Educare alla gestione dei conflitti

Educazione e pace

 

di Laura Tussi

La continuità tra comportamenti di pace a livello macrosociale e microsociale.

L’educazione alla pace, innanzitutto, transita attraverso la formazione di una personalità, di un’organizzazione psichica e cognitiva in evoluzione nella quale hanno la preminenza gli atteggiamenti positivi, di negoziazione, di cooperazione, rispetto all’antagonismo e alla prevaricazione e alla violenza dettata dall’odio. Per costruire individualmente e nel collettivo contesti di pace e creare ambiti organizzati tramite metodi nonviolenti.

L’educazione alla pace all’interno delle dinamiche sociali e comunitarie per prevenire i conflitti a livello internazionale

Nella psicologia dello sviluppo si indagano l’origine e l’evoluzione di comportamenti quali l’aggressività, la competitività, la prevaricazione, la violenza e gli atteggiamenti opposti a questi ultimi, quali la solidarietà, la cooperazione e l’altruismo per la creazione di contesti di pace a livello introspettivo, interrelazionale e a livello macroscopico ossia geopolitico e internazionale. La didattica recentemente si sta occupando anche di educazione alla pace, di gestione del conflitto e diseducazione alla guerra.

E’ ancora possibile educare alla pace? o sussistono altre forme di intervento nonviolento?

Nella nostra cultura è profondamente radicato il convincimento secondo cui le guerre internazionali, i conflitti di predominio etnico ed economico, siano avvenimenti addirittura necessari ed inevitabili come, in parallelo, le contese e le diatribe tra gruppi e tra singoli. Gli studi sociologici e psicologici più recenti indagano i comportamenti significativi relativi al tema della conflittualità, dimostrando che sussiste continuità tra comportamenti macrosociali e microsociali.

Questo dimostra che è impossibile educare alla pace e alla gestione dei conflitti esclusivamente predicando la pace o proponendo un ideale nonviolento e pacifista rispetto alle relazioni belliche internazionali, ma occorre intervenire nei comportamenti e nei rapporti sociali e comunitari che anche il giovane vive e sperimenta nel suo quotidiano

Se non si considerano il conflitto interpersonale, la guerra tra civiltà, la belligeranza tra potenze nazionali, quali fenomeni connaturati con l’esperienza umana sussistono anche convinzioni circa il ruolo dell’utilità di un’azione a favore della pace, per impegnarsi in senso non violento. Ma l’educazione alla pace, innanzitutto, transita attraverso la formazione di una personalità, di un’organizzazione psichica e cognitiva in evoluzione nella quale hanno la preminenza gli atteggiamenti positivi, di negoziazione, di cooperazione, rispetto all’antagonismo e alla prevaricazione.

Gli atteggiamenti di conflitto e prevaricazione interindividuale e tra relazioni con persone si costruiscono in primo luogo nel microcosmo o microsistema nell’ambito della quotidianità del soggetto persona e solo in seguito vengono proiettati, trasferiti e riversati nell’ambito delle relazioni tra i popoli

L’atteggiamento pacifico non si può esercitare a livello di istituzioni pubbliche, di relazioni internazionali, a livello mondiale se non ci si abitua a praticare nelle relazioni private e nei rapporti interpersonali comportamenti pacifici che trasmettano ideali di cooperazione, di altruismo, di solidarietà, di collaborazione, di pace a livello individuale e, di conseguenza, universale.

La concezione di aggressività, come conflittualità interiore e intrapsichica per assumere atteggiamenti di apertura dialogica e interrelazionale per creare e costruire la pace che transita dal livello microsociale all’internazionalismo macrosociale nell’attuale congiuntura geopolitica

Sussiste una concezione dell’idea di conflitto interiore come potenzialità di adattamento, di creatività, di emancipazione ed evoluzione e non come istintualità di morte, di annientamento e distruzione. L’aggressività adattiva svolge fondamentalmente alcune funzionalità strumentali di tipologia complementare. Da una parte la conflittualità, e non la guerra, svolge il compito di una forza attiva per il proprio sviluppo e l’affermazione di sé, dall’altra è uno strumento per tutelare la propria identità.

Dunque la conflittualità interiore si delinea come una potenzialità positiva e creativa nel dialogo per la pace, contro ogni razzismo

La conflittualità interiore è necessaria al fine di consentire una modalità di superamento della dipendenza infantile, al fine di favorire l’affermazione della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del sé, per tutelare la propria stabilità fisica e psichica.

La conflittualità interiore è uno strumento di difesa per tutelare la propria identità, per stabilizzare l’assetto della propria personalità da incursioni ed attacchi esterni, da critiche e censure interrelazionali, per creare contesti e ambiti e spazi di pace sempre più altamente dialogici, ossia aperti al dialogo per la nonviolenza

L’atteggiamento conflittuale si delinea come potenzialità positiva e si configura come strumento necessario alla stabilizzazione del sé, indispensabile al fine di consentire il superamento dello stato di attaccamento e di dipendenza dalle figure dell’infanzia, con lo scopo di permettere l’affermazione della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del sé.

Riconoscere il conflitto interiore come istanza che presenta potenzialità positive non significa legittimare la distruttività e la violenza e la prevaricazione e l’odio

Questo costrutto pedagogico si determina perché aggressività e distruttività non si identificano. La distruttività costituisce una degenerazione dell’aggressività ingenerata dalle specifiche e caratteriali varianti biologiche e psicosociali che determinano l’organizzazione psichica, cognitiva, affettiva, relazionale, apprenditiva e socializzante dell’individuo.

Attualmente cercare di ridurre l’apporto distruttivo e degenerativo dell’aggressività, quindi distogliere l’uomo dall’autodistruzione della conflittualità, anche a livello mondiale che non prevede una fine, né un fine, né un ritorno alla pace, tutto questo non comporterebbe né l’annullamento, né la repressione dell’aggressività, intesa nel significato di espressione positiva per l’affermazione e la difesa di sé, nel rispetto dell’altro

Le più gravi forme di conflittualità esplodono nella società, nella famiglia, nella scuola che soffocano l’esigenza dell’affermazione della persona umana. Solo la famiglia, la scuola e la società che consentono il maggior spazio di affermazione personale possono agire in modo pacifico. La psicologia sociale e la psicanalisi sono accomunate da un grande consenso circa la necessità di abolire stili educativi repressivi, in quanto forieri di violenze. La realizzazione di sé si incontra con la presenza e l’esigenza di interagire con l’alterità, di relazionare con gli altri da noi.

In questo contesto relazionale si pone il problema di come permettere l’espansione identitaria di ogni soggetto, senza prevaricazione e sopruso e odio nelle relazioni con l’altro da sé

In termini psicologici occorre individuare i meccanismi che possono facilitare e agevolare condizioni di rispetto per la soggettività dell’altro e per il controllo della propria aggressività. L’uomo è l’animale sociale ed è in grado di essere aggressivo e distruttivo, ma è anche soprattutto capace di collaborazione, altruismo e cooperazione e amore. Dunque è necessario, pedagogicamente pensando, individuare le situazioni che agevolano nel bambino e nel soggetto persona l’emergere di stabili comportamenti collaborativi e cooperativi di pace e amore e solidarietà.

da TRANSFORM

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