L’inchiesta sui precari realizzata dal Circolo "Che Guevara" di Torino

 

 

L’inchiesta è stata promossa da un circolo territoriale, il circolo Che Guevara di Torino (che tra l’altro è il circolo con il numero più alto di iscritti). Fin dal suo inizio, però, l’inchiesta non si è chiusa nei "confini territoriali" del circolo: ha toccato luoghi di lavoro con forte presenza di precari, anche fuori dai "confini territoriali", dove compagni del circolo o lavoravano o avevano contatti; inoltre ha inviato a tutti gli iscritti del circolo il questionario, perché (se lavoratori precari) lo compilassero, o perché lo diffondessero e facessero compilare tra eventuali conoscenti in condizione di lavoro precario. In un secondo momento, è stata coinvolta la Commissione Lavoro della Federazione perché ne promuovesse una diffusione più ampia, in particolare in alcune grandi fabbriche.

 

Da questa esperienza (tuttora in corso, di cui qui di seguito daremo alcuni risultati parziali) ci sembra possano essere tratte varie indicazioni utili sul metodo di lavoro del partito. Essa, infatti, è partita da una struttura del partito (il circolo territoriale), ma ha seguito solo in parte i "canali istituzionali": è stata impostata e discussa nella commissione lavoro del circolo (e non nel direttivo), in riunioni che hanno sempre visto una partecipazione numerosa e attiva (da 10 a 15 compagni/e, non tutti iscritti al partito); si è proiettata, come abbiamo detto, al di là dei confini territoriali del circolo, ha poi coinvolto la commissione lavoro provinciale su un lavoro già concretamente definito e in atto. Va notato che, dei vari "canali" utilizzati, l’unico che finora non ha prodotto risultati è stata la distribuzione "postale" dei questionari agli iscritti al circolo.

 

La raccolta dei questionari è ancora in corso. Le note che seguono sono state elaborate sulla base dei primi 50 questionari raccolti, ma molti altri sono già arrivati e di molti altri è prevedibile l’arrivo.

 

 

 

Alcuni primi risultati

 

I questionari finora elaborati (molto parzialmente: ci si è limitati ai dati complessivi di risposta, senza fare "incroci" o altre elaborazioni più raffinate) sono stati raccolti prevalentemente nel settore terziario, pubblico e privato: il grosso viene dal settore socio-assistenziale (non solo cooperative sociali, ma strutture pubbliche), dalle Poste, da call center e da ditte di servizi alle imprese. Si va da aziende grandi (nel settore pubblico) ad aziende anche molto piccole in quello privato.

 

Gli intervistati si dividono grosso modo a metà tra maschi e femmine, il che corrisponde alla divisione della popolazione ma non della presenza nell’occupazione, dove le donne sono meno numerose: segno di una maggiore incidenza del lavoro precario tra le donne.

E’ significativo il dato relativo all’età: se una metà circa non superano i 30 anni, quasi altrettanti li superano; segno che la condizione di lavoro precario non è solo un fatto transitorio, tipico dei giovani, ma investe tutte le fasce d’età.

Il titolo di studio è piuttosto elevato; quasi tutti sono andati oltre la scuola dell’obbligo, con una maggioranza assoluta di diplomati e con un numero consistente di laureati o con titoli di studio analoghi alla laurea.

Un dato assai significativo è che la metà degli intervistati vive nella famiglia d’origine, e non si tratta solo dei più giovani: segno che la condizione di precariato rende difficile costruirsi una famiglia (è elevato anche il numero di coloro che vivono da soli o con amici).

 

I rapporti di lavoro precario possono avere molteplici forme (che sono destinate a proliferare ulteriormente con l’applicazione della legge-delega sul lavoro, ispirata al "Libro Bianco" di Maroni).

Tra i nostri intervistati, almeno per ora, prevalgono nettamente i dipendenti a tempo determinato e i collaboratori coordinati e continuativi, seguiti (a notevole distanza) da lavoratori interinali e soci lavoratori di cooperative. Vi sono anche 4 lavoratori "in nero".

Corrispondentemente al titolo di studio conseguito, il grosso ha cominciato a lavorare dopo i 18 anni (e una parte consistente dopo i 21 anni).

Il percorso lavorativo risulta molto "accidentato": più dei due terzi ha già svolto più di 3 lavori prima di quello attuale (e, tra questi, una metà ne ha svolti più di 5), segno che molte persone devono "saltabeccare" tra un lavoro precario e un altro. Ciò non significa che questo complicato percorso lavorativo sia segnato solo dalla "costrizione" e dal forzato adattamento ai lavori disponibili: certo, un po’ più della metà dice che ha lasciato il lavoro precedente ed è approdato a quello attuale "per necessità", ma poco meno della metà l’ ha fatto "per scelta", cioè cercando un lavoro più corrispondente alle proprie esigenze.

Questa esigenza di costruirsi un percorso lavorativo relativamente "autonomo" trova riscontro sul terreno della formazione: solo un quarto si è fermato al titolo di studio "ufficialmente" conseguito, gli altri hanno seguito (o stanno tuttora seguendo) percorsi di formazione ulteriore.

Questo può spiegare, in parte, il fatto che la maggioranza non svolge un secondo lavoro, e – tra quelli che lo svolgono – quasi tutti lo svolgono solo in modo occasionale.

 

La stragrande maggioranza ha un contratto scritto e viene pagata regolarmente; ma per una metà circa ci sono delle discordanze tra le clausole del contratto e le condizioni effettive di lavoro, così come tra orario contrattuale e orario di fatto.

 

In quasi tutte le situazioni i lavoratori "atipici" intervistati non sono i soli "atipici", ma si trovano accanto altri lavoratori in condizione analoga. Rispetto al lavoratoti "stabili", la maggioranza dice di trovarsi in condizione peggiore, anche se una consistente minoranza parla di condizione più o meno simile. Una metà dice che i rapporti con i lavoratori in condizione stabile sono "buoni, si discute e c’è una certa solidarietà", ma c’è anche chi parla di "un po’ di estraneità" e (in minor misura) dice che "pensano solo ai loro interessi".

Con gli altri lavoratori "atipici" la situazione non è molto diversa: un po’ più della metà indica un rapporto collettivo di solidarietà, ma altri dicono che "si parla poco", sia perché manca il tempo sia (in una minoranza di casi) per timore di rappresaglie.

 

Sulla valutazione del proprio lavoro da un punto di vista professionale, i pareri si distribuiscono in misura quasi equivalente tra le 4 possibili risposte: nell’ordine (ma come abbiamo detto le differenze quantitative sono minime), "potrebbe essere interessante e qualificato se ci fossero i margini di autonomia e di tempo adeguati", "è un lavoro abbastanza interessante e qualificato, che mi permette di sviluppare la mia professionalità", "è un lavoro abbastanza stupido e ripetitivo", "è un lavoro che implica soprattutto responsabilità sui tempi o sulla qualità".

Dunque, lavoro precario non corrisponde necessariamente a lavoro dequalificato e povero di contenuti. Ciò trova riscontro nel fatto che la metà degli intervistati si dice soddisfatto del proprio lavoro, solo 13 si dichiarano insoddisfatti e altri 10 dicono che gli va bene perché tanto è solo una tappa transitoria.


Ma, naturalmente, anche per quelli soddisfatti dl proprio lavoro, ciò non significa che non ci siano problemi. Dalle due domande relative a questo tema, risulta che i due problemi nettamente prevalenti sono la sicurezza del posto di lavoro e il salario. Ma sono frequentemente indicati anche problemi relativi alle condizioni di lavoro (orario di lavoro, ritmi di lavoro, ambiente di lavoro) e problemi relativi allo sviluppo professionale (possibilità di crescita professionale e di carriera, possibilità di formazione professionale).

Sui problemi della propria condizione di lavoro, una maggioranza si è già rivolta al sindacato (dividendosi in parti uguali tra chi si è anche iscritto e chi no). Il giudizio nettamente prevalente è che in proposito il sindacato è stato utile; e, tra quelli che dicono che non lo è stato, la maggioranza dice " non per colpa del sindacato" e solo 3 dicono che "non si è mosso in modo efficace".

Di qui, l’opinione che un intervento del sindacato sui problemi dei lavoratori precari è utile – meglio però se combinato con la formazione di associazioni specifiche. La maggioranza pensa che le forme di organizzazione debbano partire dai luoghi di lavoro, ma una consistente minoranza pensa che sia meglio partire dal territorio, per evitare i rischi di repressione che ci sono sul luogo di lavoro.

 

Veniamo infine alle domande conclusive. Quali sono le prospettive e i progetti per il futuro? Metà degli intervistati vorrebbe trasformare il proprio lavoro attuale da precario a stabile, 10 vorrebbero trovare un lavoro stabile, ma non nell’azienda dove lavorano attualmente, altri 10 dicono di non essere in grado di fare progetti ma solo di vivere alla giornata. Sono pochi quelli che vorrebbero cercare un altro lavoro "atipico" più professionalizzato o che vorrebbero mettersi in proprio.

In termini più generali, una schiacciante maggioranza pensa che la "flessibilità" renda più insicuri e renda impossibile fare progetti; qualcuno dice che potrebbe andar bene se ci fossero adeguati sostegni al reddito o alla formazione, solo uno o due si sentono "più liberi".

 

Infine, è importante notare che più della metà degli intervistati è interessata a momenti di incontro su questi temi ed è disponibile a parteciparvi; pochi sono quelli che si dicono non interessati, gli altri si trincerano dietro la forma "sarei interessato, ma non credo che avrò il tempo".