
La forza creativa della Costituzione
Pubblicato il 10 ott 2017
di Paolo Ciofi
L’intervento di Paolo Ciofi è tratto sul n. 4-5/2017 della rivista Critica Marxista. Torniamo a segnalare il suo ultimo libro “Costituzione e rivoluzione. La crisi, il lavoro, la sinistra“.
Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l’applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l’assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un’oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all’attenzione del dibattito pubblico dall’Assemblea per la democrazia e l’uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso.
In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo. Anche perché, come essi stessi sottolineano, l’economia è una disciplina in cui «l’elemento politico ha un peso importante e perfino determinante». Andiamo a vedere.
Articolo 3
Muovendo dalla premessa che «il lavoro costituisce il valore e l’interesse fondamentale sottostante all’ordinamento», l’economista e il giurista sostengono che tale principio è «la chiave di volta dell’intero ordinamento economico». Quindi — argomentano — la Costituzione italiana respinge l’idea, tipicamente borghese, che dalla visione del lavoro come «forza creatrice soprannaturale» pretende di derivare il principio «secondo cui l’uomo che non ha altra proprietà, all’infuori della sua forza lavoro, dev’essere asservito agli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro».
In altri termini, essendo stato cancellato il principio della proprietà sacra e inviolabile ancora vigente nello Statuto albertino, su cui si è retta la dittatura fascista che aveva schiavizzato i lavoratori, ciò significa che la Repubblica democratica fondata sul lavoro, nel conflitto che caratterizza la natura stessa del capitale in quanto rapporto sociale, riconosce la supremazia del principio lavoristico sul principio capitalistico. Possiamo dire, senza cadere nella retorica inconcludente di cui oggi si abusa, che si tratta effettivamente di una conquista di portata storica, poiché il pilastro che sostiene il patto tra gli italiani non è più il cittadino proprietario, bensì il cittadino lavoratore. Colui il quale per vivere —uomo o donna, finalmente anch’essa titolare del diritto di voto — deve vendere la propria forza lavoro materiale e immateriale ai detentori dei mezzi di produzione che la usano per ottenere un profitto.
Decisivo è il secondo comma dell’articolo 3, che va oltre l’uguaglianza di fronte alla legge, pure essenziale, e si misura con il tema cruciale, oggi di fatto ignorato, dell’uguaglianza sostanziale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Dove risulta che non è sufficiente agire nella sfera in cui si distribuisce il reddito, ma occorre intervenire nel rapporto di produzione capitalistico, vale a dire nel rapporto di proprietà, come con chiarezza prescrivono gli articoli 42, 43, 44.
Lunghini e Cavallaro sottolineano che in una società capitalistica divisa in classi come la nostra, il conflitto distributivo tra lavoratori, capitalisti e rentiers dipende da molteplici fattori, interni ed esterni alla produzione e, tra questi, dai concreti rapporti di forza tra le classi. «Sicché l’unica cosa che, semplicemente, si può dire è che i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari siano bassi o alti». Di cosa parliamo, se non della contraddizione tipica del modo di produzione capitalistico, che il capitale, in quanto rapporto sociale, costantemente ha tentato e tenta in vario modo di superare?
«Proprio perciò — chiariscono i due autori — l’art. 3, secondo comma, della Costituzione si può considerare, da un lato, come presa d’atto che, in una società capitalistica, il “non intervento” dello Stato equivale a intervento a favore della classe dominante, cioè al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è più debole, e dall’altro lato come manifestazione del convincimento che la struttura socio-economica propria della società capitalistica debba essere superata in favore di un diverso modello di società, in cui i principi regolatori del modo di produzione capitalistico vengano temperati e affiancati da altri».
È la questione cruciale posta dalla Costituzione, che delinea un progetto di nuova società da conquistare. Ed è esattamente per questo motivo che la Costituzione antifascista, subito dopo la sua approvazione, è diventata terreno di lotta tra forze del rinnovamento e forze della conservazione. Un progetto che oggi, travolti come siamo da una crisi di fondo del modo di produzione capitalistico — non solo economica e sociale, ma anche politica e culturale — diventa particolarmente attuale per la sua forza innovativa e per la sua capacità di aggregazione, peraltro confermate dal referendum del 4 dicembre 2016.
Economia mista
Quali sono, dunque, dentro questa cornice in sintesi delineata, gli indirizzi programmatici in materia economica che i due autori ci propongono? L’obiettivo fondamentale che la Costituzione persegue, sostengono Lunghini e Cavallaro, è quello della piena occupazione, come è chiaro dalla disposizione dell’articolo 4. Dove si afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Da cui deriva la necessità —precisano —di orientare l’attività dei pubblici poteri verso il perseguimento di questo fine: sia mobilitando con adeguati progetti di investimento la spesa pubblica e privata, sia promuovendo l’acquisizione da parte dei lavoratori delle conoscenze necessarie per il loro impiego.
Il lavoro, quindi, come diritto, ma anche come «dovere», da cui emerge, secondo gli autori, l’incostituzionalità del reddito di cittadinanza, che non può essere sostitutivo di una politica rivolta all’obiettivo della piena occupazione. Altra cosa — viene da osservare — sarebbero misure temporanee di sostegno del reddito all’interno di un piano pluriennale per il pieno impiego. Resta comunque il fatto, e questo è un indirizzo fondamentale per perseguire l’obiettivo della piena occupazione, che nell’impianto costituzionale l’interesse pubblico generale è destinato a prevalere sull’interesse privato. Di conseguenza, «l’esigenza di un governo pubblico dello sviluppo economico comporta l’abbandono del primato dell’iniziativa economica privata nelle scelte concernenti l’allocazione delle risorse». Secondo gli autori, si tratta di un’acquisizione costituzionale da cui non si può prescindere.
Stanno dentro questa logica le disposizioni dell’articolo 41, secondo cui l’iniziativa privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». In pari tempo risulta evidente che l’ultimo comma dello stesso articolo, nell’affidare alla legge il compito di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», non comporta l’instaurazione di uno statalismo burocratico e primitivo. Giacché, come Lunghini e Cavallaro fanno notare, non viene cancellato il mercato in quanto misuratore di efficienza né si propone una pianificazione integrale della vita economica. Si fissano invece le coordinate di un’economia mista e, negli articoli successivi, le disposizioni indispensabili alla scelta di «funzionalizzare la proprietà privata dei mezzi di produzione al conseguimento dell’utilità sociale», per dirla con le parole dei nostri autori.
Seguendo questi indirizzi, nella loro visione assume particolare rilievo il tema del credito e del risparmio, in connessione con le politiche fiscali. Le norme dell’articolo 47, con le quali si stabilisce di tutelare il risparmio in tutte le sue forme e di disciplinare e controllare l’esercizio del credito, stanno a si gnificare, né più né meno, che occorre «assoggettare al controllo pubblico la liquidità monetaria, nella sua duplice forma di risparmio e di credito». Ciò allo scopo di orientare il risparmio medesimo verso quelle forme di investimento che appaiono più consone alle finalità sociali cui deve essere ispirata l’attività economica. Infatti, «nel disegno della Costituzione — sostengono Lunghini e Cavallaro — il sistema bancario nel suo complesso non è altro che uno strumento per la gestione monetaria della programmazione pubblica».
Anche in materia di fiscalità il punto di vista dell’economista e del giurista è molto netto. Stabilito che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», come prescrive il comma 1 dell’articolo 53, secondo loro «l’obiettivo principale dell’imposizione fiscale non è più quello di concorrere al finanziamento delle spese pubbliche per sanità, previdenza, infrastrutture eccetera, ma diventa quello di regolare la domanda del settore privato dell’economia, così che il settore pubblico possa variare la propria spesa (in avanzo o in disavanzo) in modo da conseguire non solo la piena occupazione, ma anche una struttura della produzione orientata secondo le priorità decise politicamente e condivise socialmente». Del resto, nello stesso articolo 53, il principio della progressività dell’imposta, in base al quale l’aliquota aumenta con l’aumentare dell’imponibile operando una redistribuzione del reddito dai ricchi ai po veri, favorisce l’espansione della domanda effettiva. Con ricadute positive sui livelli di reddito e di occupazione, giacché la propensione marginale al consumo dei più ricchi è inferiore a quella dei meno ricchi.
Economia e democrazia
Non c’è dubbio che la lettura degli indirizzi economici proposta da Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro meriti grande attenzione, in particolare alla luce della crisi senza precedenti nella quale stiamo vivendo. Certamente un contributo di rilievo nella ricerca di una politica economica e sociale diversa, da praticare in Italia e in Europa, che rende necessaria la chiarificazione di alcuni aspetti di merito. Come pure delle condizioni politiche in assenza delle quali il disegno costituzionale, soprattutto per quel che riguarda gli aspetti economici, rischia di restare un’irraggiungibile utopia.
Quanto ai contenuti, non appare sufficientemente nitida a mio parere, negli indirizzi programmatici dei due autori, la relazione che intercorre tra economia e società, secondo cui in Costituzione gli interventi economici debbono essere finalizzati a obiettivi chiari e distinti, non al profitto per il profitto. Innanzitutto, alla piena occupazione, non c’è dubbio. Ma anche alla fitta rete dei diritti sociali, dei quali lo stesso diritto al lavoro fa parte, che invece restano piuttosto in ombra nella loro portata innovativa generale. Esattamente da questi nuovi traguardi sociali, anima e corpo di una civiltà più avanzata, i padri costituenti hanno fatto discendere le scelte in materia economica attinenti alle caratteristiche e alla qualità dell’impresa e della proprietà, come del resto risulta dalla stessa sequenza del Titolo III. Non il contrario. Se la priorità, invece, viene data all’economia e all’equilibrio dei fattori, si corre rischio di infilarsi in un tunnel senza via d’uscita, e di mettere in discussione le premesse stesse da cui gli autori hanno preso le mosse.
I padri costituenti non si proponevano di applicare, o di perfezionare, la dottrina economica di John Maynard Keynes, alla quale si richiamano con costanza i nostri autori, bensì di delineare un progetto di nuova società per dare soluzione a impellenti bisogni umani intervenendo nei rapporti di produzione capitalistici: con l’obiettivo di porre l’economia al servizio degli uomini e delle donne, non viceversa. Ben sapendo, avendo vissuto la tragedia della dittatura fascista, che se non condizioni, non limiti e non orienti il loro potere, e non fai crescere e progredire la democrazia anche nei rapporti di produzione, il dominio delle grandi concentrazioni economiche e finanziarie produrrà effetti devastanti sull’intera società. La democrazia sarà attaccata e limitata, svuotata e disgregata. Al limite, soppressa. Come è avvenuto con il fascismo, un regime dittatoriale di massa.
In merito agli aspetti politici, Lunghini e Cavallaro si appellano in modo pressante all’intervento dello Stato, ossia all’intervento pubblico, perché il mercato, abbando nato a se stesso, non precipiti nell’anarchia e il sistema acquisti un equilibrio. Ma cos’è oggi lo Stato nazionale, peraltro largamente svuotato dalle istituzioni sovranazionali, se non un organismo burocratico privo di rappresentanza e di partecipazione popolare, trasformato in agenzia a disposizione dei poteri economico-finanziari dominanti? E come è possibile, in tale condizione, contrastare questi poteri e limitarne il dominio politico, se sono essi stessi a dettare le scelte politiche e le regole istituzionali, direttamente o per interposta persona, in Italia, in Europa e nel mondo? È evidente che non si può porre correttamente il tema dell’attuazione del progetto costituzionale se nello stesso tempo non si combatte tenacemente, anche sul piano culturale, per mettere in campo una forza politica in grado di organizzare e rappresentare le lavoratrici e i lavoratori del nostro tempo.
Alla concentrazione del potere economico corrisponde lo svuotamento della democrazia. Questa è una “legge” ferrea del capitale, che oggi osserviamo a occhio nudo soprattutto nel Paese guida della democrazia occidentale, dove tutto il potere è concentrato nelle mani di monopoli privati della produzione e della comunicazione, i quali hanno instaurato una dittatura delle minoranze e si combattono ferocemente tra loro sul terreno politico. Il sistema democratico progettato dalla nostra Costituzione è tutt’altra cosa. Economia e democrazia, società capitalistica e nuova società, capitalismo e socialismo. Questa è la diade che la Costituzione del 1948 oggi ci propone, e per questo si manifesta in tutta la sua straordinaria attualità e nel valore universale dei suoi principi.
Una costruzione organica e coerente, sia nell’impianto logico che nella visione storico-politica. Nella quale, dal fondamento del lavoro che concretamente ridefinisce i principi di libertà e uguaglianza, fa emergere la fitta trama dei diritti sociali. In assenza dei quali il pieno sviluppo della persona umana non si realizza, e i principi di libertà e uguaglianza restano una declamazione vuota. Ma la Costituzione non si limita a indicare l’insieme dei diritti indispensabili all’affermazione della libertà dei lavoratori e allo sviluppo di ogni persona umana nel patto che unisce gli italiani. Prescrive anche i doveri e le condizioni economiche e politiche perché il patto costituzionale si possa inverare nella vita reale delle donne e degli uomini del nostro Paese, e nei conflitti tra capitale e lavoro che connotano la società in cui viviamo. Fino a prevedere l’ascesa delle lavoratrici e dei lavoratori politicamente organizzati alla direzione del Paese.
Universalità dei diritti
La linea costituzionale è molto chiara. Per dare attuazione ai diritti non basta che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva come prescrive il già ricordato articolo 53, sebbene questa sia una condizione dalla quale non si può prescindere. Occorrono almeno altre tre condizioni: a) che l’iniziativa economica privata non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41); b) che alla proprietà privata, pur libera, sia posto un limite che ne assicuri la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42); c) che sia possibile trasferire allo Stato, a enti pubblici o «a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti energia o a situazioni di monopolio (art. 43).
Viene sancito in tal modo il principio fondamentale del pluralismo nelle forme e nel diritto di proprietà, chiaramente in contrasto con il totalitarismo dilagante della proprietà capitalistica privata. Un principio che trova conferma nei successivi articoli, riguardanti i limiti alla proprietà terriera e il razionale uso del suolo, la funzione sociale della cooperazione, il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese. E infine la tutela del risparmio e il controllo del credito, che nella visione di Luigi Cavallaio e di Giorgio Lunghini assumono un valore strategico.
In sintesi possiamo dire che il fondamento del lavoro, in quanto ridefinisce il contenuto della libertà e dell’uguaglianza, è anche il riferimento ineludibile per la ridefinizione e la finalizzazione della proprietà, nonché per il controllo e il governo del mercato. E qui emerge in tutta la sua portata innovativa l’aspetto politico del problema, poiché i padri costituenti hanno operato una rottura con il passato del fascismo senza voltarsi indietro verso lo Stato liberale. Ai lavoratori e alle lavoratrici vengono riconosciuti il diritto di sciopero e la libertà sindacale (artt. 39 e 40), senza i quali la loro libertà sarebbe amputata. Ma le lavoratrici e i lavoratori conquistano anche la possibilità, attraverso il partito politico, di lottare nella società e nelle istituzioni, e di farsi classe dirigente «associandosi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49).
Un passaggio ineludibile, in assenza del quale l’intera costruzione costituzionale sarebbe solo una dichiarazione di buone intenzioni che galleggia sulle nostre teste. Il progetto di una Repubblica democratica fondata sul lavoro, che non guarda al passato e si spinge a introdurre elementi di socialismo, come è stato giustamente osservato, non può essere scisso dalla partecipazione e dal protagonismo della classe lavoratrice. Per questo i costituenti avevano ben chiaro il nesso organico che lega i principi e i diritti costituzionali alla presenza politica organizzata in partiti dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma cosa può accadere se la politica degrada a mera gestione del potere? Se il mondo del lavoro viene di fatto espulso dal sistema politico, senza organizzazione, rappresentanza e rappresentazione nella società, nel parlamento, nella comunicazione?
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro nella quale i lavoratori e le lavoratrici non hanno alcun peso politico, e sono esclusi dalle decisioni che riguardano la loro stessa vita: questo è il problema drammaticamente aperto del nostro tempo. Uno stato delle cose che sta logorando le fondamenta democratiche della Repubblica, e ci spinge verso il ridimensionamento della nostra economia, la disgregazione della società, la subalternità gregaria della cultura e dei media. Troppo pessimismo? No. Constatazione elementare dello stato dei fatti, ai quali viene imposta la maschera di un pensiero dominante che cancella la realtà spesso insostenibile della condizione umana e del conflitto tra le classi, oggi esasperato dalla dittatura del capitale sul lavoro e sull’intera società. Uno stato delle cose ancora più preoccupante perché in discussione sono principi e diritti della nostra Costituzione che hanno valore universale e costituiscono una tavola di riferimento su cui si potrebbe promuovere un movimento dei subalterni e degli sfruttati in Europa e non solo, superando frammentazioni, disgregazioni e guerre tra poveri.
Valore universale, nelle condizioni del mondo di oggi, hanno i principi fissati nei citati articoli 3 e 4 sull’uguaglianza sostanziale e sulle condizioni da rimuovere per rendere effettivo il diritto al lavoro. Continuando con gli esempi si può citare anche l’articolo 9, dove si stabilisce che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, e di tutelare l’ambiente e il patrimonio storico e artistico. I pensieri lunghi ed elevati dei costituenti si riscontrano anche nel principio dell’articolo 11, che ripudia la guerra in quanto «strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali».
Ma hanno valore universale anche il diritto a una retribuzione paritaria per uomini e donne a parità di condizioni lavorative, proporzionata alla quantità e qualità di lavoro, e comunque sufficiente ad assicurare «un’esistenza libera e dignitosa». Nonché il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, alla tutela della salute, all’assistenza, alla pensione. E naturalmente all’istruzione, che è fattore costitutivo della libertà della persona. Non si può proclamare la libertà e l’uguaglianza tra gli esseri umani se all’universalità dei diritti civili non corrisponde l’universalità dei diritti sociali.
Oltre Keynes
Nell’insieme, dall’impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va ben al di là delle ricette di Keynes, spesso geniali per equilibrare il capitalismo ma non per rinnovare il socialismo, che è affondato nel compromesso socialdemocratico e nel riformismo senza riforme. Non di un percorso a ritroso quindi si tratta, verso esperienze già consumate e concluse, bensì di un avanzamento che guarda al futuro, verso una civiltà più avanzata che potremmo definire nuovo socialismo. Non è convincente presentare la Costituzione e la lotta per la sua attuazione come una rivincita di Keynes nel corpo a corpo con ilneoliberismo. In realtà la nostra Carta costituzionale è il risultato di un’operazione politico-culturale ben più complessa e più avanzata, che ha prodotto un’architettura universale unica, e del tutto originale, senza riscontri in altre Costituzioni europee.
Non è inutile ricordare che dai principi liberali, sostenuti allora da azionisti, repubblicani e liberali democratici, la Costituzione italiana assume la conquista fondamentale dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria oggi riverniciata dal moderno mercatismo dei padroni della rete, che camuffa la proprietà capitalistica fino a farla diventare una divinità da adorare. Si è trattato di una scelta cruciale, sulla quale nei lavori della Costituente si è determinata una convergenza decisiva tra due correnti di pensiero che alla Carta fondamentale hanno dato un’impronta inedita, ancora più significativa e rilevante con il trascorrere del tempo. L’una d’ispirazione marxista, cui allora facevano riferimento il Pci e il Psi, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale, di cui il principale esponente nella Dc era Giuseppe Dossetti.
Un solidarismo di origine diversa — osservava Palmiro Togliatti, protagonista assoluto della costruzione dell’impianto costituzionale, in particolare dei principi fondamentali e del Titolo III della prima parte — che però arriva «a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi» in materia di diritti sociali, «della nuova concezione del mondo economico» «fondata sul principio della solidarietà e del prevalere del le forze del lavoro», «dei limiti del diritto di proprietà». Ma anche sul tema della dignità della persona —aggiungeva — si è determinato un altro punto di convergenza, poiché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».
Proprio la convergenza di culture diverse, sotto il segno non di un inciucio, bensì di una complessa sintesi di portata storica, ha consentito di delineare un grandioso disegno innovativo, sicuramente la vetta più alta raggiunta da noi italiani nel difficile e contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza. Mi si permetta di citare dal mio Costituzione e rivoluzione:«La proprietà distribuita, limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali organizzati, promuovono la libertà come padronanza del proprio destino, non come assenza di regole, e l’uguaglianza come giustizia sociale, non come cancellazione dell’individualità e delle differenze. Il pluralismo nelle forme della proprietà, contrapposto à totalitarismo della proprietà privata capitalistica, rende bene l’idea di un percorso aperto, di un progetto riformatore in progress configurato da una Costituzione programmatica che delinea una trasformazione del sistema fino à possibile superamento dei rapporti di produzione capitalistici.»
Come confermano i nostri autori nelbrano citato all’inizio, l’articolo 3,secondo comma, esprime il convincimento che «la struttura socio-economica propria della società capitalistica debba essere superata in favore di un diverso modello di società», ma il keynesismo, espressione di un pensiero liberale alto, non si proponeva di innovare il socialismo bensì di consolidare il capitalismo, e non ha inciso nei rapporti di proprietà, che si è ulteriormente concentrata. Nelle sue applicazioni pratiche, poi, si è assestato sulla linea del governo politico del capitale nel tentativo di condizionarlo, utilizzando a questo fine la presenza di un movimento operaio sindacalmente e politicamente organizzato. Ma le contraddizioni del capitale non sono state superate, e anzi si sono ripresentate in tutta la loro violenza e drammaticità, favorendo l’offensiva liberista guidata da Margaret Thatcher e Ronald Reagan.
La vittoria del capitale nella lotta di classe contro il lavoro è stata talmente schiacciante che il riformismo è diventato un sottoprodotto del liberismo, e la socialdemocrazia si è trasformata in un’officina che fornisce pezzi di ricambio alla macchina del capitalismo. Perciò è necessario un taglio netto con il passato. Non solo con il liberismo, ma anche con il keynesismo, oggi irripetibile perché sono cambiate le condizioni storiche, e perché non è ragionevole pensare di poter tornare à capitalismo “buono” che ha generato quello “cattivo” dei nostri giorni.
È arrivato il momento di prendere atto che il compromesso socialdemocratico si è definitivamente concluso con una resa senza condizioni al capitale. Ed è un inutile e perdente esercizio continuare a pestare l’acqua nel mortaio del riformismo, secondo il vecchio riformista Sergio Cofferati una parola malata, che ha tradotto in termini politici le regole economiche imposte dai mercati finanziari globalizzati. Vogliamo resuscitare un morto, o riappropriarci fino in fondo della cultura della Costituzione, che ci indica la via di un possibile cambiamento, ripensando i presupposti e i fondamenti di un nuovo socialismo?
Una civiltà più avanzata
Pensare una civiltà più avanzata, retta dai principi di uguaglianza, libertà, giustizia sociale, e lottare concretamente per questo obiettivo, non è un’utopia irraggiungibile. È la rivoluzione del nostro tempo. Che dovrebbe attenuare e colmare lo scarto, sempre più evidente e drammatico, tra le potenzialità della rivoluzione scientifica e tecnologica in atto, di cui la digitalizzazione della produzione e della comunicazione è solo un aspetto, e la concentrazione della proprietà e della ricchezza in poche mani, che fa ostacolo allo sviluppo sociale e civile dell’umanità e alla salvaguardia del pianeta.
Il modo di lavorare e di produrre, di vivere e di pensare è un processo di cambiamento perenne, nel quale ci sarebbe bisogno di una classe lavoratrice sempre più esperta, qualificata e istruita, capace di padroneggiare processi globali che hanno già cambiato la nozione tradizionale del tempo e dello spazio. Ma oggi accade il contrario. Le con tinue conquiste della scienza e della tecnica consentirebbero a tutte e a tutti di ridurre i tempi di lavoro e di elevare la qualità della vita, di tutelare l’ambiente e di padroneggiare con maggiore sicurezza il proprio destino. Ma nelle mani di un pugno di proprietari universali che competono tra loro per il controllo del mondo, accrescendo i pericoli di guerra, accade il contrario: intensificazione dello sfruttamento e aumento delle disuguaglianze, disgregazione della società, riscaldamento globale e desertificazione della terra con enormi masse umane che migrano in cerca di lavoro e sicurezza.
Se le confrontiamo con la socialità potenziale della rete e con la potenza scientifica e tecnologica della forza lavoro del nostro tempo, che si esprime soprattutto nelle capacità comunicative e relazionali a livello planetario, le forme attuali della proprietà capitalistica sui mezzi di produzione e di comunicazione appaiono addirittura barbariche. Non solo i settori produttivi e di servizio avanzati diventano sempre più incompatibili con le attuali forme della proprietà e dell’appropriazione. Siamo arrivati al punto che una banca privata “compra” con due euro altre due banche sull’orlo del fallimento scaricando i costi sulla collettività nazionale. E siccome 1’80 per cento delle entrate fiscali provengono dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, non è difficile calcolare chi ci guadagna e chi ci perde. Ma non è la prima volta che i poveri salvano i ricchi.
Anche i beni naturali, come l’acqua e l’aria, sono entrati in contrasto con la proprietà capitalistica e chiedono il suo superamento. In definitiva, diventa sempre più pressante l’esigenza di proprietà pubbliche, sociali e comunitarie, come la Costituzione prevede. È su questo nodo, stringente e decisivo, che occorre intervenire lottando perché l’economia e la società siano organizzate secondo un ordine nuovo, orientato al soddisfacimento dei bisogni umani e al pieno sviluppo delle persone. Ecco perché la sinistra dovrebbe impugnare la bandiera della Costituzione e della sua attuazione con un programma chiaro, che compia una precisa scelta di campo: dalla parte del lavoro, non del capitale.
Una scelta che consente di portare in Europa una linea effettivamente alternativa non solo (e non tanto) alle politiche cosiddette di austerità, ma all’intera costruzione europea fondata sugli interessi dominanti del capitale finanziario. Non l’Europa del capitale dunque, ma neanche il rinculo nazionalistico nell’Europa delle patrie, che spingerebbe inevitabilmente verso la concorrenza spietata e la guerra tra poveri. Bensì l’Europa dei popoli e dei lavoratori: che può nascere solo, per quel che riguarda noi italiani, portando in Europa la nostra Costituzione come utile contributo alla costruzione di un nuovo internazionalismo del lavoro, e al tempo stesso promuovendo in Italia un ampio movimento per l’applicazione dei principi costituzionali.
Se non si compie in modo chiaro e netto la scelta di impugnare la bandiera della Costituzione e dell’attua zione dei suoi principi e diritti mettendo al centro il lavoro, raccogliendo e dando sbocco positivo allo stato di generale malessere che attraversa strati sempre più ampi della società, la prospettiva è quella di un ulteriore degrado, di una crisi irreversibile della democrazia, dell’ascesa di una destra sempre più arrogante e totalitaria. Molti segnali sono già presenti al riguardo. Di fronte al vuoto di rappresentanza e di rappresentazione del lavoro che apre spazi enormi alle spinte nazionalistiche e fascistiche, la priorità assoluta, se vogliamo guardare in faccia la realtà, è dunque quella di colmare questo vuoto. Di impegnarsi pancia a terra, buttando à macero vecchie idee, vecchie storie e vecchie scorie, immergendosi nelle contraddizioni reali del mondo che ci circonda in cui vivono le donne e gli uomini in carne e ossa, per dare forma a un partito politico che renda protagoniste, oggi, le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare, e le aiuti a farsi classe dirigente.
La forza della nostra Carta fondamentale non sta solo nella capacità di unire la stragrande maggioranza degli italiani. Sta anche, forse soprattutto, nella capacità di volgere lo sguardo al futuro affermando una visione dinamica dell’uguaglianza e della libertà, indispensabile per poter parlare ai giovani. La Costituzione non abolisce la proprietà. Ma, come fa notare Stefano Rodotà, del quale sentiremo la mancanza per la sua dedizione alla causa dell’Italia democratica e progressista, con la Costituzione «si è ormai fuori dalla logica liberista» giacché la proprietà privata (il terribile diritto evocato da Cesare Beccaria) «è ormai conformata in maniera tale» da permettere «la realizzazione di finalità sociali».
In altri termini, la forza creatrice della Costituzione ci dice che l’uguaglianza non si riduce alle pari opportunità offerte dalle condizioni di partenza. Come mette in evidenza lo stesso Rodotà, «l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta ad affermare il pari diritto di ciascuno, se le condizioni di partenza creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione». Una conferma che le innovazioni scientifiche e tecnologiche reclamano quell’uguaglianza sostanziale, connessa alle condizioni economiche e culturali dei cittadini, che la Costituzione indica, tutelando in particolare i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, e offrendo loro la possibilità di allargare il campo all’affermazione di diritti nuovi. Un’apertura straordinaria sul futuro, che conferma la lungimiranza dei padri costituenti.
Per cui in conclusione possiamo dire che se la priorità assoluta è organizzare le lavoratrici e i lavoratori, e costruire insieme a loro lo strumento politico indispensabile per applicare la Costituzione, d’altra parte la lotta per attuare i diritti costituzionali e conquistarne nuovi è anche il mezzo per dare forma a un partito che li organizzi e li rappresenti. In ogni caso è arrivato il tempo di ripensare il socialismo per uscire dalla prigione del capitalismo. Anche per questo serve la Costituzione.
Riferimenti bibliografici
Ciofi P. (2017), Costituzione e rivoluzione. La crisi, il lavoro, la sinistra, Roma, Editori Riuniti.
Keynes J.M. (2010), Laissez faine e comunismo, a cura di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro, Roma, DeriveApprodi.
Keynes J.M. (2010), Possibilità economiche per i nostri nipoti seguito da Guido Rossi, Possibilità economiche peri nostri nipoti?, Milano, Adelphi.
Marx K., Engels F. (1983), Manifesto del partito comunista, Roma, Editori Riuniti.
Mortati C. (111975), «La Repubblica è fondata sul lavoro», in Politica del diritto.
Rodotà S. (2013), Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e sui beni comuni, Bologna, Il Mulino.
Togliatti P. (1987), «Sul progetto di Costituzione», in Discorsi Parlamentari I, Camera dei Deputati, Roma.
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