Inchiesta alla Merloni Elettrodomestici di Albacina

a cura di Luca Sebastiani (Giovani Comunisti Ancona e Macerata)

 

La Merloni rappresenta senz’altro una realtà contraddittoria rispetto al "modello marchigiano": se da un lato le grandi dimensioni delle aziende si allontanano dal paradigma della piccola-media impresa, dall’altro la stretta connessione con il territorio rappresenta un forte elemento di continuità. Il modello Merloni a partire dagli anni Sessanta ha rappresentato una vera e propria way of life per la zona del fabrianese: si trattava di una realtà economica strettamente interdipendente con la comunità, la sua "visione del mondo", le sue aspirazioni. Il consensus veniva creato esternamente alle mura dell’azienda -tramite attività "sociali" di vario tipo- e internamente, in un contesto di bassa conflittualità sindacale e di paternalismo benevolo. Questo meccanismo, prescindendo da un giudizio di merito, ha senz’altro funzionato sotto molti aspetti, in primo luogo perché incontrava effettivamente le esigenze di una classe operaia metalmezzadra, proveniente da famiglie di agricoltori, che considerava il salario di fabbrica un’integrazione al reddito agricolo familiare e dava, conseguentemente, molta più importanza al proprio status sociale che agli aspetti monetari dell’occupazione. Una sorta di patto sociale che, in cambio di un livello conflittuale decisamente basso, coniugava occupazione e consenso.

Questa situazione è stata profondamente modificata negli ultimi anni, a partire dalla composizione della forza-lavoro, che ha visto una crescita incredibile del livello di scolarizzazione nonchè l’afflusso di migranti. Nello stesso tempo la globalizzazione neoliberista ha profondamente modificato -per non dire scardinato- le basi del patto sociale, non potendo più garantire gli stessi livelli occupazionali, nella necessità di raggiungere la massima "competitività" tramite il risparmio sul costo del lavoro, terziarizzazioni in loco e delocalizzazioni nell’est europeo. Insomma, l’esportazione della via adriatica al capitalismo, di cui si è esplicitamente parlato in un recente incontro dei vertici aziendali Merloni con il territorio presso il Teatro delle Muse di Ancona.

 

A partire da queste considerazioni ci siamo accinti a realizzare a fine 2002 l’inchiesta presso lo stabilimento EL.DO. di Albacina (vicino Fabriano), non certo con intenti scientifico-statistici, ma con l’idea di partire dall’indagine sulle soggettività di quel contesto produttivo per poi allargare la mira a tutto il fabrianese, mettendo la precarietà al centro dell’analisi.

L’intento era insomma quello di capire se il lavoratore, la lavoratrice locali continuino ad accontentarsi di una lunga permanenza sulle spalle dei genitori, rabboniti dalle strategie di fidelizzazione aziendale (come il regalo del cellulare per il centenario della fondazione) o al contrario rifiutino la precarietà come proprio futuro. Dai risultati dell’inchiesta è emerso che, se non di vero e proprio rifiuto si tratta, senz’altro emerge una situazione di forte scontento rispetto alla propria condizione, unitamente ad una percezione d’impotenza che però non rifiuta in toto l’ipotesi di potenziali percorsi conflittuali. Ed è qui che va collocata la nostra azione politica, la nostra capacità di accreditarci, tramite la sperimentazione delle forme di relazione, come soggetti credibili. Ma veniamo ai dati.

 

Abbiamo distribuito 350 moduli su circa 600 dipendenti: ne sono ritornati 72 (poco più del 20%). Sul tasso di restituzione ha probabilmente pesato la nostra inesperienza, poiché ci siamo ripresentati davanti ai cancelli per ritirare le risposte un solo pomeriggio e non abbiamo individuato altri luoghi di consegna al di fuori del contesto aziendale. Va rilevato d’altronde che chi ha restituito i moduli ha manifestato una forte necessità di esprimersi e comunicare la propria situazione: il 54% degli spazi vuoti per osservazioni lasciati alla fine del questionario è stato compilato. Anche all’occhio meno attento, a una prima lettura delle considerazioni emergono: richieste di aiuto, di salari più alti, di un lavoro più dignitoso, riduzione dell’oraio di lavoro possibilmente a parità di salario.

 

Per quanto riguarda le domande chiuse, erano divise in tre tipologie: quelle di indagine delle condizioni sociali degli intervistati, quelle inerenti la condizione lavorativa e quelle soggettive, relative a questioni politico-sindacali più generali.

 

1) Condizione sociale.

 

La prima riflessione è sulla separatezza degli ambiti sociale e politico: tralasciando particolari folcloristici comunque significativi (come quello di un intervistato di destra che percepisce sé stesso come membro della classe operaia), il solo fatto che l’87%, prescindendo dalle idee politiche, sia a favore del ripristino della scala mobile, la dice lunga. Coloro che hanno risposto alle nostre domande sono al 60% uomini e al 40% donne, inclusi abbastanza equamente nelle fasce d’età 25-30, 30-35 e oltre 35 anni. Un po’ di meno quelli tra 18 e 25 anni. L’89% proviene dal centro italia e il titolo di studio si divide equamente (42% e 46%) tra licenza media e licenza superiore; la scolarizzazione è leggermente superiore negli uomini. Dato assolutamente significativo, il 49% degli intervistati vive ancora con i genitori e tra i 18 e i 30 anni questa categoria raggiunge il 75%. Il 21% è iscritto a partiti e il 34% a sindacati, ma le percentuali andrebbero "scremate" dato che, presumibilmente, l’aver risposto al questionario costituisce già un criterio selettivo inclusivo dei soggetti più attivi politicamente e sindacalmente.

 

2) Condizioni lavorative.

 

Partendo dal presupposto che stiamo parlando al 90% di dipendenti con la qualifica di operaio generico, la propria condizione lavorativa viene percepita in modo contraddittorio. Se solo l’1% si dichiara molto soddisfatto, il 39% lo è abbastanza; al contrario, il 41% è poco soddisfatto e il 17% non lo è per niente. Abbiamo cercato di capire, per individuare le cause di questa insoddisfazione, quali fossero gli aspetti ritenuti più importanti nel lavoro e se questi aspetti fossero tenuti nella giusta considerazione da parte dell’azienda. Elementi centrali della prestazione lavorativa sono stati dichiarati "le condizioni di lavoro", "il salario", "i rapporti con i colleghi".

a) Le condizioni di lavoro. Alla domanda su quali fossero i maggiori fattori di disagio incontrati in azienda, le risposte più frequenti sono state "i ritmi di lavoro", "lo stress", "la ripetitività". Riguardo alla salute è poi emersa una realtà preoccupante, che tende a smentire l’elemento "umanitario" dell’imprenditoria marchigiana e offusca la concezione dell’impresa sociale. Il 35% ha dichiarato di aver subito o essere al corrente dell’invito a non dichiarare infortunio in cambio del trasferimento temporaneo a mansioni più leggere. Il 53% ha subito o è al corrente della richiesta, in caso di infortunio più grave, a non aprire la pratica INAIL, ma dichiarare malattia (INPS). E pensare che all’entrata dello stabilimento di Albacina spicca uno smile, emblema della Merloni "azienda sicura".

b) Il salario. Alla domanda "ti basta il tuo salario"? Le risposte sono state: sì 6%, sì perché vivo con i genitori 24%, sì ma devo fare sacrifici 31%, non mi basta 40%. Evidentemente, se il salario non basta è logico il ricorso a straordinari. Essi risultano diffusi, ma addirittura generalizzati nei contratti atipici: vediamo infatti che, se il 7% dei contratti a tempo determinato e l’11% di quelli a tempo indeterminato non fa nessuna ora di straordinario, tra gli interinali che hanno risposto non ce n’è nessuno che non faccia almeno un’ora di straordinario. A loro volta gli interinali sono in larga parte donne.

c) Rapporti con i colleghi. Sono emerse dalle domande aperte dichiarazioni riguardo alla presenza di troppi "marpioni", così come l’invito a smettere di premiare le donne per la loro bellezza. In un modulo si è parlato anche di mobbing.

 

3) Opinioni soggettive.

 

Se già i dati analizzati finora fanno emergere un quadro per molti versi drammatico, l’elemento più interessante si evince dalle considerazioni soggettive delle lavoratrici e dei lavoratori di Albacina. Alla domanda "vorresti, scaduto il contratto, rimanere a tempo indeterminato?" il 49% dice sì "perche mi servono i soldi", il 23% sì "perché mi trovo bene", il 25% risponde in maniera negativa, semplicemente perché vuole trovare un lavoro più gratificante. Altro che flessibilità! Ma le successive tre risposte sono un po’ la cartina di tornasole dell’efficacia dell’impostazione referendaria GC, che ha teso ad accostare la battaglia per l’estensione dell’Art.18 a quella più generale per il salario sociale. Prima domanda: "sei al corrente delle conseguenze di una modifica (in negativo) dello statuto dei lavoratori?" 31%: licenziamento per età; 27% licenziamento per condizioni di salute; 21% licenziamento per attività sindacale.

Seconda domanda: "Ritieni sia giusto che lo stato si operi per garantire una serie di gratuita’ (trasporti, cinema, teatro, servizi sociali, ecc.) ai giovani lavoratori?" In questo caso il 79% degli intervistati ha risposto positivamente e la cosa interessante è che il 78% di chi si dichiara di centrodestra è favorevole. Questa trasversalità funziona decisamente meno alla terza domanda, relativa al salario sociale diretto, a cui si dichiara comunque favorevole il 51%. Se i "sì" sono molto più numerosi a sinistra, le motivazioni utilizzate dai sostenitori e dai detrattori di questa misura sono comunque riconducibili a schemi mentali comuni. Vale a dire, tra i favorevoli le motivazioni fanno leva sulla necessità di un lavoro dignitoso e sul diritto di sopravvivere, tra i contrari si afferma che "se si vuole lavoro lo si trova", "si deve faticare come tutti gli altri…altrimenti si diffonderebbe la pigrizia". Una concezione ultralavorista è dunque presente sia a destra che a sinistra; a maggior ragione, se nell’epoca della guerra globale permanente si fa sempre più necessaria la costruizione di un’opposizione sociale fondata sui diritti, dovremo impegnarci a fondo per coniugare nella maniera più armonica l’elemento dell’estensione dei diritti stessi con quello della loro inclusività.

 

L’esperienza di Albacina rappresenta la prima realizzata come Coordinamento Tematico Interprovinciale GC contro la precarietà. Tanti sono stati gli errori di impostazione, tanti probabilmente sono stati anche quelli di analisi. Ma il fatto che, a partire dall’incontro di presentazione dei risultati, si sia cominciato a perforare una realtà che sembrava asfittica ed immobile e si sia cominciato a ragionare sulla costituzione di un tavolo contro la precarietà del fabrianese indica la fecondità di un approccio tutto politico e le sue potenzialità per il futuro.