Commento di

Ettore Davoli confederazione Cobas Inpdap

 

Il giudizio sull’analisi dei risultati dell’indagine - questionario svolta dalla federazione Romana del P.R.C., non può che riconoscerne ed evidenziarne il carattere di obiettività e scientificità.

Prova ne è l’estrema onesta e chiarezza nel dichiarare i termini numerici relativi alla distribuzione, alla dislocazione ed al rientro effettivo dei questionari, così come si sono realizzati durante l’indagine.

Così com’è apprezzabile il risultato analitico raggiunto, che evidenzia effettivamente quali sono le problematiche cardine su cui ruota attualmente il mondo del pubblico impiego e più in generale quello dell’intero mondo del lavoro dipendente.

 

L’indagine, nonostante risalga a "solo" un anno e mezzo fa e nonostante sia riuscita ad inquadrare i problemi che sono all’ordine del giorno sull’argomento "Pubblico impiego", risente però della circostanza che determinati aspetti, che pure da essa emergono, hanno subito negli ultimi mesi una forte accelerazione ed evoluzione.

Pensiamo sia opportuno quindi far risaltare questi aspetti, rendendo più esplicita quella che è la situazione attuale.

 

Sindacalizzazione e sindacato.

 

La crisi del sindacato confederale e del suo modello di rappresentanza, nel Pubblico Impiego ma anche più in generale, è ben evidente dai risultati di questa indagine.

Essa riporta un dato del 62 % di sindacalizzati, mentre i dati ufficiali riferiti allo stesso bacino di indagine (costituito principalmente da dipendenti degli enti pubblici) si attestano addirittura sul 75%.

Va sottolineato che questo dato è un connotato particolare e che esso è in stretta relazione proprio al tipo di amministrazioni in cui la consultazione è stata svolta.

Negli enti suddetti (INPS, INPDAP, INAIL), infatti, la percentuale di sindacalizzati è ampiamente superiore alla media esistente nelle altre amministrazioni.

 

Le ragioni di questa "particolarità" vanno ricercate nel quadro di potere che da svariati decenni si si è instaurato in questi enti, che vede le organizzazioni sindacali (anche quelle storicamente meno radicate) partecipare alla gestione degli istituti con forme di cogestione che molte volte travalicano anche la concertazione più spinta.

 

Le OO.SS., infatti, fanno la parte del leone nella spartizione delle responsabilità dirigenziali dei diversi livelli, non solo, ma anche nell’esercizio dei rapporti tra amministrazione e personale dipendente, in cui esse condizionano fortemente e lottizzano i trasferimenti di sede, le assegnazioni ai diversi uffici ed aree di attività, il riconoscimento delle responsabilità progettuali al personale non dirigente, la distribuzione degli incentivi su base meritocratica, tutto quanto, insomma, concerna le relazioni funzionali ed economiche tra istituti e dipendenti.

Questa cogestione, radicata da anni, che diventa vera e propria condivisione del potere all’interno delle amministrazioni, ha creato una frammistione di interessi e di collegamenti personali che rende ormai praticamente impossibile la distinzione dei ruoli che sarebbe necessaria per un corretto rapporto sindacale tra controparti.

Prova ne è, dal punto di vista della tutela degli interessi di categoria, l’indirizzo costantemente seguito da queste stesse organizzazioni nelle loro piattaforme "rivendicative" e nei contratti nazionali e integrativi, firmati con il governo e gli enti stessi.

Contratti tutti disegnati sulle "compatibilità finanziarie" e sulle congiunture economiche, che hanno determinato in questi anni perdite secche e molto ingenti di potere d’acquisto dei salari.

L’introduzione sempre più massiccia, per iniziativa concertata tra organizzazioni sindacali e amministrazioni, di incentivi selvaggiamente differenziati in base a indici di produttività che il più delle volte sono risultati viziati da carichi di lavoro diseguali e falsati dalla endemiche carenze formative, tecnologiche e procedurali;

La progettazione e la realizzazione, anch’essa per tanti anni condivisa tra le "controparti", della precarizzazione dei contratti di lavoro, con l’utilizzo sempre più massiccio, ad esempio, di lavoro interinale (tra l’altro con costi che sono risultati antieconomici) e delle privatizzazioni, che sostituiscono il lavoratore pubblico con i contratti di appalto alle imprese sul mercato, senza peraltro che in nessun modo si applichi un controllo sulle ulteriori forme di lavoro precario da queste ultime utilizzate.

Il sostegno a tutte le trasformazioni volte a dirottare le somme accantonate per liquidazioni e per attività socio-assistenziali verso forme di assicurazione e previdenza obbligatorie ed "integrative", ovviamente gestite da figure private; settore commerciale nel quale, guarda caso, le organizzazioni sindacali, hanno approntato i loro apparati e sono presenti da tempo.

Il sostanziale avallo alle cosiddette "cartolarizzazioni", che sono ulteriori risorse travasate da investimenti immobiliari e mobiliari di contributi previdenziali ed assistenziali versati dai lavoratori.

Tutti fenomeni cresciuti e coltivati sotto l’egida delle confederazioni "maggiormente rappresentative".

 

Essenzialmente, quindi, queste organizzazioni si sono trasformate da forme strutturata della rappresentanza degli interessi categoriali, che doveva esplicarsi nelle sedi di contrattazione deputate, anche attraverso forme di pressione e di lotta, in gruppi di potere, tra l’altro fortemente gerarchizzati, la cui presenza pervade e condiziona pesantemente le amministrazioni e i dipendenti.

Questa ingombrante presenza, nel caso degli enti pubblici, ha assunto anche forma ufficiale negli organigrammi degli istituti, attraverso la costituzione di organi di controllo ed indirizzo interni agli enti (consigli di indirizzo e vigilanza a nomina sindacale), che dovrebbero operare a tutela degli interessi degli iscritti, ma che invece, a volte in aperta contraddizione anche con le organizzazioni di cui sono espressione, elaborano le loro direttive su posizioni di pieno allineamento con gli interessi delle amministrazioni-datori di lavoro e del governo.

 

I dipendenti, come conseguenza di questo quadro di potere interno agli enti sono, in larga misura, costretti ad una adesione di comodo a questi sindacati, utile, se non addirittura necessaria, per la "sopravvivenza" all’interno di queste amministrazioni. E da qui nasce l’altissima incidenza della sindacalizzazione. E da questo nasce, parallelamente, anche il senso di profonda sfiducia, altro aspetto evidenziato dai risultati del questionario, nei riguardi di queste organizzazioni sindacali.

 

Sfiducia che però, per le stesse motivazioni opportunistiche che spingono il lavoratore all’iscrizione, non sfocia mai in aperta ribellione verso di esse, non si trasforma, se non marginalmente e in occasioni limitate nel tempo, nella ricerca di un’alternativa.

 

È l’individualismo, incoraggiato strumentalmente proprio da quelle strutture sindacali che se ne avvantaggiano, che impedisce ai lavoratori pubblici di superare i limiti imposti dall’attuale quadro di potere dominante negli enti e sul quale occorre intervenire rapidamente per non vedere svanire del tutto le residue possibilità di tutela generale che ancora restano.

 

Una nuovo modello di rappresentanza politica e sindacale.

 

Questa condizione di sostanziale stallo, che vede i lavoratori ingabbiati in un sistema che non concede loro spazi reali di partecipazione di democrazia e di tutela dei propri diritti, può essere rotta solo dalla chiusura di una fase, che ha visto come protagonisti delle vicende sindacali le forze sin qui descritte, che ormai sono del tutto irrigidite ed avviluppate nei loro giochi di potere e di scambio.

 

Si deve aprire una fase nuova, che scaturisca dal pieno apprezzamento della necessità di radicare ed ampliare l’opposizione sociale, politica e sindacale, al governo della destra golpista, non più sulla base di soggetti ed entità separate e "specializzate" – da una parte il sindacato – dall’altra il o i partiti – abbandonando l’ottica settoriale che non ha più una ragion d’essere di fronte agli attacchi quotidiani e su vasta scala che la compagine finanziaria e politica al governo sta conducendo.

 

Una opposizione che riparta dalle questioni generali, prima fra tutte la tutela dei diritti del lavoro, Contro chi, come destra para – fascista, sta tentando di attuare una restaurazione istituzionale e sociale senza precedenti, con il proposito di distruggere in pochi mesi di governo le conquiste di partecipazione democratica, di libertà di espressione e di tutela dei diritti sin qui acquisite.

 

Ma anche contro chi, come sinistra riformista e fondamentalmente filo–capitalista, pur nella diversità dei metodi e delle posizioni, nella sostanza si muove nell’alveo dell’attuale sistema e si adopera per il suo mantenimento, ostacolando costantemente, senza aprirsi al confronto con essi, movimenti di opposizione sociale antiliberista e anticapitalista e che fa appello all’unità solo in occasione delle scadenze elettorali, naturalmente senza rinunciare ad una virgola delle formulazioni economiche e sociali antipopolari assunte in questi anni.

È cosa evidente e notoria, d’altronde, che queste stesse forze politiche di centro – sinistra riformista sono le stesse che hanno alimentato e foraggiato le strutture sindacali di cui abbiamo parlato precedentemente e di cui hanno condiviso, sul terreno più strettamente politico, la stessa "pratica di governo" e di costruzione del consenso.

 

Il centro sinistra chiede un fronte unico contro questa destra golpista e revanscista.

Ma è possibile, da parte dei movimenti antiliberisti e anticapitalisti, costruire questo fronte unitario, nel momento in cui questa stessa sinistra è quella che ha difeso (e non rinnega neppure per il futuro), sul piano economico e sociale, processi come le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro, la rinuncia alla salvaguardia del potere d’acquisto dei salari, le ristrutturazioni industriali a scapito dell’occupazione ecc., per non parlare delle posizioni assunte in campo internazionale, dalla partecipazione a fianco della NATO alle varie guerre "umanitarie", fino alle ambiguità espresse anche in occasione della guerra all’ IRAQ (non con gli USA, ma solo con l’ONU)?

 

Non possono essere questi gli interlocutori dell’opposizione sociale.

 

Gli interlocutori sono le masse e la moltitudine dei lavoratori precari, dei lavoratori pubblici che vedono in pericolo il loro posto di lavoro per le privatizzazioni, dei disoccupati e dei cassa integrati vittime del capitalismo assistenzialista (vedi FIAT) e delle speculazioni finanziarie delle banche, degli studenti che vedono nel loro futuro una vita di lavoro instabile e discontinuo.

Sono i molteplici soggetti che questo tipo di sistema economico genera, che però già di per sè stessi costituiscono gli anticorpi allo stesso sistema, per loro aspirazione ideologica, culturale, morale, umana ed anche religiosa, che si pongono in diretta antitesi ad esso e a chi lo difende traendone profitto.

 

Questa massa può costituire un soggetto di azione collettiva e democratica che non ha precedenti.

 

Lo dimostrano le recenti mobilitazioni per la pace che hanno visto manifestare centinaia di migliaia, anzi milioni di persone con un obiettivo comune, coscienti che le scelte scellerate di chi li governa non sono ineluttabili e possono essere almeno condizionate (chi avrebbe fermato il governo di destra sulla strada della piena partecipazione al conflitto senza le quotidiane e massiccie manifestazioni di piazza di quei giorni? Non certo la debole opposizione frapposta dal centro – sinistra in parlamento – che è stata pronta a dare il proprio assenso – con ridicoli "distinguo" - non appena gli si è presentata l’occasione con l’invio di unità militari italiane in Afganistan).

 

 

 

Queste mobilitazioni hanno dimostrato anche qual’è la profondità del distacco tra le posizioni espresse dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica (non solo sulla pace) e le scelte attuate dagli organi di rappresentanza parlamentare ed di governo istituzionale e che fa il paio con il distacco che esiste, nel mondo del lavoro, tra rappresentanti sindacali e lavoratori, come abbiamo visto.

 

A questa "moltitudine" in movimento va offerta un’alternativa, un modello di rappresentanza in cui i singoli non diventano protagonisti per difendere esclusivamente i propri interessi individualistici, ma si sentano partecipi delle scelte che li riguardano in quanto appartenenti ad una collettività con interessi comuni.

 

Un modello di rappresentanza diretta dei lavoratori, in cui l’obsoleto modello categoriale, superato dalla complessità e diversificazione delle componenti lavorative che proprio il sistema della precarizzazione e della privatizzazione ha creato, si trasformi per dare la piena titolarità della rappresentanza agli organi eletti direttamente nei posti di lavoro, senza intermediari autonominatisi o incaricati da strutture burocratiche separate dai lavoratori.

 

Un modello di rappresentanza che, come è avvenuto nel fenomeno del "movimento dei movimenti" riesca a sintetizzare le diversità distillando da esse le posizioni e gli interessi comuni da far prevalere e sostenere collettivamente.

 

Un modello, perciò, che divenga non solo metodo di rappresentanza sindacale, ma anche politica, che ribalti il sistema della delega "in bianco", trasformandolo in sistema di partecipazione democratica più diretta e meno mediata possibile, senza costruire strutture burocratiche che sono destinate col tempo inevitabilmente a sclerotizzarsi.

 

Un progetto di tale significato non è da ritenere illusorio nè tantomeno utopico: recentemente si sono avuti esempi, proprio dal movimento anti - capitalistico, anti - liberista e contro l’attuale globalizzazione, che hanno dimostrato, dal Forum sociale mondiale di Porto Alegre, a quello europeo di Firenze, la validità di un percorso che abbia per obiettivo, nel pieno rispetto e riconoscimento delle diversità dei movimenti in atto, la valorizzazione dei contenuti e scopi comuni, la ricerca di una sintesi e di una iniziativa complessivi, l’impegno di tutti sui traguardi decisi di comune accordo; percorso che ha portato ai risultati di mobilitazione planetaria espressisi di recente e sul quale tutti i movimenti che si propongono la trasformazione ed il miglioramento della società dovranno necessariamente continuare a confrontarsi nei prossimi anni.