esperta, debitamente cronometrata, dopo che l’operaia ha avuto modo di familiarizzare con il modello: sulla base di questo tempo è stabilita la tariffa. Le lavoratrici a domicilio raramente dispongono delle stesse attrezzature interne e sono perciò costrette ad allungare indefinitamente il tempo per la lavorazione di ogni tomaia. Il momento più critico è quando si cambia modello perché occorre studiare quale sia la costruzione più rapida del nuovo tipo di calzatura; effettivamente ad ogni cambio di modello le orlatrici a domicilio si trovano a dover “perdere” tempo prezioso e neppure le più esperte sono in grado di affrontare immediatamente la lavorazione nel tempo ottimale. In alcuni casi poi esse sono costrette a ritornare in fabbrica dopo aver completato una serie di campioni per la visione e l’assenso dell’imprenditore o di un suo delegato. Tutto il tempo e le spese necessarie per i viaggi fino al committente è ovviamente a carico dell’orlatrice che non ottiene nessun rimborso per questo lavoro; solo in alcuni casi le lavoratrici vengono rifornite del lavoro direttamente nella propria abitazione. L’applicazione di tempi particolarmente ristretti per l’esecuzione dei modelli permette agli imprenditori di mantenere bassi i costi sia all’interno sia all’esterno della fabbrica. In effetti, la persistenza di lavoro a domicilio a basso salario e di lavoro dipendente all’interno delle fabbriche con salari di poco superiori ma comunque particolarmente ridotti sono due fenomeni concatenati che peggiorano la qualità della vita oltre che del lavoro. Le lavoratrici a domicilio di uno specifico datore di lavoro raramente si conoscono e spesso è lo stesso imprenditore a cercare di dividere, per quanto possibile una classe operaia già di per sé sparpagliata nel territorio. 
Ma chi sono e come vivono le lavoratrici a domicilio ? Siamo andati ad intervistare, garantendo l’anonimato, alcune lavoratrici a domicilio per cercare di mettere a fuoco il vissuto di queste lavoratrici: donne, madri, casalinghe che cercano di coniugare lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. I riferimenti geografici, i nomi delle persone e le situazioni che potevano facilitare il riconoscimento dei soggetti intervistati sono stati cambiati, mentre il nome degli imprenditori sono quasi sempre originali. Le interviste sono state raccolte tra dicembre 1997 e gennaio 1998). 
Entriamo in casa di Fabrizia, l’odore del mastice, usato per le lavorazioni, ci colpisce subito; queste esalazioni respirate giorno dopo giorno diventano parte integrante della vita, entrando nel corpo delle lavoratrici ma anche dei familiari. Fabrizia adesso è pensionata: “Ho sessant’anni non faccio più l’orlatrice però ancora poco tempo fa mi hanno telefonato chiedendomi se volevo lavorare, io non ho neanche contrattato. Ho iniziato a sei anni a lavorare, perché noi a casa abbiamo sempre avuto lavoro, sono arrivata fino a cinquantacinque quando sono andata in pensione e da lì non ho più lavorato. Se potessi tornare indietro non sceglierei più questo lavoro, perché non sono stata ripagata per niente da questo lavoro; mi ricordo quando avevo otto anni e mezzo portavo su il lavoro alle mie sorelle che lavoravano e ti dicevano ‘ma vai ancora a scuola ? non sei capace di scrivere il tuo nome ?’; ecco, bastava essere capaci di scrivere il proprio nome, poi la scuola era tutto tempo perso. Mia sorella che ha undici anni più di me e quindi ha iniziato prima quando c’erano poche fabbriche, anche qua a Freggia, lavoravano tutte di ricamo, non c’erano tutte queste fabbriche; lei ha finito la quinta (elementare, N.d.a.) ed è andata ad imparare il mestiere in fabbrica. E’ stato negli anni dopo la guerra che si sono impiantate le fabbriche di scarpe nel 1944, nel 1945, c’era Voltan, Zanaga, Caovia. Io mi ricordo che mia sorella aveva venticinque anni ed ha fatto in tempo ad andare in una fabbrica di scarpe ma prima andava dalle suore a lavorare di ricamo e là prendevano ancora meno e dieci anni dopo siamo arrivati in mezzo alle fabbriche. La categoria più sfruttata è proprio questa e non sono mai riuscite a farsi i conti; quando lavoravo in fabbrica nel 1963-1964 io facevo i tempi che poi loro usavano per fare i prezzi alle scarpe: facevano il prezzo su un paio di scarpe, veniva là a vedere quanto tempo ci mettevo e schiacciava il cronometro e guardava quanto tempo ci mettevo e allora quando mi dicevano ‘vediamo quanto ci impieghi a fare queste cuciture sulle fodere’, io gli dicevo che bisognava fare la prova almeno su dodici paia perché allora si spacca l’ago, devi fare su il filo, finisci la spola, insomma hai un insieme di cose che perdi tempo. A quei tempi là, erano i tempi del progresso, diciamo così, le persone, tutti quanti prendevano soldi, tutti i padroni ma anche i lavoratori ma non tenevano presente quanto gli altri prendevano e quanta fatica si faceva. Io ho lavorato dal 1956, quando avevo diciannove anni, poi mi sono sposata a venti cinque e sono andata a lavorare un altro anno e mezzo, ho sempre fatto i tempi, i prezzi e dopo è sempre andata peggio fino a che…però guarda lui (l’imprenditore) come ha tirato su il personale, hanno iniziato a prendere macchine, hanno inserito la manovia (la catena di montaggio usata nel settore calzaturiero, N.d.a.) che è stata una piccola rivoluzione perché prima si lavorava a banchetto. In quegli anni c’erano quindici lavoratrici che facevano il lavoro completo e poi c’erano trenta persone che facevano sempre la stessa operazione, poi c’erano settanta, ottanta persone che lavoravano a domicilio, in tutto c’erano circa trecento persone tra dentro e fuori. In quell’epoca chi era in grado di farsi i conti ?, chi aveva fatto la quinta ?; non erano neanche capaci di firmare. La mia amica aveva fatto la terza e io la quinta e tutti gli altri avevano fatto meno di noi. A partire dal 1984-1985 ho iniziato ad avere dei problemi con mia madre che poi è mancata; pensa che prima delle dieci e mezza undici non riuscivo a sistemarla e dopo avevo queste scarpe e mi toccava sedermi ed andare avanti fino alle due, due e mezza della notte e dopo la mattina iniziare di nuovo. Ce l’ho fatta per un pezzo ma dopo era troppo pesante. Io ho dolori alle mani dal 1982, potrebbe anche essere stato il mastice, perché lo davo con le dita come si faceva un tempo, perché i pennelli sono usciti dopo; ho fatto due anni che ho preso soldi, e sono stati gli unici due anni in quarant’anni che ho fatto questo lavoro che posso dire di aver preso dei soldi, ero in regola però poi ho avuto dei problemi in casa con mia madre e per essere in regola bisogna lavorare tanto altrimenti non ti tengono in regola; facevo venticinque, ventotto paia di scarpe al giorno, lavoravo sei, sette ore, ero già fuori regola, perché non volevano mettermi in regola perché bisognava prendere almeno seicento mila lire al mese e io prendevo quattrocento mila lire o quattrocento e cinquanta mila lire. Il lavoro a domicilio dipende anche dal carattere perché stare sempre sedute in casa per tutte quelle ore perché andando fuori hai un altro modo per vedere le cose, perché ad esempio quella signora che abita vicino a casa mia mi ha detto che lei non lavora più nelle scarpe ma preferisce andare a servire ed ha quarantasette anni. Adesso tante donne che facevano le orlatrici sono a servire, a fare lavoro domestico, a stirare per diecimila lire all’ora che prendono di più che non a fare scarpe dove c’è anche maggiore professionalità, ma non viene pagata”. 
Cambiamo casa, il solito tenace odore di mastice che ci seguirà per tutte le interviste, sembra quasi che la Riviera sia impregnata di mastice. Claudia ci racconta: “sono sposata ho quarantacinque anni e ho un figlio, faccio questo lavoro da quindici anni, attualmente lavoro per una ditta artigianale sono assunta in regola con un contratto per lavoratrice a domicilio; prima di sposarmi ho fatto anche altri lavori ma da quando mi sono sposata ho sempre fatto questo. Attualmente lavoro otto ore al giorno, mediamente percepisco da novecento a un milione e cento mila lire al giorno, mi sono riconosciute le ferie e le gratifiche natalizie e in percentuale anche la cassa malattia; oltre a questo lavoro faccio la casalinga. Questo lavoro l’ho imparato da un’altra lavoratrice a domicilio, il periodo di apprendimento è durato dai due anni e mezzo ai tre anni, in questo periodo mi davano la mancia. Sono nove anni che sono assunta in regola. Ho scelto di fare questo lavoro per motivi familiari per badare a mia figlia e a mio marito perché i vantaggi di questo lavoro sono che ti gestisci il lavoro e puoi fare come vuoi; non è un lavoro che mi dispiace anche se ho pensato di cambiare lavoro soprattutto per avere un salario più elevato. Io inizio a lavorare alle otto del mattino e lavoro fino a mezzogiorno, poi di nuovo dalle due fino alle sei, il resto lavoro per pulire la casa, fare da mangiare, lavare e stirare. Il lavoro lo faccio in salotto, di solito uso il mastice ed anche quello ad acqua da circa un anno ma io non sono capace di lavorarlo, loro ti obbligano ad usarlo ma io non sono capace di adoperarlo. I collanti mi sono forniti dalla ditta che mi fornisce tutto all’infuori degli aghi per cucire che li comperò io nei negozi dove vendono il materiale per i calzaturifici e che non mi vengono rimborsati. Conosco qualche altra mistra ma non ho contatti con le mistre che lavorano per la stessa fabbrica per cui lavoro io. Il problema di questo lavoro è che tu devi fare prima il campione, poi lo porti là e ti dicono se va bene oppure no; quindi ti capita anche  di disfare la scarpa e questo è tutto tempo che non ti viene retribuito perché se questo succede in fabbrica il tempo ti viene retribuito mentre io perdo uno o due giorni al mese che non mi vengono pagati e questo mi succede ad ogni cambio di modello. Ho chiesto che mi fosse retribuito ma mi hanno risposto che ‘così è, se vuoi, altrimenti ne possiamo trovare anche altre mistre’. I tempi e quindi anche i prezzi sono stabiliti dalla fabbrica è raro che ti modifichino i prezzi perché quando il prezzo è fatto rimane così per tutta la stagione. Io non so come facciano i prezzi e i tempi; i prezzi li sai solo alla fine del mese, quando io cambio il modello non so il prezzo e lo vengo a sapere solo a fine mese. Io conosco persone che facevano le mistre e hanno smesso, adesso fanno le domestiche; nel nostro circondario ci sono molte persone che facevano le mistre e subito dopo quando hanno visto che prendevano pochissimi soldi e c’era tanto da lavorare sono partite e sono andate nelle case dei medici, dei padroni delle fabbriche a fare le pulizie, a fare i servizi di casa perché prendono più soldi e non hanno l’impegno di stare là, sotto la luce, di usare il mastice, che non sono occupate la sera e che sono più pagate; anch’io tempo fa ho dedicato anche qualche sera a questo lavoro. E’ difficile fare i calcoli di quanto prendo all’ora comunque mediamente credo siano intorno alle cinquemila lire all’ora, dipende perché ci sono le giornate che riesci a prendere duemila lire all’ora e altre che riesci anche a prendere seimila lire all’ora ed è per questo che tante mistre hanno cambiato mestiere perché andare a servizio come minimo prendono diecimila lire all’ora. Molti tentano anche di andare dentro ai tomaifici perché prendono un milione e due, un milione e quattrocento mila lire al mese perché là è un lavoro a catena, invece un’orlatrice a casa deve fare tutto; mi avevano proposto di entrare in un tomaificio ma io ho preferito stare a casa perché mi gestisco meglio il tempo”. 
Cambiamo scena. Franca: “Ho 32 anni e non sono sposata, sono circa sedici anni che faccio questo lavoro, non ho mai svolto altri lavori. Adesso lavoro per una ditta artigianale, sono assunta in regola con un contratto per lavoro a domicilio da quasi quattro anni; lavoro otto ore e mezza, nove ore, percepisco mediamente un milione e trecento mila lire al mese; non sono tanti soldi perché se fai il conto sono meno di ottomila lire all’ora scarsi e questi sono lordi saranno seimila lire netti, mentre io per andare bene dovrei prendere dodicimila lire all’ora. Per imparare sono andato a lavorare per un anno da un’altra orlatrice, questo periodo mi è stato pagato anche se erano cifre irrisorie, piccole mance. Ho fatto questo lavoro per avere degli altri orari e per essere più libera in orari che a me interessavano; i vantaggi nella mia occupazione è proprio questo che si può variare l’orario di lavoro e gli svantaggi sono principalmente che non mi danno la tredicesima in dicembre e le ferie in agosto. Ho pensato talvolta di abbandonare questo lavoro ma per il momento non saprei che cosa andare a fare in alternativa. Non ho mai avuto problemi di salute per il tipo di lavoro che svolgo e non mi sono mai infortunata sul lavoro, ho fatto una visita specialistica nella ditta per cui lavoro con un medico di medicina del lavoro un anno o due fa che non mi ha riscontrato niente anche se non ho mai fatto analisi del sangue per quanto riguarda gli effetti dei collanti. Ho contatti con altre mistre che fanno questo stesso tipo di lavoro, delle amiche anche se non conosco nessuna mistra che lavora per il mio stesso datore di lavoro. Sono abbastanza soddisfatta perché è un lavoro abbastanza creativo non è così ripetitivo. I prezzi e i tempi vengono definiti dal mio datore di lavoro; io riesco a sapere quanto prendo per ogni paio di tomaie cucite di sicuro dopo e ad occhio anche prima. La mia giornata tipo è sveglia alle otto, inizio a lavorare alle otto e un quarto, fino a mezzogiorno meno un quarto, poi dall’una alle sei di sera poi se ho un po’ di tempo lavoro anche una mezz’oretta dalle otto e mezza fino alle nove ma è raro. Non avendo bambini la giornata me la gestisco abbastanza bene.” 
Ci muoviamo, un altro paese, pochi chilometri. Chiara: “Non sono sposata ho quarant’anni, ho iniziato questo lavoro dieci anni fa; allora andavo a lavorare a Grante e poi facevo mezza giornata di questo lavoro qua per arrotondare ma non arrotondi mai anche perché quando hai già fatto un certo tipo di lavoro quando vieni a casa sei abbastanza stanca, comunque lavoravo così con una socia e un ragazzo qua vicino ci portava il lavoro, almeno fino a tre anni fa. Io ho lavorato anche in fabbrica quando avevo sedici anni, poi la mia fabbrica è fallito, io cercavo ancora nel mio settore perché sapevo fare quello, però in quel periodo il settore era un po’ alla deriva, diciamo così, per cui tutti ti dicevano di no e quindi ho cercato altre strade; però, siccome io questo lavoro mi piace farlo e ci tengo a farlo, anche perché mi da delle soddisfazioni, perché quando tu vedi una cosa che riesci a fare bene hai anche soddisfazione a farlo. Quindi tre anni fa siamo andate a cercare poi abbiamo trovato questa fabbrica, anzi molte fabbriche poi abbiamo iniziato a lavorare per un tomaificio che ci ha tirato un bel bidone perché non pagava questa tipa e noi non possiamo star lì a lavorare e stare due, tre mesi senza stipendio e poi hanno fatto un forfait e abbiamo deciso di non lavorarci più. Io lavoro per una ditta che dista dieci, undici chilometri, vado io a prendere il lavoro e talvolta se ho problemi con la macchina vengono loro, basta che gli telefoni; non sono assunta in regola, mentre la mia socia è in regola ma se non ci sono io lei non fa niente perché lei non cuce, lei non fa la scarpa completa. Io ho fatto anche altri lavori, ho fatto la colf, ho lavorato in un albergo, sono andata a vendere piante, ne ho fatti parecchi di lavori; sono andata anche a Lorne (dista trenta chilometri) un’estate a piantare il radicchio e in quasi tutti questi lavori ero quasi sempre in nero. Adesso non faccio altri lavori oltre a questo. Lavoro anche dieci, undici ore al giorno dipende da che fretta hanno, delle volte lavoro anche il sabato e la domenica se proprio sono urgenti e devono fare le spedizioni; ad esempio, dovevamo portare su delle scarpe questa mattina ma purtroppo ci sono sempre delle difficoltà tecniche e quindi siamo indietro, gliele porto su domani mattina, però martedì era festa anche per noi e non solo per loro (era l’Epifania, N.d.a.). Io non so quanto prendo in media perché fanno una busta paga unica con la mia socia e poi si tengono giù tante trattenute e poi dipende dal modello perché adesso noi stiamo facendo l’estivo che è sempre pagato un po’ meno dell’inverno. Il prezzo dipende sempre dal tipo di modello, comunque in media io prendo circa un milione al mese e un altro milione lo prende la mia socia ma dipende perché se andiamo verso fine stagione il lavoro non c’è e ti lasciano senza lavoro perché con il cambio di stagione la produzione cala; rimangono a casa anche in fabbrica però loro hanno la cassa integrazione mentre noi non prendiamo niente neanche la mia socia che è in regola. Ho imparato questo mestiere circa dieci anni fa, avevo trent’anni; mi ha insegnato una signora, io sapevo già fare alcune cose perché quando lavoravo in fabbrica e magari non c’era lavoro fai anche altre cose. Lavorare a casa, tutto sommato, hai solo le mani e quella macchina là e per esempio a noi è successo che all’inizio della stagione scorsa a giugno mi sembra ci avevano dato un modello che se non hai la macchina a colonna non riesci a fare la scarpa e insomma con calma anche se i soldi sono sempre quelli perché se tu ci impieghi una giornata a farne un paio i soldi sono quelli solo del paio e noi ci abbiamo impiegato due giorni a fare dieci paia di scarpe perché non avevamo la macchina per cui là abbiamo perso solo tempo. Ci ho impiegato circa tre anni ad imparare e per questo periodo diciamo che quando vai ad imparare non ti pagano mai, ti danno qualcosa, una mancia però intanto gli mandi avanti il lavoro perché questa signora qua, da cui sono andata per imparare, andava al mercato, faceva i suoi mestieri e tutto quello che doveva fare e intanto aveva cinque o sei ragazze che gli mandavano avanti il lavoro; cioè noi facevamo sessanta paia di scarpe al giorno e lei a volte c’era tutto il giorno a volte no. Ho fatto questo lavoro perché in altri settori non guadagni più di tanto e poi anche in fabbrica ti dicono sempre di no perché ormai hai una certa età e quindi non è stata proprio una scelta questo lavoro ma di sopravvivenza perché altrimenti dove andavo a mangiare, bisogna per forza vivere. I vantaggi di questo lavoro è che gli orari te li gestisci tu come vuoi perché ad esempio io quando devo andare via un’ora vado e poi recupero più tardi e gli svantaggi sono i prezzi che non sono mai adeguati al lavoro legato ad un certo tipo di scarpa che potrebbero essere pagati un po’ di più, non dico tanto ma quel po’ di più che comunque insomma anche se è un modello lunghissimo non è che ci prendi molti soldi e devi correre perché ti dicono ‘io ho bisogno’, perché loro quando fanno i campioni ne fanno un paio e hanno risolto tutti i problemi però la mistra è quella che deve sempre fare i miracoli perché se loro non mi modificano gli stampi o non fanno il resto a volte io non posso fare i miracoli; io mi sono alzata anche alle quattro una volta per finire il lavoro. Il rapporto con il padrone è normale, non abbiamo mai avuto problemi particolari, sono tutti molto cordiali; abbiamo trovato anche persone che ci hanno chiuso dentro in fabbrica tirandoci un carrello perché non voleva darci i soldi. Quando ci cambiano il modello troviamo qualche difficoltà perché te lo spiegano a voce e tu devi capire che cosa fare e talvolta lavorando le difficoltà tecniche arrivano; loro di solito ti dicono fammene un paio, vieni su e me li mostri però che cosa vuoi che capisca delle difficoltà con un paio perché le difficoltà le incontri quando tu ne fai tante paia. Io lavoro tra la cucina e il salotto però adesso ho intenzione di andare in un’altra stanza là fuori anche per evitare a mia madre di respirare il mastice visto che già respira il fumo; mia madre vorrebbe che non stessi qua perché magari sporco. Non sono contenta di quello che mi pagano perché potrebbero pagarmi di più visto e considerato che le mistre ormai le stanno cercando come fossero mosche bianche perché l’estate scorsa è venuto uno a chiedermi se lavoravo per lui; il problema è che quando hanno le orlatrici dovrebbero tenersele strette e pagarle meglio perché altrimenti lo sanno che appena possono gli scappano e infatti una fabbrica a Stanbo sono rimaste senza orlatrici ed avevano una marea di scarpe da orlare e sicuramente alla fine della stagione ci hanno rimesso un sacco di soldi. Non ho mai pensato di abbandonare questa attività perché mi piace e mi dispiacerebbe mollarla e quindi tengo saldo proprio per questo. La mia giornata tipo è questa mi alzo alle otto, ma anche alle sei dipende, cerco sempre di svegliarmi presto, poi faccio colazione e mi metto a lavorare fino a mezzogiorno, dopo si mangia e alle due riprendo a lavorare fino alle sette, sette e mezza, alla sera qualche volta lavoro, dipende se è roba urgente; non si può fare una media mensile dipende dal periodo, ad esempio stasera avrei da lavorare, diciamo due, tre sere al mese, una sera siamo rimasti su fino alle due a lavorare. Io riesco a stabilire il prezzo che mi pagano per le scarpe dopo che le ho fatte perché non puoi capire prima, dipende da quanto ci impieghi a farle”. 
 Fabrizia, Claudia, Franca, Chiara ci mostrano un mondo sempre in bilico tra sommerso e regolarizzato nel quale l’orlatrice risulta particolarmente flessibile alle esigenze produttive anche perché è un lavoro a cui ci si dedica con attenzione, è una “creazione”. La professionalità, mai riconosciuta a livello salariale, permette alle lavoranti a domicilio di notare subito le difficoltà di ogni modello e sono esse stesse che talvolta suggeriscono, all’imprenditore, le modifiche da applicare per una maggiore linearità del processo lavorativo all’interno della fabbrica. La destrezza e l’abilità con cui le mistre si adoperano si contrappone alla ripetitività ossessiva che vige all’interno della fabbrica in cui l’estrema parcellizzazione del lavoro impedisce la crescita professionale. Tuttavia, è chiaro che dall’interno delle proprie case, nel totale disinteresse delle istituzioni competenti (ispettorato del lavoro, sindacato, ecc.) le orlatrici a domicilio percepiscono una situazione di totale isolamento in cui una delle poche difese a disposizione rimane la ricerca di un altro committente oppure la decisione, sempre difficile, di cambiare lavoro. All’interno delle imprese, anche quelle più piccole, si inizia invece a registrare l’emergere di una più marcata differenziazione sociale con un acuirsi delle tensioni che questi piccoli agenti del capitale tentano di gestire facendo leva sulla coppia formalità ed informalità e sulla tendenziale riduzione degli aspetti lavorativi a rapporti fra conoscenti. E’ un processo lento, ma la differenziazione di classe anche nelle piccole imprese del miracolato veneto, frutto del tentativo di formare “l'unità dei produttori”, questa differenziazione comincia a manifestarsi platealmente e la classe operaia non sembra per niente disposta a continuare su quella strada che aveva garantito un ampliarsi dell'occupazione con un aumento del monte salari familiare.

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LA SUBORDINAZIONE INVISIBILE: LAVORARE NELLE COOPERATIVE 
Sintesi della ricerca per il "Bollettino di inchiesta" del PRC
Questa ricerca rappresenta una prima indagine compiuta in Veneto e più in particolare nella provincia trevigiana, che sarebbe interessante approfondire ed estendere ad altre realtà territoriali. 
Emerge un ritratto piuttosto chiaro di quella parte del mondo delle cooperative, oggi predominante in termini di occupazione e fatturato che, interpretando nel modo più estensivo le controverse norme riguardanti l’appalto di manodopera , va praticando da quasi vent’anni un lavoro interinale senza regole; fino ad arrivare, nei casi limite, a nuove e nemmeno troppo celate forme di caporalato. 
Si è cercato di portare alla luce i vissuti e le condizioni dei soci lavoratori delle cooperative di produzione lavoro e tipo misto , con particolare attenzione ai rapporti tra soci e con le aziende committenti nei luoghi di lavoro. Per arrivare a questo ci si è serviti della collaborazione e delle testimonianze di chi ha affrontato esperienze di lavoro in questo settore; proprio le interviste ai soci sono state forse i più significativi strumenti che hanno permesso di scavare sufficientemente a fondo all’interno del mondo delle cooperative. 
E’ a partire dagli anni ottanta che le cooperative iniziano ad inserirsi in quegli spazi del tessuto produttivo delle aziende lasciati vacanti in seguito ai processi di ristrutturazione e terziarizzazione della produzione; oppure, per quanto riguarda il settore pubblico, sono le cooperative di servizi a rilevare quelle funzioni che vengono esternalizzate in seguito al progressivo sgretolarsi dello stato sociale. Le cooperative in questione coprono ruoli cruciali affittando la manodopera dei soci, rispondendo così alle esigenze di flessibilità delle imprese private e degli enti pubblici; appare chiaro, quindi, che le finalità sociali non possano più essere rispettate, essendo incompatibili con criteri di gestione propri di un qualsiasi capitalista privato. 
Nelle cooperative oggetto della ricerca, il nocciolo duro della compagine sociale è rappresentato da un 10-20% di lavoratori di età media con diversi anni di esperienza nel settore; sono quei soci che hanno scelto il lavoro in cooperativa piuttosto che un’occupazione dipendente, ai quali viene spesso affidata la gestione di una squadra di lavoratori all’interno di un appalto; la discriminazione tra questa minoranza ed il resto dei soci si riscontra sia per quanto riguarda l’autonomia di gestione del proprio lavoro, sia per quanto riguarda il salario, nettamente superiore alla media. 
La maggioranza dei soci è rappresentata invece da chi si trova nella necessità di accettare un’occupazione in cooperativa, almeno temporaneamente: giovani ragazze e ragazzi nell’attesa di trovare un lavoro che permetta di sfruttare il titolo di studio conseguito, studenti universitari, studenti medi nei periodi estivi; in questi casi però non sempre la precarietà si risolve in breve tempo, con il rischio che il crescente disagio ostacoli la volontà di miglioramento della propria situazione. Nelle cooperative sono presenti anche individui non più giovani, come ad esempio ex lavoratori dipendenti o autonomi, espulsi dal ciclo produttivo o falliti; sono soggetti che in un mercato del lavoro sempre più selettivo soprattutto in termini anagrafici non possono più essere competitivi; ancora, sono presenti lavoratrici e lavoratori, giovani e meno giovani, appartenenti alle fasce sociali marginali; fino ad arrivare, com’è purtroppo ovvio parlando di sfruttamento, ai cittadini immigrati. Sono quindi le fasce deboli ed economicamente ricattabili della popolazione a rappresentare la fonte di reclutamento principale per le cooperative bisognose di forza lavoro. Si distinguono dalle altre le cooperative che svolgono servizi di assistenza e pulizie, nelle quali la compagine sociale è composta in maggioranza da donne che, nella maggior parte dei casi, si avventurano alla ricerca di occupazioni caratterizzate da una flessibilità che permetta di conciliare il lavoro esterno a quello domestico; ma il lavoro in cooperative di questo tipo non risponde alle loro esigenze, essendo concentrato soprattutto in fasce orarie coincidenti con i momenti cruciali della vita familiare. 
Va assolutamente contrastata l’idea che un’occupazione di questo tipo possa permettere alla lavoratrice e al lavoratore di gestire il proprio tempo con una certa discrezionalità; non sono le aziende che si adattano alle esigenze della forza lavoro concedendo flessibilità, è semmai l’imposizione di questa che vincola i lavoratori alle rigidità delle aziende: è il just in time che richiede flessibilità al lavoro, non il lavoratore che per un’esigenza di autonomia impone la produzione snella all’azienda. E’ chiaro nel caso delle donne che si trovano a lavorare per le cooperative di pulizie al mattino o all’ora di pranzo, così come è chiaro nel caso degli universitari che si vedono costretti a modificare i programmi di studio per adattarli alle esigenze del lavoro in cooperativa. 
In alcuni casi, soprattutto per quanto riguarda i giovani, è il rifiuto della connessione tra salario e ripetizione routinaria della prestazione lavorativa che indirizza all’occupazione in cooperativa; ma quello che appare un lavoro a opera alla fine non è altro che una forma di cottimo che, in quanto tale, attraverso la concorrenza fra i lavoratori, non fa altro che abbassare il livello medio dei salari attraverso l’aumento dei salari individuali (dei pochi lavoratori che riescono a superare livelli di produzione già elevati). 
Le cooperative di produzione lavoro e tipo misto possono offrire una vasta gamma di prestazioni: facchinaggio, trasporti, gestione di magazzini, pulizie, raccolta e smaltimento dei rifiuti, cura del verde pubblico e privato, costruzione, manutenzione e gestione di fabbricati, assistenza ospedaliera e domestica, gestione di mense, spacci e punti vendita, corsi di formazione, gestione di progetti giovani. 
Secondo le leggi vigenti, il lavoro dei soci nelle aziende appaltanti dovrebbe essere impiegato esclusivamente in funzioni esterne al ciclo produttivo, come ad esempio il trasporto, il carico e lo scarico delle merci, la gestione di magazzini, la pulizia e la manutenzione; non sembra chiaro però come possa essere considerata esterna al ciclo produttivo la movimentazione delle merci in aziende che, nel gestire la produzione decentrata e la strategia del valore, hanno trasformato la logistica e la gestione dei magazzini in settori fondamentali e primari rispetto alla stessa produzione materiale (vedi Benetton). Per aggirare il divieto all’interposizione di manodopera espresso dall’articolo 1 della legge 1369/60, le cooperative che eseguono lavori di produzione diretta per le aziende appaltanti arrivano a costituire linee di montaggio in piena regola all’interno delle proprie sedi, anche se non mancano i casi in cui intere linee interne alle aziende siano fatte funzionare da squadre di cooperatori. La stessa legge vieta espressamente al committente di ingerire nell’organizzazione e nella gestione della cooperativa, ma dalle testimonianze dei soci emerge una realtà in cui l’organizzazione e la direzione del lavoro sono affidate ai capiturno ed ai responsabili del personale delle imprese; in questi casi l’unica via di scampo per i soci è quella di affrontare una vertenza sindacale che finirebbe per obbligare l’impresa appaltante ad assumerli; ma si possono facilmente immaginare le condizioni in cui si troverebbe a lavorare un ex socio assunto con questa modalità. 
Le aziende e gli enti pubblici che appaltano il lavoro all’esterno, oltre a ridurre i dipendenti diretti e quindi una quota dei costi fissi, mettono allo stesso tempo in concorrenza tra loro i lavoratori ricavando così ulteriori benefici. La logica praticata dagli appaltanti è quella del massimo ribasso dei prezzi; questo vale sia per le industrie private che per le aziende pubbliche, con la differenza che per le seconde non peggiora solo la qualità del lavoro, ma come conseguenza di questo primo peggioramento si verifica inevitabilmente un peggioramento del servizio, provocando un danno diretto alla collettività; un esempio può essere quello dell’assistenza domestica svolta in massima parte da donne che, in conseguenza all’applicazione del massimo ribasso nell’appalto, si trovano a percepire circa 6.500 lire l’ora; condizioni che spingono a cambiare lavoro quanto prima, costringendo l’utente a vedersi entrare in casa sempre persone diverse. 
Il lavoro delle cooperative ha nella disponibilità alle esigenze della produzione la sua ragion d’essere. Queste esigenze di flessibilità sono fondamentali sia nelle piccole imprese, vincolate alle variazioni della domanda, sia in settori della grande industria in cui è poco conveniente la standardizzazione delle mansioni e dei tempi. In base a questi imperativi i dirigenti decidono dove muovere intere squadre di cooperatori, quale lavoro far loro svolgere, in quali orari e turni; il socio, a causa della debole protezione di cui può godere e del bisogno economico, non può far altro che subire le decisioni prese da altri; quella che formalmente dovrebbe essere una caratteristica fondamentale del rapporto societario nella cooperativa, cioè l’imprenditorialità collettiva, nella realtà rimane solo un’utopia. Tutto questo produce un elevato turnover dei soci nei vari posti di lavoro, anche se per una limitata élite il posto rimane lo stesso dall’inizio alla fine di un appalto (quindi a volte anche per anni). Per la maggioranza dei lavoratori, invece, la stabilità massima può arrivare a qualche mese di permanenza in uno stesso luogo di lavoro; i disagi derivanti da una simile situazione sono molteplici: dalla perdita di numerosi giorni di lavoro in un anno, alla continua necessaria ricostruzione di rapporti sociali sul luogo di lavoro, solo per fare due esempi. Naturalmente trasferte e spostamenti verso il luogo di lavoro sono a carico del cooperatore e non vengono considerati tempo lavorato; alcuni soci intervistati hanno fatto notare che negli appalti peggiori non è nemmeno possibile mangiare nella mensa dei dipendenti dell’azienda; in questi casi si è costretti ad accontentarsi di uno spuntino portato da casa. 
In alcune cooperative di produzione lavoro la maggioranza dei soci è costituita da immigrati che spesso, non disponendo di un mezzo di trasporto, vengono portati al lavoro con i furgoni delle stesse cooperative; alle sei di mattina i piazzali delle stazioni ferroviarie si vedono trasformati in punti di raccolta per decine di cittadini extracomunitari in attesa che gli automezzi dei nuovi caporali arrivino a prelevarli; ma nei periodi in cui la domanda di lavoro scarseggia accade frequentemente che alcuni di loro si presentino in vano per diversi giorni. 
Lo scopo principale delle cooperative di produzione lavoro dovrebbe essere di tipo mutualistico: per loro natura dovrebbero quindi permettere ai soci di ottenere condizioni economiche, professionali e sociali migliori rispetto a quelle disponibili sul mercato; ma il ragionare in termini esclusivamente imprenditoriali ha portato al progressivo offuscamento di questo scopo, parallelamente all’aumento dei profitti dei gruppi dirigenti delle società. 
La stessa figura del socio è molto ambigua: da un lato è socio di capitale, dall’altra è un dipendente. La sua remunerazione è costituita da compensi periodici, che formalmente vanno intesi come acconti rispetto al risultato annuale della gestione; secondo la legge, se il cooperatore percepisce una paga fissa periodica, il suo reddito va equiparato a quello di un dipendente per quanto riguarda l’assoggettabilità ai contributi assistenziali e previdenziali; lo stesso discorso vale per l’orario di lavoro, il riposo settimanale, i licenziamenti collettivi, la cassa integrazione e la mobilità; ma se l’equiparazione descritta è valida ad esempio per l’Inps, l’orientamento della giurisprudenza considera il rapporto di lavoro cooperativo come esecuzione di un patto sociale, quindi completamente estraneo alla fattispecie del lavoro subordinato. Il difficile inquadramento del rapporto di lavoro del socio, insomma, lo priva di quelle tutele processuali che sono invece garantite agli altri lavoratori. 
Spesso i dirigenti delle cooperative sfruttano queste ambiguità per imporre condizioni del tutto arbitrarie: salari d’ingresso per i nuovi soci; straordinari, festivi, notturni e ferie che non vengono pagati; trattamento di fine rapporto non riconosciuto. Sono pochi gli esempi in cui i trattamenti salariali sono stabiliti sulla base dei contratti collettivi nazionali dei settori in cui si svolge prevalentemente l’attività della cooperativa; e in questi pochi casi è difficile reggere la concorrenza con chi applica esclusivamente la logica del massimo ribasso. 
Il momento societario più importante nella vita della cooperativa è l’assemblea annuale, durante la quale viene approvato il bilancio, vengono stabilite le quote di utili da ripartire tra i soci e i compensi degli amministratori, viene nominato il consiglio di amministrazione che dirigerà la società per il periodo successivo. Dovrebbe essere quindi l’occasione in cui la compagine sociale partecipa alle decisioni; in realtà, soprattutto per le cooperative con centinaia di soci, è il momento in cui i soci lavoratori si rendono definitivamente conto della loro impotenza nei confronti dei dirigenti. Anche i più combattivi sono costretti a ripiegare rispetto alle loro rivendicazioni, perché difficilmente riescono a trovare l’appoggio della maggioranza dei loro colleghi, timorosi delle conseguenze che potrebbe avere una loro opposizione alla linea della dirigenza. Peraltro, sono pochi i cooperatori che conoscono i loro diritti, sanciti dallo statuto costitutivo, che assume anche il valore di contratto tra i soci; in molti casi, ed è facile capire perché, le cooperative non si preoccupano eccessivamente di diffonderlo. Lo stesso statuto prevede solitamente la distribuzione di premi annuali ai soci, i quali però, ignorando questa possibilità, non sono in grado di rivalersi nei confronti degli amministratori nel caso in cui i premi non vengano distribuiti. 
I dipendenti delle cooperative sono soggetti negati perché atipici: privati della loro autonomia alla stregua degli altri lavoratori dipendenti, non possono ricevere sufficiente tutela dal sindacato, ancora incapace di indirizzare la sua iniziativa all’esterno della fabbrica tradizionalmente intesa; solo con l’azione individuale possono affrontare le conseguenze della precarietà in cui sono costretti, nell’attesa che, chi si sente in dovere di sostenerli, fornisca loro nuovi strumenti con i quali si possano emancipare. 

A. Brentel, L. Enzo, G. Merotto, S. Mestriner 
Giovani Comunisti PRC Treviso - S.I.A.L. (sportello di inform. e ass. lavoratori) Treviso

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L’inchiesta realizzata dal circolo ENEL di Palermo
Uno degli obbiettivi che ci eravamo posti, come circolo, era quello di coinvolgere in una nuova forma di lavoro politico quanti più compagni possibile sia del circolo che di altre realtà territoriali della regione, ma che soffrono di un isolamento organizzativo e politico nella loro realtà lavorativa. Inoltre volevamo farci conoscere anche dove non eravamo mai stati presenti con iniziative di circolo. L’inchiesta ha raggiunto questi obbiettivi anche se, proprio per le premesse esposte, si è dilungata oltremodo. 
Le reazioni dei lavoratori sono state diverse: sospettosi o indifferenti alcuni, entusiasti di essere consultati da altri. Sulle domande che riguardavano direttamente le OO.SS si è avuto il massimo di astensioni nelle risposte (più del 10%), comunque possiamo affermare che, mediamente, è stato accolto favorevolmente anche se con scetticismo sulla sua utilità. 
I dati emersi sono stati oggetto di analisi e di dibattito nel circolo e di essi si terrà sicuramente conto nelle nostre future iniziative. Non ci nascondiamo che qualche sorpresa l’abbiamo avuta e qualche dato deve ancora essere compreso, ma questo semmai dimostra la validità dell’inchiesta come conoscenza. 

Alcuni dati che fanno da scenario all’inchiesta. 
Al 31/12/97 i dipendenti ENEL erano in Sicilia 7454 (53.9% impiegati, 41.2% operai, 4.9% quadri), di cui il 79.6% iscritti ad un sindacato. 
L’inchiesta è stata realizzata a cavallo tra marzo ed aprile nella forma di questionario, distribuito in poco più di mille esemplari tra i lavoratori ENEL di vari luoghi di lavoro della Sicilia, anche se la grandissima parte della provincia di Palermo, e rappresentativi di varie realtà produttive (Distribuzione, Trasmissione, Produzione, Servizi). Abbiamo raccolto 600 questionari di cui 450 nella sola provincia di Palermo, a cui hanno risposto impiegati (67.1%), operai (24.1%) quadri (8.7%), iscritti per il 75.2% ad un sindacato: dati indicativi di un nostro maggiore insediamento nei luoghi di lavoro a maggiore concentrazione impiegatizia. 
E’ stato inevitabile per alcuni di noi ricordare il questionario realizzato dalla Federazione del PCI di Palermo nell’83 che raccolse nella sola provincia di Palermo 1151 questionari validi. Ma allora si  mobilitò la Federazione, la FNLE (ufficiosamente) e i dipendenti ENEL erano il 30% più numerosi degli attuali. 

Il giudizio sulle prospettive dell’ENEL. 
La stragrande maggioranza degli intervistati si è detta contraria alla privatizzazione dell’ENEL 
(82.4% contro, il 12.8% a favore , anche se tra giovani è favorevole il 20% mentre gli anziani solo il 12.2%), e si è dichiarata convinta che una azienda pubblica possa essere efficiente (88.4% contro il 7.8%, anche se tra i giovani quest’ultima percentuale sale all 10%). Coerentemente a queste convinzioni , il 36.4% si è detto convinto che battersi contro la privatizzazione dell’ENEL rappresenta una delle tre cose più importanti che le OO.SS dovrebbero perseguire. 

Il giudizio sulle OO.SS.. 
Le OO.SS. escono male dall’esame dei dati del questionario. Anzitutto l’avere accantonato ogni battaglia per rivendicare la natura pubblica dell’ENEL, quando invece per il 36.4% dei lavoratori è tra le cose più importanti; sulla progressione di carriera solo il 23% ritiene che ha una corrispondenza nelle potenzialità e nelle professionalità maturate e addirittura il 37.4% ritiene che la carriera sia fatta solo da raccomandati e lecchini, con ciò criticando ferocemente non solo l’Azienda ma anche le OO.SS. per gli accordi (e le pratiche) vecchi e nuovi per dare una risposta, credibile e condivisa dalla gente, a questa aspirazione che è sentita come un esigenza. 
Alla domanda che richiedeva un giudizio più complessivo, solo il 2% ha risposto che le OO.SS. tutelano bene i lavoratori, mentre il 45% le giustifica, anche se ne riconosce l’impotenza, quando afferma che “fa quello che può”. Infine il 51% afferma che “non combina nulla” o “non esiste”. 
La differenza tra le OO.SS. non è visibile, visto che per il 21.7% esistono molte differenze, per il 32.8% poche differenze, per il 35.3% nessuna differenza (il 10% ha preferito non rispondere). 
Il giudizio sulla autonomia dai partiti è nettissimo: per l’81% il Sindacato “non dovrebbe schierarsi con nessuno”, mentre l’8.7% (il 10.3% non ha risposto) è favorevole ad un legame aperto. Il 19% giudica le OO.SS. “completamente dipendenti” dai partiti, mentre il 46.2% reputa che risentano di un forte condizionamento. Solo il 3.7% ritiene che le OO.SS. siano “assolutamente autonome” e il 20% che risentano di un modesto condizionamento. 
All’ interno del nostro circolo abbiamo avuto diverse interpretazioni di questi ultimi dati e, forse, domande più esplicite avrebbero potuto fare più chiarezza sul pensiero dei lavoratori. 
Certo i lavoratori, come minimo, vorrebbero che le OO.SS. svolgessero il loro ruolo in assoluta autonomia dai tempi, dagli interessi, dalle logiche dei partiti. Una critica al sistema dei partiti? A quasi tutti i partiti? Alla natura interclassista di quasi tutti? 
Sta di fatto che se c’è un collegamento, un vincolo, tra OO.SS. e partiti, questo è sentito come sfavorevole alle OO.SS. condizionate o dipendenti addirittura, dai partiti. 
Se poi andiamo al rapporto democratico tra lavoratori e OO.SS. il 34% ritiene che queste ultime non tengano conto “per niente”  del parere dei lavoratori, il 55% che ne tengano conto “poco” e il 2% “molto”. Nell’83 alla domanda (proferita in una forma più raffinata) se il Sindacato “offriva spazi sufficienti per concorrere alla formazione delle decisioni” il 34% rispose di si. Anche se le domande sono poste diversamente è lecito affermare che in 15 anni si è avuta una caduta di consenso anche sul giudizio di “democraticità” del Sindacato. 
Sulle RSU la stragrande maggioranza (77.5% contro 18%) si è detta favorevole ad ampliare i poteri di cui dispongono oggi nella categoria, sconfessando la ipotesi di CISL, UIL e CISAL da sempre apertamente contrarie, e lo scarso impegno mostrato dalla CGIL. 
Su quali cose il Sindacato dovrebbe maggiormente impegnarsi? Chiamati a pronunciarsi direttamente sulle tre cose a loro giudizio più importanti, gli intervistati hanno risposto per il 44% “tutelare la sicurezza e la salute”, per il 41.7% “impegnarsi per ridurre l’ orario di lavoro”, e per il 38% ex-aequo “controllare e stimolare le politiche dell’azienda” e “migliorare l’organizzazione del lavoro”. La meno gettonata (10%): “migliorare ed aumentare gli incentivi”. 

L’orario di lavoro 
Le condizioni materiali di vita, gli interessi, la cultura, la coscienza, sono tali  per cui il 67,7% degli intervistati ritiene di non volere fare più straordinario di quel poco che fa, o, caso raro, se ne fa molto vorrebbe diminuirlo. Il 29% vorrebbe farne di più. 
A conferma di questo dato solo il 3,1% ha dichiarato che in caso di diminuzione dell’orario di lavoro impiegherebbe il lavoro liberato in nuovo lavoro. Il dato disaggregato per fasce di qualifiche mostra che il 40,5% degli operai, il 26,6% degli impiegati e il 9,5% dei quadri, vorrebbe fare (o continuare a fare) più straordinario. Anche tenendo conto del fatto che nel nostro campione la presenza operaia e sottostimata, i dati generali si modificano poco e mostrano che c’è una netta maggioranza che non mostra interesse ad un aumento dell’orario di fatto del lavoro. 
Cosa pensano invece di una possibile diminuzione dell’orario settimanale (che per i dipendenti ENEL è di 38 ore) a parità di salario? 
Il 56% pensa che favorirà l’occupazione, il 18% ritiene che comprometterà l’occupazione, il 26% “non sa”,. Disaggregato per qualifiche, il 45,7% degli operai, il 621,3% degli impiegati e il 40% dei quadri pensa che favorirà l’occupazione, il 23,3% degli operai, il 14,2% degli impiegati e il 34% dei quadri pensa che non la favorirà. 
  
Il tempo liberato dal lavoro. 
Come utilizzeresti principalmente il tempo libero se dovesse aumentare? 
Il 36% nelle attività familiari, il 18% nel volontariato e nell’associazionismo, il 12% negli hobbies. 
Solo l’1,2% ha risposto “nell’ozio” e il 3,1% “nel secondo lavoro”. 
Questi dati mostrano una grande maturità e socialità e quel 18% ci ha piacevolmente sorpreso. E’ una risposta a chi pensa che la diminuzione dell’orario di lavoro si ridurrà ad una abbuffata di secondo lavoro e di rincretinimento davanti alla TV. 
  
Le prime indicazioni per il nostro lavoro. 
Sicuramente le ragioni a favore della diminuzione dell’orario di lavoro hanno bisogno di arrivare con la discussione e la nostra iniziativa all’interno di vasti strati di lavoratori elettrici, anche se, tenuto conto dell’ostilità o del disinteresse delle OO.SS. e del martellamento dei mass-media possiamo affermare che si può essere moderatamente soddisfatti dell’entità del consenso oggi registrato. I margini per allargarlo ci sono tutti, a partire dal rifiuto dello straordinario o del secondo lavoro.

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L’INCHIESTA SUI LAVORI IN SANITA’ 
di Gianni Alasia e Domenico Martelli 

L’inchiesta che viene promossa con questo Questionario è rivolta al personale medico, infermieristico, di laboratorio e amministrativo. Essa verte sulla loro prestazione di lavoro ed è finalizzata ad accertare quale rispondenza c’è fra l’attività dei vari operatori sanitari e le esigenze dei cittadini e lavoratori utenti. 
Supporto fondamentale dell'inchiesta dovrà essere il Partito nelle sue organizzazioni ospedaliere, nei circoli territoriali di giurisdizione di strutture sanitarie, e negli Amministratori comunali  ai vari livelli (regionali, comunali, provinciali). 
L’iter operativo sarà: 

a) riunione dei Comitati politici di federazione allargati alle segreterie dei circoli, per il lancio della  inchiesta 
b) conferenza stampa regionale 
c) riunioni periferiche territoriali 
d) in coincidenza colla  inchiesta  nei singoli punti verranno allestiti "banchi" di prossimità dei singoli ospedali per colloqui  e distribuzione di materiale agli utenti. 

Verrà distribuita una lettera aperta di larga diffusione cosicchè l'inchiesta avrà due momenti paralleli, l'uno più specialistico e mirato, l'altro più di massa e informativo. 

Nelle pagine successive dell'edizione su carta pubblichiamo il questionario che il PRC ha distribuito tra gli utenti del servizio sanitario

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LE CONDIZIONI DI LAVORO ALLA WHIRLPOOL DI TRENTO
La società Whirlpool Italia S.r.l. viene definita nella terminologia burocratica, “esercente l’attività di produzione e commercio di impianti ed apparecchiature sul settore dei grandi elettrodomestici bianchi”. In pratica rappresenta il principale gruppo al mondo nella produzione e distribuzione di elettrodomestici bianchi, con una produzione di 920.000 pezzi l’anno. 
La Whirpool si insedia in Italia alla fine degli anni 80, rilevando dal mercato prevalentemente europeo l’allora colosso olandese Philips, che a sua volta prelevava il marchio Ignis, nato negli anni 40/50 come prodotto quasi esclusivamente italiano, che nei primi anni 70 occupava circa 15.000 addetti. 
Alla fine degli anni 80 la Whirlpool, un colosso americano con sede nel Michigan (Usa), per acquisire una leadership su scala globale, sigla una joint-venture con la Philips, costituendo così un gruppo leader mondiale nel settore degli elettrodomestici e, specificatamente, nel settore “freddo” per quanto riguarda l’Italia, con un mercato che si estenderà quasi esclusivamente nella cosiddetta zona  del marco. 
La potenza occupazionale della Whirlpool si esprime attraverso 11.000 dipendenti in Europa e 6000 in Italia, nelle varie sedi di Varese, Napoli e Siena, oltre allo stabilimento di Trento (Spini di Gardolo) che occupa quasi 1.000 dipendenti, nei vari reparti di stampaggio e verniciatura lamiere, di lavorazione delle materie plastiche e dell’espanso, di preparazione delle serpentine, serigrafia, cablaggio, premontaggio e montaggio, oltre all’accettazione e al carico. 
Dopo numerosi contatti con questa realtà produttiva particolare rappresentata dalla Whirlpool in un territorio come quello trentino da sempre caratterizzato da aziende di piccole  e medie dimensioni, è emersa la necessità di conoscere ed agire in una azienda in cui la trasformazione del tessuto economico-produttivo e i processi di ristrutturazione hanno inciso ed incidono maggiormente sulle condizioni di lavoro e di non-lavoro, aprendo nuovi e più alti livelli di contraddizione del sistema, per conoscere, agire, cambiare. 
I circa 1.000 lavoratori occupati alla W. di Spini di Gardolo provengono in particolare da zone caratterizzate da un’esigenza di emigrazione della forza lavoro (Val di Non, Val di Cembra, Valsugana) e in percentuale minore dal capoluogo. Negli ultimi anni si è verificato un aumento dell’impirego di giovani e studenti alla prima esperienza di lavoro, in qualità di “stagionali”, a cui vengono imposti ritmi di lavoro ancora più pesanti. I lavoratori più “adulti” in genere provengono da altre realtà industriali ed il loro inserimento viene “agevolato” da rapporti di parentela o conoscenza con altri dipendenti dell’azienda. Si registra anche una forte presenza della componente femminile che “lavora meglio e di più”, ma a cui non vengono risparmiate offese e maltrattamenti. 
Alla fine del ‘97 l’azienda aveva annunciato che avrebbe proceduto all’assunzione di 50 persone, ma in pratica si trattava di contratti a termine, che prevedevano lavoro al sabato, alla domenica o di notte con qualsiasi orario, secondo le esigenze produttive aziendali e nel rispetto della massima flessibilità. Ormai infatti i lavoratori vengono assunti con tutti i tipi di regime  orario, stabiliti senza la minima regolamentazione: notte/giorno, sabato/domenica, per un mese, per 2/4 mesi, oltre al massiccio ricorso al contratto di formazione, che implica un lavoro non qualificato con mansioni che non corrispondono all’inquadramento effettivo e con una ulteriore pressione psicologica rappresentata da una selezione molto dura che si basa su una specie di “pagella” di valutazione attribuita dall’azienda in base alla manualità, alla produttività, alla presenza sul luogo di lavoro, alla disponibilità e così via, oltre al giudizio del proprio reparto sul grado di disponibilità. La situazione occupazionale è quindi completamente in balia delle esigenze produttive. 
Il tutto per aumentare la produttività con espedienti come l’aumento delle fasature attraverso modifiche non concordate con i delegati di linea, ma stabilite univocamente dalla Commissione tempi e metodi, che si occupa di definire la tempistica delle varie lavorazioni e la relativa cadenza. Ai giovani neo assunti, spesso figli o parenti dei lavoratori più “diligenti”, vengono poi richieste subdolamente fasature maggiorate (aumento dei ritmi) che finiscono per penalizzare gli altri lavoratori anche dal punto di vista della sicurezza, causando un aumento indiscriminato dei ritmi di lavoro con maggiori rischi di infortuni senza alcun controllo o verifica da parte del sindacato. 
Non a caso la maggior parte degli infortuni più gravi sono a carico dei giovani, che non possono lavorare con la necessaria tranquillità, ma sono costretti a trascurare il necessario recupero in termini di ferie e riposi settimanali. Per di più, il lavoratore che non si dimostra disponibile ad effettuare gli straordinari spesso richiesti dall’azienda o ad aumentare il ritmo va incontro a minacce ed intimidazioni, oltre che a provvedimenti disciplinari come lettere di richiamo, multe e sospensioni, sanzioni che comunque vengono applicate in modo piuttosto arbitrario, creando così operai di serie A e operai di serie B. 
In azienda quindi il clima è teso e difficile, fra i colleghi e con i superiori, rendendo ancora più ardua la comunicazione e il passaggio di informazioni tra i lavoratori stessi. Anche gli scatti di anzianità e l’attribuzione di incentivi non avvengono in base all’effettivo merito del lavoratore, ma come concessione di favoritismi. 
In nome della flessibilità i carichi di lavoro diventano sempre più pesanti, i ritmi sempre più pressanti, fino ai tentativi operati dall’azienda di trasformare i diritti acquisiti (pausa mensa, cambi e agevolazioni per i trasporti) in privilegi e al ricatto dell’occupazione in cambio di una flessibilità ancora maggiore. In pratica bisogna quasi “guadagnarsi” le pause producendo un numero maggiore di pezzi, che compensino quelli non prodotti durante l’assenza dal posto di lavoro. 
La flessibilità colpisce duramente la vivibilità dei lavoratori, ed è la causa del ritmo stressante necessario per mantenere la produttività elevatissima (+ 5% nel ’96, + 6% nel ’97, con previsioni di incremento del 7,2% nel ’98). 
Secondo l’accordo integrativo del ’95, poi anche il salario è legato alla produttività aziendale, quindi al raggiungimento di obiettivi stabiliti all’inizio dell’anno, dal momento che il cosiddetto premio di risultato è legato ad indici produttivi variabili e viene commisurato alla produttività e alla qualità raggiunta dalla produzione, calcolata mediante il cosiddetto C.S.Q. con collaudi a campione. 
Tutto questo si traduce nella necessità di produrre alla catena di montaggio la stessa quantità di pezzi in un tempo minore, cosa che va a scapito delle condizioni di vita e di lavoro, con carichi maggiori e orari annui superiori alle 42 ore settimanali medie. 
Il clima, nei posti di lavoro, è caratterizzato da un senso di impotenza, di apatia crescente, dal momento che ai lavoratori della Whirlpool di Trento (ma è una situazione nazionale) viene negata ogni possibilità di ribellione o di libera organizzazione. 
Dopo una serie di famigerati accordi imposti dall’alto, e non sottoposti ai lavoratori, formalmente si è passati alla cosiddetta politica di “concertazione”, con la presenza in fabbrica di una struttura di rappresentanza sindacale, composta da persone scelte appositamente tra le meno preparate, “funzionabilissime” agli interessi del padronato, da cui è conseguito un veloce decadimento di cultura sindacale dentro la fabbrica ed il via libera a qualsiasi tipo di accordi capestro, anche giuridicamente illegali. 
Le poche assemblee generali servono solo per esporre proposte preconfezionate da azienda e sindacato, che non tengono conto, se non marginalmente, delle esigenze dei lavoratori. 
Si è così arrivati alla sottoscrizione nel ’97 di un accordo ferie che prevede il superamento delle 8 ore giornaliere e delle 40 settimanali, la cancellazione delle maggiorazioni per lavoro straordinario previste dal CCNL, l’annullamento della maggiorazione del 15% per lavoro notturno dalle 22 alle 22.30, la manomissione delle pause mensa epe bisogni fisiologici, con la possibilità per i lavoratori di scegliere liberamente soltanto sei giornate di ferie all’anno. 
Le recenti dichiarazioni del Presidente della Whirlpool Europe, non fanno che rendere ancora più difficili le prospettive future per i lavoratori Whirlpool. 
La produzione dei 300.000 frigoriferi per l’incasso sarà integralmente dirottata a Spini di Gardolo, che a sua volta cederà a Cassinetta una parte della propria attività attuale. Secondo le previsioni la produzione annua di Trento dovrebbe passare da un milione e centomila pezzi, saturando gli impianti. In provincia di Trento poi l'azienda trova terreno particolarmente favorevole potendo facilmente fare ricorso ai finanziamenti pubblici (nel 1997 la W. ha ottenuto dalla Provincia Autonoma di Trento un finanziamento di oltre 3 miliardi per un progetto di ammodernamento della durata di 5 anni e di oltre 18 miliardi per un progetto di ristrutturazione industriale sempre della durata di 5 anni) utilizzati per comprimere al massimo i costi. 
La Whirlpool aprirà inoltre entro un paio d’anni uno stabilimento nei paesi dell’Est, confermando la tendenza alla delocalizzazione della produzione in aree  dove il costo del lavoro è pari ad un sesto di quello del resto d’Europa. Sebbene poi le dimensioni dell’impianto di produzione dell’Est saranno calibrate per quel mercato, non è escluso che in futuro i suoi prodotti vengano esportati nel resto d’Europa. 
Ancora più preoccupanti le dichiarazioni dei dirigenti Whirlpool secondo cui gli investimenti dell’azienda non sono volti ad aumentare, ma a migliorare la capacità produttiva degli impianti attuali, il cui futuro è però condizionato dalla loro produttività. Ecco perché, se per l’immediato le prospettive per lo stabilimento di Trento sono favorevoli, nel medio periodo ci sono serie incognite da non sottovalutare, tenendo anche presente che attualmente la W. a livello europeo esprime l’esigenza di una riduzione occupazionale di 4.500 addetti. Anche in Italia si sta introducendo l’idea di concorrenza tra i singoli stabilimenti ed in particolare con la casa madre di Varese, un ricatto padronale per alzare fino al limite della resistenza i livelli di produttività individuali. 
In ogni caso le reazioni dei delegati CGIL alle dichiarazioni dei vertici della Whirlpool hanno provocato una rottura tra i lavoratori impegnati sindacalmente nei COBAS, i quali sono passati per protesta alla CISL. 
Il sindacato è diventato agli occhi dei lavoratori organo subalterno al volere aziendale, in cambio di inconsistenti contropartite sigla accordi assolutamente negativi per gli interessi dei lavoratori, di cui questi ultimi vengono a conoscenza soltanto a posteriori, con una assoluta mancanza di trasparenza e democrazia nei rapporti, che provoca scarsa tutela e informazione. 

di Guido Gasperotti e Giorgio Tiziano 
A cura del Gruppo Consiliare provinciale del PRC di Trento.

Sommario

NOTIZIARIO DELL'INCHIESTA

SAVONA E IMPERIA (20/02/1998)

Presenti venticinque compagne/i, tra gli altri: Paolo Cacciari del gruppo di lavoro nazionale, Sergio Casanova della segreteria del Comitato regionale, Marco Vigna responsabile dei problemi del lavoro della Fed. di Savona, Patrizia Peotta segreteria provinciale di Imperia, Luigi Gatti segretario del circolo di Ceriale che ha ospitato l’incontro.Marco Vigna ha esposto una proposta di piano di lavoro mirante a “dare la possibilità al partito di avvicinarsi e di entrare in tutte quelle realtà, e sono tante, nei confronti delle quali il partito non ha saputo radicarsi”. Molti interventi hanno permesso di mettere a fuoco le principali caratteristiche di un mercato del mercato del lavoro molto differenziato e complesso. In particolare Silvio Gaggeri ha illustrato i processi di espulsione di forza lavoro dipendente e di decentramento attraverso prestazioni professionali autonome nel settore della grande distribuzione commerciale. Ruggero Cattaneo ha posto l’attenzione sulle condizioni di vita delle famiglie nei quartieri popolari. Carlo Sapetti e altri hanno chiesto di indagare anche le nuove condizioni di lavoro che si sono venute determinando negli Enti locali e nella sanità. Lorenzo Viale ha richiamato l’attenzione sul nuovo modo permanente di fare politica che richiede il metodo dell’inchiesta. In termini operativi è stato deciso di iniziare il lavoro attivando “a tappeto” tutti i circoli (trovando agganci con la campagna sulle 35 ore), ma garantendo l’aiuto delle Federazioni almeno su due direzioni; 
a) le industrie della Valbormida la Imation (ex 3M), le vetrerie (del gruppo Saint Goban e Rocco Bormioli), istituendo un coordinamento dei lavoratori e lavoratrici comuniste tra tutti i circoli; 
b) il settore del turismo nella riviera di Ponente tentando di mappare e catalogare le varie forme di precariato a seconda del tipo di professioni, dimensioni, settori esistenti. 

UDINE (di Paolo Fontanelli)

Dopo l'incontro con Cacciari e Atalmi del 7 gennaio abbiamo messo a punto il questionario con la Federazione di Treviso ed abbiamo previsto i seguenti interventi: 

1. settore della sedia, aziende media e piccole del manzanese, distretto leader nella produzione ed esportazione di sedie (60% della produzione nazionale, 800 aziende). Abbiamo l'obbiettivo di  100 questionari su questa particolare realtà produttiva caratterizzata da forte flessibilità e particolari condizioni di sfruttamento. 

2. industrie metalmeccaniche: il settore e' il più sindacalizzato, anche con aziende tecnologicamente all'avanguardia sparse su tutto il territorio provinciale. 

3. industria chimica: la presenza in zona di una grossa industria della Cafaro ci permetterà una inchiesta anche in questo settore, realisticamente sul 10% dei dipendenti. 

4. industria tessile: presente nella pedemontana con realtà significative, è a prevalente manodopera femminile e dovrebbe dare indicazione specifiche interessanti. 

5. industria del legno: due cantieri in zona montana potrebbero permettere una indagine locale per ora allo studio.

RESOCONTO INCONTRI CIRCOLI PRC-POSTALI (a cura di Roberta Reali e Paolo Cacciari)

Resoconto di due riunioni dei Circoli PRC organizzate dal Dipartimento Comunicazione di Massa a Roma (Centro – sud) il 7 aprile e a Milano (Nord) il 20 aprile.
Hanno partecipato complessivamente 18 compagne e compagni in rappresentanza dei 7 Circoli delle Poste attualmente costituiti a: Roma, Bari, Milano, Napoli, La Spezia, Torino, Perugia.

Le Poste sono state poco “aziendalizzate” nella loro forma giuridica (erano un Ente pubblico economico, ora sono una S.p.A.) ma – grazie all’azione di Rifondazione Comunista – lo Stato continua ad essere il “proprietario”. Alla trasformazione societaria corrisponde un processo di ristrutturazione dei modelli organizzativi produttivi e della stessa struttura contrattuale dei rapporti di lavoro. I cambiamenti più macroscopici  sono: 50.000 posti di lavoro tagliati (sono 174.000 i dipendenti rimasti); spinta al ricorso agli appalti esterni (con blocco del turn over), tendenza allo scorporo in segmenti produttivi (quasi a prefigurare una futura collocazione sul mercato delle parti più appetibili e innovative, quali: Banco Posta e Posta Elettronica), accorpamento dei livelli professionali (ad esempio: nella nuova “area operativa” sono confluiti 52 profili professionali) e flessibilizzazione delle mansioni (con ampio ricorso a retribuzioni ed orari “ad personam”), crollo della qualità dei servizi resi all’utenza.

In questo quadro si dovrebbe andare al rinnovo delle rappresentanze sindacali interne, Rsu e delegati alla sicurezza.

L’inchiesta di Rifondazione cade, quindi, in un momento importantissimo. Essa potrebbe servire a meglio capire  qual’è la valutazione che lavoratrici e lavoratori danno alla fase che vivono le Poste italiane e la loro disponibilità a ricostruire forme di rappresentanza sindacali più solide e combattive.
L’intesa sul lavoro alle Poste deve tenere conto delle condizioni molto diverse esistenti nei vari servizi. Per semplicità si individua una articolazione almeno in tre grandi aree: Centri Postali Operativi (centri di smistamento); rete degli sportelli (servizio al pubblico, filiali e piccole agenzie); recapiti (portalettere).

Il Circolo di Milano ha elaborato un questionario (3.000 copie distribuite, 250 restituite) i cui risultati sono in corso di elaborazione. Anche la CGIL di Modena ha fatto un’inchiesta cui sono già noti i risultati. Sulla base di queste esperienze è possibile ora avviare una inchiesta a scala nazionale. Essa dovrebbe basarsi su un primo questionario il più agile e di massa possibile, ma anche su interviste aperte a lavoratori e lavoratrici collocati in situazioni emblematiche oppure che abbiano avuto una esperienza lavorativa particolarmente ampia, oppure ancora giovani appena assunti. Il progetto dei setti circoli e del Dipartimento è di approfittare dell’Inchiesta per editare un bollettino (una “news – letter” anche solo elettronica) per mettere in rete le esperienze e i risultati dei singoli Circoli.

In particolare la nostra Inchiesta dovrebbe aumentare la conoscenza su cosa pensano le lavoratrici e i lavoratori in merito al cambio societario (prime valutazioni e aspettative, timori, speranze …) in termini di:

  • stabilità o meno del posto di lavoro;
  • maggiore o minore possibilità di riconoscimento professionale e di avanzamento di carriera;
  • aumento o meno di carichi di lavoro;
  • aumento della pressione disciplinare, ovvero aumento dell’affidamento alle capacità di auto – organizzazione e auto – responsabilizzazione dei singoli dipendenti;
  • miglioramento dei servizi resi e quindi possibilità di miglioramento dei rapporti con il pubblico-utente o, non invece, rischio di smantellamento del servizio pubblico;
  • miglioramento o meno delle capacità direzionali e organizzative dei gradi alti delle gerarchie.
In generale bisognerebbe riuscire a capire come cambia (e per quali ragioni) nella coscienza di ogni singolo lavoratore e lavoratrice il grado di soddisfazione (appagamento) del proprio lavoro. Ciò si ottiene se si riescono a mettere in relazione tre ordini di questioni: le concrete condizioni in cui si svolge il proprio lavoro (orario, salario, carichi, sicurezza, ecc.), le prospettive dell’azienda (piani di investimento, introduzione di nuove tecnologie, piani di aggiornamento professionali, ecc.), il riconoscimento sociale del proprio “status” di “postale” (il ruolo che il proprio lavoro ti consente di svolgere in famiglia, l’utilità sociale del proprio lavoro, la qualità della vita d’ufficio, il tipo di micro – conflittualità fra colleghi e la sopportabilità dei rapporti autoritari gerarchici, ecc.).
Infine bisogna capire se la lavoratrice e il lavoratori si sono sentiti rappresentanti (e come) durante la ultima difficile fase della “aziendalizzazione” delle Poste e se “se la sentono” (e a che condizioni) di dare la loro disponibilità per rimettere in piedi un sindacato di base, più forte e autonomo.

Considerando che l’Inchiesta può rappresentare uno strumento di primo contatto del nostro partito con lavoratori in sedi anche molto periferiche è necessario che assuma immediatamente il carattere chiaro dell’intervento politico d’attualità. La prima cosa che va chiesta è quindi cosa ne pensano i lavoratori della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario.

RESOCONTO DELLE RIUNIONI DEL FORUM DELLE DONNE SULL'INCHIESTA SUL LAVORO FEMMINILE

Diamo conto delle problematiche emerse in due incontri che si sono svolti sui temi dell'inchiesta sul lavoro  femminile: il primo incontro, a carattere nazionale, si è svolto a Roma l'11 gennaio '98, il secondo, sempre a Roma (il 4 febbraio  '98), riguardava invece il progetto di costruzione dell'inchiesta al livello cittadino.
In entrambi gli incontri è emersa una grande affinità nelle problematiche sul lavoro femminile, di cui riassumiamo i temi:
  • le trasformazioni del lavoro non riguardano soltanto il lavoro post-fordista  ma anche i grandi aggregati tradizionali, e nell'indagare tali trasformazioni vanno indagate anche le esistenze e come le trasformazioni abbiano inciso sulle vite stesse, sulla percezione del lavoro, dei diritti, del proprio futuro, del ruolo sociale e politico delle lavoratrici e dei lavoratori;
  • la tematica  del tempo e dei tempi: la divisione dei ruoli, l'egemonia del mercato, il lavoro di produzione finalizzato al consumo e la divisione rigida tra produzione e riproduzione, privano di valore il tempo liberato;
  • la contraddizione, tutta da indagare, tra estrema flessibilizzazione e disponibilità che il mercato richiede e la rigidità dei compiti della riproduzione sociale all'interno della sfera domestica;
  • indagare, per le donne,in particolare, e per gli uomini, quanto si sia esteso lo spirito di adattamento alla logica dell'impresa, e quanto questo faccia parte della cosiddetta femminilizzazione del lavoro;
  • gli effetti della disoccupazione sulla costruzione della subalternità nel lavoro. Il timore della disoccupazione condiziona negativamente la soggettività individuale rispetto alle condizioni materiali di lavoro e alla capacità di individuare i propri diritti. E' da indagare quanto ciò influisca sulla soggettività femminile.
L'inchiesta su questi temi richiede la costruzione di una competenza femminile sulle questioni del lavoro  e quindi la necessità di costruire momenti  di formazione e generalizzazione delle conoscenze, in ambito locale e nazionale,  attraverso incontri, dibattiti, seminari, in un percorso comune in cui confrontare  progetti, modalità e  realizzazione dell' inchiesta sul lavoro femminile, da intrecciare con i dati e gli esiti dell'inchiesta portata avanti dal partito.
In tal senso pensiamo di organizzare, prima dell’estate, un seminario nazionale del Forum per un approccio di genere al lavoro, che oltre a fare il punto sull'inchiesta, affronti i nodi principali sullo stato delle trasformazioni del lavoro, attraverso l'indagine dei settori di maggiore presenza femminile, sulla flessibilità degli orari e sui tempi, sulle conseguenze dell'applicazione della legge Bassanini nella pubblica amministrazione.
E' necessario inoltre costituire una banca dati, che stiamo realizzando presso la Direzione Nazionale, nella sede del Forum delle donne, in cui raccogliere studi, statistiche, inchieste sul lavoro femminile realizzate da istituzioni, sindacati, forze politiche ecc.: materiali da mettere a confronto con i dati, le elaborazioni e i percorsi scelti nella nostra inchiesta, per contribuire alla costruzione della competenza di genere sul lavoro.

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Bollettino di inchiesta


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