La direttiva europea sul copyright. La montagna incantata resta in attesa

di Stefania Brai - 

 

La direttiva di riforma del copyright in discussione al Parlamento europeo è stata rinviata a settembre con una votazione che ha fatto registrare una quasi generale spaccatura di tutti gli schieramenti politici europei (e italiani).

Da un lato le pressioni fortissime delle lobby americane in difesa dei giganti del web (Google, Facebook, Youtube, eccetera), dall’altro gli editori e i produttori di contenuti. In questo clima e data la scadenza elettorale europea del 2019 è difficile che si riesca a trovare una soluzione adeguata per una normativa così complessa e che investe direttamente interessi enormi.

Ed è proprio in vista di questa scadenza politica così importante che penso sia necessario cominciare a riflettere e tentare di fare chiarezza su alcuni nodi di fondo che questa direttiva investe, lasciando stare per ora la discussione sulle soluzioni “tecniche”. Soluzioni che penso si possano trovare e condividere solo se si ha chiaro chi e cosa si sta difendendo.

Per prima cosa va chiarito che questa direttiva riguarda il copyright, non il diritto d’autore, come è stato erroneamente detto su quasi tutti i giornali italiani, e non solo per ignoranza della materia, a mio parere. Per chiarire: il primo, il copyright, riguarda il “proprietario” dell’opera (l’editore, il produttore, ecc.) mentre il secondo riguarda appunto “l’autore” dell’opera. Il primo esiste nei paesi anglosassoni, il secondo nel resto d’Europa.

Quello che è in gioco in realtà con questa direttiva sono da un lato gli interessi economici immensi delle multinazionali americane (il capitalismo digitale) i cui profitti derivano dalla pubblicità e dalla raccolta dati ottenuti tramite l’uso “gratuito” (nel senso di non pagato) di contenuti ideati e prodotti da altri, dall’altro la possibilità stessa di una informazione e di una produzione artistica e creativa libera e indipendente, insieme alla possibilità di esistenza e resistenza di una industria culturale diversificata. E questo ha creato una inedita convergenza di “interessi” tra i produttori di contenuti e gli autori che proprio in tema di diritto d’autore sono stati invece sempre su fronti opposti. Cerco di spiegare perché.

Dicevo che quella che è in gioco è la libertà di espressione, la possibilità materiale di produrre una informazione e una produzione artistica e creativa “indipendente”. Apparentemente siamo tutti d’accordo. Quando si tratta però di discutere delle politiche da mettere in atto iniziano le divergenze e le differenziazioni, spesso politicamente e culturalmente trasversali.

Questo può spiegare almeno in parte perché per esempio in Italia siano passate delle politiche per (direi contro) la cultura senza una reale opposizione, né politica né tantomeno culturale. Mi riferisco per esempio alla legge che ha portato la Rai sotto il diretto controllo del governo e al fatto che sia diventato senso comune anche a sinistra che il servizio pubblico radiotelevisivo, cioè la più grande industria culturale italiana, sia una azienda come tutte le altre e come tutte le altre debba sottostare alle leggi di mercato. Come se tra la produzione di pomodori e la produzione di senso non ci fosse alcuna differenza.

Mi riferisco al fatto che senza battaglie si è accettata la fine dei finanziamenti pubblici all’editoria indipendente e, nei fatti, alla produzione culturale e artistica. Si è accettata cioè l’idea vincente del mercato come regolatore di tutto, si è fatta passare nei fatti la mercificazione delle persone, dei diritti, della cultura e della conoscenza.

Allora, e per tornare alla direttiva: come può “esistere” o perlomeno “resistere” una società indipendente di produzione di contenuti (informazione, cinema, musica, letteratura, eccetera), che da un lato non riceve un sostegno pubblico che la liberi dalle logiche e dai meccanismi di mercato, e dall’altro vede annullati i possibili ricavi dalla vendita a causa della diffusione gratuita sulla rete delle opere che produce? Torniamo al mecenatismo, come qualcuno tempo fa propose o ci battiamo perché le multinazionali americane paghino i produttori per l’uso in rete di quei contenuti che tanti profitti rendono loro? Anche così si sostiene una industria culturale autonoma e diversificata, anche così si difende la libertà di espressione.

E la si difende anche proteggendo il diritto d’autore, quello morale e quello economico.

Proteggere il diritto morale vuol dire impedire che un’opera, una produzione artistica venga tagliata, snaturata, spezzettata e utilizzata senza il consenso dell’autore (come invece avviene negli Stati Uniti). Vuole dire cioè difendere non solo l’originalità e l’integrità di un’opera dell’ingegno, ma vuol dire – questo sì – difendere il diritto alla circolazione della conoscenza.

Difendere il compenso economico vuol dire riconoscere il lavoro creativo come lavoro e quindi il diritto a ricevere un “salario”, spesso l’unico che un autore percepisca. Uno scrittore, un poeta, un musicista nella maggior parte dei casi non ricevono alcun compenso per il lavoro che producono, anzi spesso anticipano alcuni costi di produzione e di distribuzione. L’unico “compenso” allora è quello che può venire dalle “vendite” sul famoso mercato, quando ci sono. Cioè dal diritto d’autore, che diventa quindi quello che può garantire la libertà d’espressione e l’indipendenza (economica e quindi creativa) di un autore. O vogliamo solo Checco Zalone e solo la produzione vincente sul mercato?

Quando si parla di diritto d’autore lo si contrappone – in particolare a sinistra – alla libertà della circolazione dei saperi. Libertà della circolazione dei saperi che è l’argomentazione sostenuta non solo dai cosiddetti “mediattivisti democratici” ma guarda caso dalle stesse multinazionali del web.

Chiedere che il “sapere e la conoscenza” che gli artisti e gli autori producono con le loro opere debba circolare “liberamente” e cioè gratuitamente è come se per tutelare il diritto alle studio si chiedesse ai docenti universitari (che spesso tanto si battono contro il diritto d’autore) di insegnare a titolo gratuito.

Dietro tutto questo c’è, spesso a sinistra, l’idea della rete come paradiso in terra, come luogo dove non agiscono logiche e interessi economici e di mercato, luogo da cui nessuno trae profitto, luogo della totale libertà. Luogo che quindi deve essere senza regole, libero da lacci e lacciuoli.

Dietro tutto questo c’è, purtroppo spesso anche a sinistra, l’idea che il lavoro artistico e creativo non sia in realtà un lavoro e che quindi a quei lavoratori non vadano riconosciuti né un compenso né i diritti di tutti gli altri.

E dietro tutto questo c’è, purtroppo spesso anche a sinistra, l’idea che in un periodo di grave crisi economica la cultura sia in realtà un lusso, un di più non necessario. Ma è proprio in un momento così difficile che va a mio parere con maggiore forza riaffermato che la cultura è un diritto: cultura come strumento di formazione di una coscienza critica, di conoscenza della realtà, di crescita individuale e collettiva, quindi elemento essenziale di “uguaglianza sociale”. Questo diritto può essere garantito solo dallo Stato, con investimenti finalizzati all’utile culturale e dunque sociale e con il riconoscimento dei diritti individuali e collettivi.

E ancora dietro tutto questo c’è spesso e purtroppo anche a sinistra l’idea che la sovrastruttura non abbia alcuna incidenza sulla struttura. Che come diceva il titolo di un vecchio articolo di Alberto Abruzzese su Rinascita, non c’è differenza tra La Montagna incantata di Thomas Mann e Grand Hotel (per i giovani Grand Hotel era un fotoromanzo).  Con buona pace di Gramsci.

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