Morire di freddo o di lavoro

Morire di freddo o di lavoro

Stefano Galieni

Fermiamo gli orologi al 23 gennaio. I dati sono parziali e per difetto, forse alla fine dell’anno potremmo trarre un macabro bilancio. Ma fermiamoci a questi. Solo a Roma, dal novembre scorso, 11 persone senza fissa dimora risultano essere morte per cause connesse al freddo e al maltempo. Vite lasciate ai margini, inutili perché improduttive, scarti dell’umanità in cui la metropoli sembra poter fare a meno. Una goccia nel mare rispetto ai circa 9000 che nella capitale non hanno un posto in cui dormire. Per fortuna il governo della paura provvede aumentandone il numero con sgomberi, divieti, Daspo, misure “antidegrado”. Perché morire poveri nella città del turismo mondiale è solo degrado da affrontare da una parte con la repressione dall’altra con la carità privata, quella che fa diventare il diritto ad una abitazione un privilegio o una concessione. E guai ad occupare stabili in disuso, si è peggio che criminali. Ma se muore chi è di troppo muore anche chi è figlio di un inesistente boom economico raccontato dal governo come l’ennesima favola per creduloni. Certamente alcune aziende hanno ricominciato a produrre e hanno abbassato i costi dei loro prodotti, togliendo diritti a chi lavora, imponendo contratti della miseria o rendendo più facile le assunzioni al nero. Certamente c’è chi è tornato a risalire nei profitti e chi si è ritrovato in poco tempo commesse da esaurire in tempi immediati, cantieri da chiudere, tempi da rispettare ad ogni costo. Si, ad ogni costo, anche il costo della vita. Nel 2019, dati sempre per difetto, sono almeno 38 le persone che sono state uccise dal lavoro e nel lavoro – altro che morti bianche – della loro morte, di vite e nuclei familiari distrutti sono individuabili mandanti ed esecutori, che resteranno quasi certamente impuniti. Erano stati circa 800 nel 2018 – quando la ripresa era già cominciata – e di questo passo aumenteranno giorno dopo giorno. Le loro storie marginali, come marginale è il lavoro e la vita di chi lavora da tanti anni, finiranno per breve tempo nelle cronache locali, poi una cerimonia, magari con le autorità, un telegramma dal Quirinale e poi via, avanti un altro. Si leggono i modi in cui tanto i senza fissa dimora quanto i lavoratori hanno trovato la morte e ci si ritrova come in una nuova Spoon River 2.0 dove la rete ha sostituito le lapidi, dove c’è il tempo e lo spazio, a volte, per un post pietoso, ma non per una poesia. I cadaveri di Spoon River sono stati resi immortali, questi resteranno ricordo tangibile in chi li ha conosciuti, incontrati, in chi li associa ad un volto, una storia, una voce. Una memoria che fuori sarà presto sepolta da altra memoria, come le date di un calendario che rimuovono il giorno precedente, lo rimandano al passato che non torna. È un insulto associare due mondi in cui si muore apparentemente per ragioni diverse? Ad avviso di chi scrive no. Intanto no perché i tagli continui alle politiche sociali e di sostegno alla povertà (i nuovi “benefici” riguardano solo una parte di chi sta male, e il colpo di forbice sulle spese per evitare gli infortuni sul lavoro sono ennesima dimostrazione di come poco o nulla sia realmente cambiato. È piuttosto un insulto che la capitale d’Italia, di una delle più grandi potenze mondiali, non sia in grado, non si ponga il problema di garantire a tutte le persone che ci vivono il minimo per la sussistenza. Il gap fra l’elite dei privilegiati e la massa dei diseredati, a loro volta frantumata in gerarchie inamovibili che separano ad esempio chi ha un alloggio da chi dorme in macchina, da chi cerca un anfratto lungo il fiume o nei pressi della stazione è insormontabile. Due mondi che mai e poi mai potranno incontrarsi. E in mezzo la dura esistenza di chi lavora in condizioni di rischio perenne, sapendo che non c’è tempo per controllare un ponteggio, per verificare che una lastra di vetro non possa caderti addosso, che una frana non ti seppellisca vivo. Se vuoi restare fra i “privilegiati” che ancora hanno una casa, un mondo relazionale stabile, momenti di apparente serenità, non c’è tempo per assicurarsi che ci sia un domani. Si torna a casa stanchi, sporchi, spesso distrutti anche nella dignità ma almeno vivi e con la prospettiva di una busta paga per un mese ancora. I due mondi della subalternità, la loro frantumazione molecolare realizzata con leggi, impianti ideologici, cultura dominante divisiva, difficilmente si incontreranno. Ma se mai un giorno questo incontro dovesse accadere forse, i padroni del mondo, i proprietari del tempo e dello spazio altrui, dovranno avere paura. Una sinistra forte serve soprattutto a questo e a far pensare che un altro mondo sia ancora possibile.

 


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