Torno, 03/05/2001

TORINO IERI - OGGI: una proposta di lavoro

Presentando nel saloncino dell'Istituto Gramsci il libretto di Ada Soldati "
Cara gente - cari luoghi" sulla vita di un borgo torinese negli anni '30 - '40 si è aperta una interessante discussione sulla città di ieri e di oggi e su come la vede o potrebbe vederla un giovane.
La questione è di grande interesse ed attualità..
Alasia, Ramazzotti, Rieser, Gianna Tangolo presentano queste considerazioni del tutto aperte alla riflessione dei compagni, dopo di che si potrebbe preparare un "Questionario di INCHIESTA".
Oggi nei borghi non vi è più la fragranza dei giardini:
Cosa significa?
Meno verde, più cemento, asfalto, ferro. Meno pietre "vive"; meno dimensione umana (siamo pure gente di carne ed ossa legata a certi stimoli insopprimibili); c'è qui la forza di una definizione identitaria ma anche la pesantezza delle radici.
Più sferragliare di "mezzi": invasione d'auto, più industrialismo, efficentismo, orari di vita più scanditi, diversa composizione sociale, come pesa questo?
I ragazzi non giocano più al pallone, non ci sono più le bande (forte caratteristica del borgo di un tempo), tutti si conoscevano; oggi non conoscono il vicino di casa.
la strada è solo più transito, non sosta.
la gente passa; non guarda, va via, non vede, non sente, non è interessata a ciò che la circonda.
Manca socializzazione di rapporti, non si conoscono , ma vi è in certe zone un rifiorire di interesse per
il passato - antiquariato - libri; locali (e quanto di consumismo?) circoli e associazioni prima inesistenti.
Il dialetto si parla pochissimo
E' un male? E' un bene?
La lingua italiana unifica moltissimo (specie tante immigrazioni) e oggi emerge una internazionalizzazione almeno di alcuni termini legati ai processi globali (automazioni, informatica, salute, auto) ma il dialetto è anche una cultura, una tradizione: per esempio legato al gergo operaio, ai mestieri, agli strumenti di lavoro. E' molto espressivo e diretto e poi il particolare gergo delle zone poverissime e della "mala".
Si sente sempre meno il rapporto giovani - città.
In che senso?
La città non è sentita? La città "non parla".
Non parla ai giovani?
Ma la frequenza ai musei? un certo interesse per il passato? un interesse del "presente", delle sue tecnologie?
Cosa è il "Lingotto"? Ruolo.
Il rifiuto della vita frenetica.
C'è scarso interesse alla cosa pubblica:
E' sentita come estranea?
o sono gli "attori" sentiti come estranei.
E poi, "cosa pubblica" è
tante cose.
I ragazzi si spostano anche fuori città; luoghi freddi anonimi.
ma in questi luoghi non trovano anche forme (forse ed embrionali) di una nuova (diversa) socializzazione?
- Il ruolo delle discoteche - il ruolo dei grandi magazzini (che trovano tanto consenso) (forse di media età: si spostano le famiglie - si programmano le visite).
il ruolo dei viaggi all'estero.
Riflette che ha più mezzi, più scuola.
in quale modo e misura è così?
E non c'è forse una nuova dimensione giovanile di massa in tanti modi diversi (formazione professionale, apprendisti, centri formazione, contratti formazione lavoro - si veda aggregazione 147 giovani licenziati Fiat) che ha pochi mezzi eppure contiene in nuce modi di pensare (nuovi saperi; intreccio lavoro - studio come è cambiata la scuola e come nella percezione del giovane è cambiato il ruolo della scuola.
Idem lavoro ( e le figure che prima non c'erano e non erano così estese terziaria, servizi).
Le radici.
Quanto c'è di nuovo e di vecchio in ognuno di noi.
Vedere la vita (individuale e sociale) come un processo dialettico - vedere le cose in modo processuale avere la capacità di storicizzare i giudizi il positivo e il negativo delle radici.
Certo un processo dialettico prevede qualche obiettivo, un "progetto" nel quale proiettarsi, seppure in sviluppo, in divenire.
Nel processo di Rifondazione Comunista, si è richiamato tante volte l'insegnamento di Giorgio Lukas a proposito dei limiti che il Partito può avere a questo riguardo: "
ceto un politico non può rinviare la sua azione per il solo fatto di non possedere ancora una teoria adeguata: certe scelte non possono essere rimandate.
Un marxista può benissimo rispondere non so, non perché sia impossibile sapere, ma perché non so ancora. E intanto agire sapendo che si muove all'interno di un limite teorico che dovrà superare"
.
La ricerca del progetto deve essere dunque costante e deve perciò alimentarsi degli sviluppi concreti di ogni giorno, sovente difficilmente prevedibili (si pensi alla globalizzazione e suoi effetti, al rapporto automobile - ambiente - nuova organizzazione produttiva in continua evoluzione - nuovi assetti societari).
Diversamente si corre il rischio di astrazioni ideologizzanti.
Ritorna la polemica sul luddismo, ma in forme di luddismo (vedi le lotte contro le macchine, industrializzazione) c'era anche il rifiuto non solo alla nuova povertà (disoccupazione) che comportava, ma anche ad un modello distruttivo di vita e natura e grave ipoteca sul futuro, di impiego di massa di mano d'opera infantile, di doppio sfruttamento della donna e la romantica concezione "dell'angelo del focolare" (letteratura socialista).
Allora oggi: non si tratta di un romantico sogno di ritorno al passato (ma di recupero positivo nelle nuove condizioni) di certi valori.
Oggi nelle tante situazioni diverse il tratto comune generalizzante delle incertezze sul futuro, ripropone il tema antico della solidarietà.
Ma questo non è affatto scontato nella soggettiva consapevolezza del giovane.
Le frantumazioni di questa società sono moltissime. Ciò pone il problema di come è possibile riunificare ciò che il meccanismo capitalistico divide e contrappone (disoccupati - bioccupati; cassaintegrati - straordinario; anziani "sicuri" - giovani precari ecc...).
Cos'è la "modernità"?
Il capitale per esistere sradica. intanto scioglie il legame dell'uomo colla terra: lo vuole "libero" di vendere le proprie braccia, e vuole la terra alienabile. Poi sradica, sposta, masse enormi di popolazione, uomini donne e bambini.
E sradica culture, tradizioni e saperi. Ma la libertà da quei vincoli quale, quali libertà costruisce?
le "barriere" di ieri e le "periferie" di oggi.
Le barriere di ieri avevano una forte connotazione sociale e culturale. Quelle di più vecchio insediamento attorno alla fabbrica un po' tipo manchesteriano):
Chiesa salute - Borgo Vittoria attorno al Savigliano 8la più vecchia metallurgica torinese), la Mezzonis bianchina dell'inizio '800, la Feriera e la Zerboni; San Paolo: Lancia, Spa, Viberti, Materferro (si coniò persino il termine "sanpaolini" per indicare un tipo di operai colti). Barriera di Nizza , Lingotto, ecc...
Persino i "dazi" coi loro caselli conferivano alle barriere una certa connotazione topografica ed economica, le varie "mala" di Porta Palazzo, di Vanchiglia con loro particolari interessi, gerghi e culture. Le "bande" di ragazzi tipiche di ogni borgo. Sino alle zone più nuove con insediamenti sociali di ceto medio, di burocrazia pubblica, di borghesia, di intellettuali e di vecchia nobiltà.
Le periferie del dopo guerra passate da una forte identità collettiva degli anni '60 - '70 con capacità di cultura (vedesi quartieri e scuole a "tempo pieno") che negli  anni più recenti hanno registrato una caduta. Come può la periferia tornare a pesare ed a essere centrale?
Ancora qualche spunto di riflessione.
Nel valutare come si vive nella Torino di oggi, va naturalmente evitato il rischio della "nostalgia": rischio forte soprattutto per gli anziani, che magari rimpiangono i tempi in cui potevano giocare a foot-ball nella via vicino a casa (ma anche tra i giovani può essere presente la nostalgia per un'epoca che hanno vissuto...).
Intendiamoci, la nostalgia più avere fondamenti solidi: è possibile che, almeno per certi aspetti, a Torino "si vivesse meglio" 50 anni fa. Ma bisogna tenere conto di due elementi di fondo.
I mutamenti oggettivi, nella struttura della città , nella sua composizione sociale, negli strumenti della vita quotidiana. Ciò non significa considerarli di per sé positivi ("il progresso"...) né considerarli irreversibili e immodificabili - ma, anche se si cambiano, questo non significa "tornare alla situazione di prima", ma creare una situazione nuova sia rispetto a quella attuale che a quella passata.
Un ragionamento analogo va fatto per
i mutamenti soggettivi, culturali: la mentalità dei giovani d'oggi non è la stessa degli anziani quando erano giovani (che per di più oggi è "filtrata" da un ricordo in cui si mescola un "senno di poi"). Anche qui, ciò non significa che essa vada esaltata ed accettata così com'è: ma i cambiamenti non possono avvenire in nome di un "modello passato", devono nascere dalle contraddizioni interne della mentalità/cultura attuale, far leva sulle differenze interne, individuare al suo interni i fermenti positivi.
Scendiamo su un terreno più concreto, con alcuni esempi.
il dialetto. E' chiaro che, in questo caso, si tratta per certi versi di un processo davvero "irreversibile": l'italiano è già l'unica lingua comune nelle fasi storiche di immigrazione dal sud, tantomeno si potrebbe proporre il dialetto piemontese ai nuovi immigrati extracomunitari.
E però il dialetto era anche il linguaggio di una cultura ricchissima e importante: la cultura dell'operaio torinese professionale (con il suo dialetto particolare punteggiato da termini derivanti dal francese: l'alesuarista, il pipter...) una cultura che era al tempo stesso tecnica e politica. non è affatto scontato che questa cultura debba andar persa (gli operai di mestiere, di cui periodicamente si annuncia la scomparsa, sono più vivi che mai...), ma non potrà più esprimersi in dialetto piemontese.
Il traffico. Non è affatto scontato che la città debba continuare ad essere invasa dal traffico privato come oggi.
E già oggi, le poche zone pedonali sono un luogo di maggiore socialità. Ma è chiaro che le esigenze e i criteri di mobilità dei cittadini sono oggi molti diversi da 50 anni fa: e che, quindi, un intervento drastico di riorganizzazione della mobilità e del traffico non potrà riportare alla situazione precedente, ma condurrà ad una situazione nuova: quale? Come e chi la decide? in funzione di quali esigenze prioritarie?
Nel considerare il modo in cui le persone vivono la città, non vanno considerate solo le "strutture urbane" (spazi, verde, traffico, ecc.), ma vanno presi in considerazione altri elementi. Uno di questi è il
tempo.
Gli orari di lavoro si complicano e (spesso) si prolungano - in che modo e in che misura questo pesa sulla possibilità di "utilizzare la città"?
Se uno fa dei turni tali che, nelle sue ore libere, non c'è nessuno in giro, che fa? Non a caso i maggiori utilizzatori della città sono oggi pensionati...
E questo porta a un discorso più generale: il modo in cui una persona vive la città, la "utilizza", dipende -certo- dalle strutture della città, alle possibilità che queste offrono, ma dipende, in modo più fondamentale, dai
rapporti sociali in cui una persona è inserita e che caratterizzano la città stessa. Se questi rapporti sono caratterizzati dalla precarietà, dall'insicurezza, dal "taglio dei tempi" disponibili per la propria vita, anche la città più bella sarà scarsamente usufruita.
Ad esempio, Torino rispetto ad altre città non manca di giardini e parchi (anche se sono distribuiti in modo perequato): ma una parte dei cittadini non ha i tempi per utilizzarli, chi ce li ha (es. anziani) ha magari paura di usarli (una paura che spesso si esprime anche in pregiudizi "reazionari", ma che ha radici in problemi reali).
Quindi se si vuole rendere più vivibile la città, si deve intervenire anzitutto su una struttura sociale "poco vivibile" - il che non significa considerare irrilevanti i cambiamenti nella struttura urbana: avere o no spazi di verde, avere la città intasata di auto o avere ampi spazi pedonali e servizi pubblici efficienti, sono cose tutt'altro che secondarie e che non vanno rinviate ad un ipotetico "dopo". ma va sempre tenuto presente che un disoccupato, un "precario a vita", un lavoratore che ogni giorno fa un turno diverso, una famiglia sotto il livello di povertà, incontrano degli "ostacoli preliminari" nell'utilizzare le strutture della città.

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