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di Fausto Bertinotti segretario nazionale PRC

 

L’inchiesta è un elemento fondativo di una nuova politica. Attraverso di essa si penetra dentro le contraddizioni delle condizioni materiali di lavoro e di vita, si analizzano le esigenze che vengono espresse, emerge in filigrana la cultura politica, si verifica la validità delle proprie proposte.

Anche dal lavoro egregio che viene presentato dai compagni del Dipartimento Lavoro della federazione di Roma, emergono alcuni dati veramente interessanti.

Possiamo bene dire che l’ubriacatura neoliberista è veramente finita. Emerge ormai con nettezza una critica diffusa, di massa, dei guasti prodotti dalle politiche di liberalizzazione e privatizzazione. Non solo queste politiche hanno determinato maggiori ingiustizie e disuguaglianze ma hanno fallito anche sul terreno, per così dire, classico dell’economia . Avevano detto che togliendo vincoli e garanzie, si sarebbe assicurato, alla fine, un futuro senza crisi e che le magnifiche sorti dello sviluppo si sarebbero affermate grazie alla eliminazione dei "lacci e laccioli" che ancora ostacolavano la libertà dell’impresa.

Ormai, i dati di questo fallimento sono davanti a tutti: una regressione complessiva della società, addirittura in termini di civiltà e, contemporaneamente, l’avvitarsi di una crisi grave, che ci ha portato dentro la recessione economica.

Siamo di fronte a un processo reale di impoverimento di massa che delinea una vera e propria emergenza nazionale. Un vero scandalo che, finalmente, comincia a fare notizia anche sui giornali.

Si sommano due fattori in un mix devastante per i redditi da lavoro e da pensione: le conseguenze perverse della cosiddetta politica della concertazione (la truffa dell’inflazione programmata) e la dinamica dell’aumento dei prezzi, squadernata, in particolare, dopo l’introduzione dell’euro. In una battuta: abbiamo salari italiani e prezzi europei.

Mettere a confronto la dinamica dell’aumento delle retribuzioni reali in Italia e nei principali Paesi industrializzati è illuminante: fatte uguali a 100 le retribuzioni nel 1997, nel 2002, l’Italia è l’unico Paese che ha un saldo negativo (nel 2002 siamo a quota 97 mentre l’area dell’Euro si attesta, come media, intorno a 105). Siamo, in Italia, dentro un processo di progressiva diminuzione dell’incidenza delle retribuzioni sul complesso della ricchezza prodotta a tutto vantaggio del profitto e della rendita. Negli ultimi 20 anni, la quota del monte salari sul PIL è diminuita di quasi il 10% e negli ultimi 10 anni, mentre la produttività è cresciuta mediamente del 2%all’anno e l’inflazione di una media di circa il 4%, le retribuzioni nette sono diminuite di circa il 5%.

Già da soli questi dati dimostrano le conseguenze negative della stagione della concertazione e non sorprende la richiesta forte che emerge, anche dai dati dell’inchiesta, di un modifica sostanziale nella politica sindacale. Modifica che va intesa, non solo nella politica generale, ma anche nel concreto delle politiche contrattuali e nel rapporto democratico dentro i posti di lavoro. E’ significativo, il drastico giudizio che emerge dall’inchiesta sulle esternalizzazioni e il nesso tra queste scelte, il vulnus che viene inferto al carattere del servizio pubblico e la mortificazione delle professionalità interne all’amministrazione, l’attacco ai diritti del lavoro.

Si avverte fortissima la precarietà prodotta dalle politiche neoliberiste. Una precarietà che viene introdotta nel mercato del lavoro, con l’estensione delle forme più estreme della flessibilità (in pratica, nuove forme di caporalato), e giunge fin dentro le condizioni materiali di esistenza: dai servizi sociali, all’assistenza, alla previdenza.

La precarietà e l’insicurezza sono la cifra che informa complessivamente i tempi di lavoro e di vita e penetra fin dentro le relazioni sociali e personali. E’ un vero e proprio salto qualitativo all’indietro, verso il passato. E’ la prima volta, dal dopoguerra, che i giovani non hanno la concreta speranza di poter stare meglio dei propri genitori, anzi al contrario, sono i vecchi che debbono occuparsi dei giovani per poter loro assicurare una possibilità di inserimento lavorativo e sociale.

La cosa significativa è che, finalmente, emerge una critica di massa di questi processi, una critica che tende a farsi coscienza critica e si dispone a farsi massa critica .

Anche qui, certamente, ha lavorato nel profondo il movimento contro la globalizzazione neoliberista, che ha modificato la cultura prevalente e la connessione tra questo ed il riaccendersi del conflitto sociale di classe. Un nuovo mondo è possibile ha parlato a tanti, anche a chi non è stato direttamente protagonista della stagione del movimento ma in quello si è riconosciuto.

Il connettersi di questi due elementi, ci parla della possibilità che all’esplodere della crisi, non subentri la rassegnazione ma, al contrario, emerga una reazione che ha in sé, almeno "in nuce", la forza di proporsi come una alternativa.

Anche sull’articolo 18, l’opinione dei lavoratori è netta e dalla ricerca ciò emerge chiaramente.

Malgrado questo, il referendum del 15 e 16 giugno non è riuscito a sfondare il muro di silenzio che, in maniera certamente non casuale, è stato imposto dal sistema dell’informazione e il boicottaggio del 90% delle forze politiche rappresentate in Parlamento e dal 100% di quelle padronali.

Non siamo, cioè, riusciti a far cogliere pienamente il valore generale del referendum come occasione per mettere in discussione la precarietà imposta dalle politiche neoliberiste.

Il punto critico riguarda proprio la capacità di saper tradurre in consenso attivo e partecipato il disagio provocato dalle politico neoliberiste e la critica diffusa che queste producono.

Non abbiamo vinto, innanzitutto, per una mancanza di egemonia politica e culturale. Non siamo cioè riusciti a "sfondare" in un’opinione pubblica più ampia come invece era riuscito a fare il movimento sulla guerra. In altre parole non siamo andati oltre l’insediamento sociale di base che non ha attratto forze che pure erano "interessabili", settori sociali aggregabili in una battaglia per i diritti.

Ma, il risultato raggiunto con il referendum, di oltre 10 milioni di donne e uomini che hanno disobbedito alla congiura del silenzio e all’invito al boicottaggio delle urne, è comunque notevolissimo e tale da poter rappresentare una massa critica di cui tutti sono chiamati a tenere conto.

Oltre 10 milioni di SI che, anche perché si sono espressi in condizioni difficilissime, rappresentano un investimento politico straordinario.

Questa massa critica è la forza principale da mettere in campo per la ripresa del conflitto sociale che si preannuncia ancora più acuto.

E’ importantissimo , specialmente tra i lavoratori del settore pubblico, la netta opposizione all’abolizione della pensione di anzianità, alla privatizzazione della previdenza, allo scippo del TFR per pagarsi i fondi previdenziali integrativi.

Un vento nuovo spira, non solo in Italia ma in Europa. Contro la Mastricht delle pensioni, c’è la possibilità di sviluppare un grande movimento europeo. Le immense manifestazioni francesi possono essere il preludio a questo movimento.

La disponibilità che i lavoratori del pubblico impiego dimostrano rappresenta una grande opportunità. Dal mondo del lavoro può veramente ripartire un’offensiva sociale che investa tutto il Paese e si congiunga con i movimenti di massa che hanno percorso le strade e le piazze delle città in questi mesi.