Un’inchiesta (promossa dai DS) sul "lavoro che cambia"

a cura di Vittorio Rieser

1.

Ho partecipato ad un’inchiesta, promossa dal dipartimento lavoro dei DS, su "il lavoro che cambia", insieme ad altri 4 ricercatori (di varia collocazione politica nella sinistra), con la supervisione scientifica di Aris Accornero.

E’ stata un’inchiesta di ampia portata: sono stati raccolti ed elaborati oltre 23.000 questionari, raccolti attraverso diversi canali: dalla "classica" distribuzione/raccolta nei luoghi di lavoro (non solo fabbriche, ma anche aziende del terziario), alla distribuzione/raccolta nelle feste dell’Unità, alla compilazione "on line" sul sito Internet dell’Unità, alla spedizione per posta del questionario (che era stato pubblicato sull’Unità).

La varietà dei canali ha portato a una composizione interessante e multiforme del "campione": non solo (come spesso avviene) gli operai delle grandi fabbriche, ma impiegati, dipendenti di piccole aziende,e (grazie soprattutto alla raccolta on line) un congruo numero di quei giovani precari-qualificati che costituiscono una porzione crescente della forza-lavoro. Certo, i canali di raccolta hanno determinato una presenza prevalente del "popolo di sinistra" e di iscritti alla CGIL; ma la raccolta sui luoghi di lavoro ha permesso la presenza (sia pur minoritaria) di lavoratori di altra collocazione politica e sindacale.

Naturalmente, non si tratta di un campione statisticamente rigoroso, ma esso vede rappresentate in misura consistente tutte le molteplici condizioni che caratterizzano oggi il lavoro, nel quadro oggi dominante di una crescente flessibilità.

2.

Prima di illustrare alcuni risultati particolarmente significativi dell’inchiesta sono opportune alcune considerazioni.

Anzitutto: come mai io, iscritto a Rifondazione, ho lavorato a quest’inchiesta? Ovviamente la mia appartenenza politica era nota e non ha suscitato obiezioni; ma, soprattutto, la motivazione esplicita dell’inchiesta era "i DS hanno in larga misura perso contatto col mondo del lavoro e le sue trasformazioni: è ora di porvi rimedio, riallacciandosi a una tradizione di inchiesta che del resto era propria del PCI". Mi è quindi sembrato giusto contribuire all’impresa - pur sapendo fin dall’inizio che l’interpretazione/utilizzazione politica dei risultati avverrà anzitutto da parte dei DS e "alla loro maniera": ma nulla impedisce che anche altri, e noi in primo luogo, utilizzino i risultati, che sono ricchissimi di spunti di riflessione e di indicazioni per l’iniziativa di massa.

Ma, al di là di questo, una domanda sorge spontanea: come mai sono stati i DS a promuovere una grande inchiesta nazionale sul lavoro, anziché il PRC, che pure dovrebbe essere "il partito dell’inchiesta"?

A questo proposito, conviene ripercorrere sommariamente alcune tappe.

Qualche anno fa, il gruppo inchiesta PRC promosse un’inchiesta nazionale sul lavoro: ma su di essa intervenne, come un "siluro trasversale", un’inchiesta (su temi parzialmente coincidenti) affidata ad Abacus e contemporaneamente lanciata attraverso "Liberazione" - un’inchiesta di cui peraltro non sono mai stati resi noti i risultati.

In una fase immediatamente successiva, il Comitato Scientifico per il Programma comprendeva almeno un gruppo di lavoro (quello sui mutamenti della composizione di classe) che doveva trarre alimento dal lavoro di inchiesta e provare a trarne implicazioni teoriche e strategiche. Ma il comitato per il programma è stato affossato e si è (permettetemi la battuta) "trasformato" in una fondazione, che sta impostando un suo programma di inchiesta con un ambiguo rapporto di sovrapposizione/concorrenza con il lavoro di inchiesta "militante" condotto dal gruppo inchiesta nazionale, e con forti elementi di "deriva accademico-istituzionale".

Certo, a livello locale permangono (e si moltiplicano) iniziative di inchiesta strettamente legata alla pratica politica; ma, a livello complessivo, anziché avere il "partito dell’inchiesta", si tende a ripiegare sulla formula più tradizionale (ed inevitabilmente sterile) della "fondazione di ricerca". Come dire da Mao Tse-Tung alla Ford Foundation...

3.

Ma veniamo finalmente, sia pure in modo molto sommario, ad alcuni dei risultati più interessanti dell’inchiesta DS.

Cominciamo da un dato in parte sorprendente, perché diverso da ciò che emergeva in molte inchieste passate. Alla domanda "il tuo lavoro ti piace?" quasi l’80% risponde "molto" (29.9%) o "abbastanza" (49.2%); solo poco di più del 20% risponde "poco" (14%) o "per niente" (6.3%). Questo mette in dubbio molti luoghi comuni sulla dequalificazione/degradazione del lavoro, diffusi anche nella sinistra.

Ma ciò significa che i lavoratori intervistati sono complessivamente contenti, e in particolare che si trovano bene nel quadro di crescente "flessibilità"? Tutt’altro. Alla domanda "oggi il rapporto di lavoro tende ad essere più flessibile e meno garantito: cosa ne pensi?", meno del 5% dice che "mi fa sentire più libero nei miei progetti"; più del 75% esprime giudizi negativi ("mi fa sentire più insicuro, rende difficile fare progetti - 36% - "comporta più rischi che possibilità", "mi preoccupano le ricadute sulla pensione"); infine, un 21% dice "potrebbe andare bene se ci fossero adeguate protezioni" - che però non ci sono...

Un riscontro a questo si ha nelle risposte a "quali progetti lavorativi hai per il futuro?". Oltre il 56% ha esigenze di stabilità: il 37.3% nella forma "dinamica" espressa in "rimanere dove lavoro, migliorando la mia posizione", il 19.1% nella forma più "rassegnata" espressa in "tirare avanti in questo lavoro fino alla pensione". Solo il 18.5% ha progetti di mobilità: "cercare lavoro altrove a condizioni migliori" (13.3%) o "mettermi in proprio" (5.2%). Infine, per il 14.5% i progetti a cui tengo non riguardano il lavoro ma altro", e il 6.4% "non mi posso permettere progetti per il futuro".

Questa contraddizione tra un lavoro che - tutto sommato - piace abbastanza e un contesto che non piace affatto viene meglio chiarita dalle domande sui fattori di disagio e di limitazione nel lavoro.

Tra i fattori di disagio, oltre il 45% indica lo stress, il 25% la burocrazia interna, e percentuali tra il 20 e il 21% indicano la gerarchia, la ripetitività, i ritmi di lavoro.

Tra i fattori di limitazione sul lavoro, viene al primo posto (con oltre il 45%) il limitato riconoscimento economico, ma è seguito a breve distanza (con il 37-38%) dall’impossibilità di intervenire sull’organizzazione del lavoro e dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di vita; seguono poi (indicate da oltre il 25% degli intervistati) l’impossibilità di influenzare le politiche manageriali e l’impossibilità di costruirsi nuove competenze.

Quest’ultimo aspetto trova un riscontro molto forte nelle risposte ad un’altra domanda: "senti l’esigenza di momenti di formazione per sviluppare la tua professionalità?". Quasi l’80% sente l’esigenza di momenti di ulteriore formazione (il dato è notevole, perché non si tratta solo di giovani, e perché molti hanno un livello di formazione elevata), ma solo il 23% dice che l’azienda gli offre possibilità adeguate in proposito.

Il quadro che emerge da tutto questo è, dunque, non quello di un lavoro prevalentemente povero di contenuti professionali e di interesse, ma quello di un lavoro potenzialmente "ricco" ma pesantemente limitato dalle condizioni sociali esterne (flessibilità) ed interne (burocrazia, gerarchia, politiche aziendali).

4.

Il 43.6% di chi ha risposto è iscritto alla CGIL, il 6% a CISL o UIL, il 6.5% ad altri sindacati od associazioni professionali (tra questi sono nettamente prevalenti qualifiche elevate) i 13% era iscritto in passato, il 25% non è mai stato iscritto a un sindacato.

Cosa chiedono ai sindacati i lavoratori che hanno risposto? Il 56.5% chiede "più unità", il 27.4% "meno politica". (Erano possibili 2 risposte, per cui la somma delle percentuali - tanto più se consideriamo altre risposte, indicate da una porzione minoritaria degli intervistati - supera il 100%).

Qui vale la pena di fare una "divagazione-pettegolezzo". La richiesta nettamente prevalente di più unità - che è per così dire un "dato strutturale legato alla natura stessa dell’organizzazione e contrattazione sindacale - veniva "a caldo" interpretata dai dirigenti DS, quando esaminavamo i dati, come una sorta di "sconfessione" della linea CGIL (e sottolineata con malcelata soddisfazione). Ma i dati mostrano che la richiesta di "più unità" tocca la punta massima proprio tra gli iscritti CGIL, e si accompagna a una percentuale superiore alla media della richiesta di "più decisione". All’opposto, tra gli iscritti CISL e UIL è più bassa della media l’indicazione di "più unità" e più alta della media l’indicazione "meno politica".

Dunque, la richiesta di più unità va vista come denuncia degli accordi separati, e non come una richiesta di "compromessi moderati".

5.

Ci sono molti altri aspetti di cui sarebbe interessante parlare, e lo si potrà fare in altre occasioni.

Ma già da questi primi "flashes" su poche domande del questionario emergono alcuni nodi di notevole rilevanza politica.

Già da questi pochi dati, infatti, emergono elementi importanti per la costruzione di una prospettiva di lotta, sindacale ma anche politica - che del resto trova riscontro nei fatti, nello sviluppo di lotte e movimenti di massa in questi ultimi anni.

Ma il "mix" di questi elementi è diverso dal passato, e anche da schemi tuttora diffusi nella sinistra. Nodi come l’intreccio tra qualificazione del lavoro e formazione, tra flessibilità/stabilità e garanzia/diritti, tra intervento sull’organizzazione del lavoro e lotta contro l’autoritarismo burocratico/gerarchico assumono un rilievo cruciale. E’ un "mix" parzialmente diverso da quello a cui eravamo forse abituati, ma non è meno esplosivo: costruire una prospettiva di lotta che risponda alle esigenze di quelli a cui "il proprio lavoro piace" è forse una sfida più avanzata di quella di organizzare la lotta di quelli che hanno "un lavoro di merda" (che non sono scomparsi, sia ben chiaro! e che non vanno dimenticati).