Un anno fa in Afghanistan, calava il buio.

Un anno fa in Afghanistan, calava il buio.

Stefano Galieni

…E capita di innamorarti di un popolo intero, della sua capacità a resistere, da solo, contro tutto e tutti, la cui sorte è e deve restare ignorata, dimenticata, ridotta agli stereotipi di un oscurantismo di marca coloniale. Non si consideri quanto segue un’analisi politica ma un semplice atto d’amore. L’Afghanistan è in guerra da troppi anni. Come ebbe a dire una sua valorosa esponente, Malalai Joya, “i sovietici ci hanno insegnato a non credere al socialismo, voi e gli americani (rivolgendosi agli europei) a non credere nella democrazia. Ora dobbiamo trovare una strada nostra”. Lo diceva quando il disastro non si era compiuto definitivamente ma era nell’aria. Già nel 2018 erano iniziati gli accordi di Doha, al cui tavolo sedevano esponenti statunitensi e talebani, per giungere al ritiro delle truppe occidentali nel paese asiatico. Le false promesse cozzavano col fatto che a trattare, per conto degli studenti coranici, andavano esponenti appena rilasciati con l’accusa di terrorismo, dalle Guantanamo statunitensi, a cui, in nome di interessi geopolitici, veniva restituita senza nulla a pretendere la patente di interlocutori. Il disastro era nell’aria da anni. Le forze Nato non erano riuscite a raggiungere il controllo del Paese, il governo fantoccio del presidente Ghani, si era dimostrato ancora più corrotto ed inefficace del governo Karzai, lasciando poche speranze alle persone. Nonostante un massiccio afflusso di valuta statunitense ed europea, le strutture che potevano permettere la ricostruzione di un tessuto sociale stabile, faticavano a partire. Le risorse spese o andavano in inutili armamenti, posti di blocco, addestramento di un mai realizzato esercito afghano o si perdevano nei meandri della corruzione. Una corruzione di cui erano e sono consapevoli tanto i Paesi donatori quanto i lords of war delle provincie destinatarie. Mentre l’invio di armamenti era controllato al centesimo, ogni fondo elargito per creare infrastrutture come strade, scuole, ospedali, veniva risucchiato dai potentati locali. Nel frattempo le milizie islamiste dei talebani continuavano ad occupare oltre la metà del Paese e ad arricchirsi non solo con il traffico di stupefacenti ma anche negoziando con le forze occupanti per l’acquisto di materiale bellico. L’anticipazione della fuga delle truppe Usa e degli altri Paesi Nato ha immediatamente posto gli studenti coranici ad impadronirsi del Paese senza incontrare che scarsa resistenza. L’esercito regolare, addestrato dagli occidentali ma i cui soldati non venivano pagati da mesi, si sgretolava in pochi giorni di fronte all’avanzata talebana. Herat, Konduz, Mazar I Sharif, cad3evano rapidamente sotto il giogo islamista. Le milizie talebane, nonostante le loro divisioni interne, entravano a Kabul un anno fa, il 15 agosto. “Quel giorno il cielo è diventato scuro” racconta Maryam Barak, giovane rifugiata, giornalista, riuscita quasi per miracolo a giungere in Italia insieme alle sue tre sorelle e, più tardi, raggiunta dal padre e da un cognato. Da quel fatidico 15 agosto è accaduto di tutto: messi da parte ogni tipo di messaggio rassicurante, i talebani hanno imposto il proprio regime oscurantista, ma hanno bisogno di aiuti internazionali. L’inverno è stato durissimo, preceduto da una grave siccità. Almeno il 72% della popolazione si è trovato in condizioni di carestia, le madri hanno dovuto vendere le proprie figlie, qualcuno è riuscito a scappare, altri, sono morti anche di fame e di povertà, in un mondo prima attento e presto pronto a dimenticare le sorti del Paese. E oggi? I nuovi governanti segnano il passo perché non hanno ancora ottenuto gli auspicati riconoscimenti internazionali che sono necessari per ricevere aiuti economici. Gli Usa hanno incontrato i loro leader recentemente in Uzbekistan, in cambio della garanzia che nessuna organizzazione terroristica avrebbe più trovato rifugio nel paese, si sono sbloccati 3,5 miliardi di dollari in fondi afghani custoditi presso la Federal Reserve. Pochi giorni dopo, (coincidenza) il leader di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, medico di 71 anni considerato il successore di Osama Bin Laden, veniva ucciso in maniera quantomai sospetta da un drone mentre riposava sul balcone della sua casa di Kabul. È lecito pensare che il suo scalpo sia stato venduto per sbloccare i fondi. Trattative che invece non sembrano andare avanti con gli altri partner interessati, Cina, Russia e Iran, oggi alle prese con grane maggiori. I rapporti del regime funzionano perfettamente invece con il governo del Pakistan, laddove in origine si sono formati i primi nuclei talebani, ma al nuovo emirato servono soldi. E, da ultimo, alcune riflessioni. Da una parte in Afghanistan, soprattutto le donne, non si arrendono. Continuano a manifestare, a subire repressioni, violenze, attacchi. Una missione di Amnesty ha potuto constatare come la condizione di chi si ribella sia insostenibile, ne pagano le conseguenze anche le famiglie e numerosi sono i casi di esecuzione extragiudiziale. Le scuole per le ragazze non sono riaperte, ufficialmente per ragioni tecniche, in realtà perché l’Afghanistan imposto dai talebani è peggiore dei piccoli risultati di libertà e di affrancamento ottenuti, soprattutto nei grandi centri urbani, durante l’occupazione. Le ragazze che studiano, che parlano inglese, costituiscono un pericolo per il regime. Dall’altra il sostegno internazionale verso chi fugge si è raffreddato. Già prima della guerra in Ucraina, l’Italia, per fare un esempio, aveva garantito possibilità di ingresso a 1200 richiedenti asilo in due anni. Nulla rispetto a chi fugge e in un contesto in cui il regime brucia i passaporti di chi prova a scappare e i vicini governi di Pakistan e Iran non interferiscono con la violenza portata avanti dal nuovo regime. Un regime che, malgrado le promesse, si scatena soprattutto contro la minoranza hazara, vista come pericolo per il potere dei clan pashtun. E la domanda retorica è semplice: per quale ragione verso chi fugge giustamente dall’Ucraina si aprono condizioni di accoglienza degne di essere chiamate tali mentre per chi arriva da una situazione altrettanto grave se non peggiore, si centellina come con un contagocce la possibilità di trovare riparo in Europa? Non è solo il colore della pelle a determinare tale disparità di trattamento o la religione professata quanto un cinico calcolo geopolitico per cui la vita delle donne e degli uomini afghani, come quella di chi arriva dai tanti conflitti dimenticati, ha un peso maggiore perché corrisponde ad interessi nazionali e sovrannazionali più importanti. E le linee guida del governo caduto saranno le stesse di quello che ad ottobre, dopo le elezioni, dovrebbe nascere? Difficile pensare il contrario. Popoli come quello afghano sembrano non doverci e non poterci riguardare ma non è retorico affermare che dalle loro condizioni di libertà dipenda anche il nostro di futuro. Che sia l’ultimo anno di oppressione bisogna allora dire, anche se è difficile ed utopico affermarlo. Che sia questo l’anno in cui le forti donne e i tanti uomini afghani che non vogliono vivere sotto il giogo talebano, possano riprendere nelle proprie mani e senza ulteriori interventi militari internazionali, il proprio destino. Un sogno forse, un sogno da dedicare a chi nel frattempo è nata/o in Europa, a chi sta cercando di costruirsi un futuro, a chi non si rassegna e non chiede, con fierezza e coraggio. Un coraggio da cui dovremmo imparare molto.

 


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