La rivolta delle città «libere dal Ceta»

La rivolta delle città «libere dal Ceta»


Contro il trattato di libero scambio Ue-Canada, che subordina agli interessi economici dei commercianti le tutele del lavoro, della salute e dell’ambiente, si sono opposti cinque mila comuni europei e molte regioni

 

di Monica Di Sisto*

Una cartolina da Roma, entrata il 21 settembre, con il voto quasi unanime dell’Assemblea Capitolina, tra le circa 5mila città e Regioni europee che si sono dichiarate con un atto ufficiale «libere dal Ceta». È così che l’Italia dei movimenti che si oppongono alle liberalizzazioni commerciali selvagge, ha salutato l’entrata in vigore provvisoria del trattato Ue-Canada.

«Una buona notizia, perché abolisce il 99 per cento delle tariffe doganali canadesi con picchi in alcuni dei settori di punta del nostro export», rivendica il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Peccato che la sua voce si perda in un coro di contrarietà, a partire da quella della segretaria della Cgil Susanna Camusso che ha invece chiesto al Senato, chiamato alla ratifica del trattato a partire dal 26 settembre prossimo, di fermarsi «e di promuovere i necessari approfondimenti, attendendo la verifica del suo funzionamento provvisorio, che siamo sicuri suggerirà di respingere questo trattato per contribuire a un commercio effettivamente equo e sostenibile».

Il Ceta, infatti, prima di entrare completamente in vigore deve essere votato dai due rami di tutti i Parlamenti dell’Unione perché i movimenti sono riusciti a dimostrare che è un trattato di natura mista: fatto cioè di misure commerciali, decise dall’Europa, ma anche di standard e regole che riguardano l’ambiente, la salute, il lavoro, la qualità di prodotti e servizi che non possono essere affrontati senza il benestare dei Parlamenti nazionali.

Il Ceta va a costituire una ventina di comitati euro-canadesi, i cui membri verranno decisi senza alcun coinvolgimento di noi cittadini, che su richiesta di imprese delle due parti potranno intervenire in autonomia introducendo cambiamenti nella produzione, distribuzione e progettazione di merci e servizi in modo da renderli più facili da commerciare. Se per questo saranno, però, meno amici dell’ambiente o dei nostri diritti nulla importa. Lo spiega il report curato da Greenpeace insieme all’ong americana Iatp, che punta l’indice contro gli «standard europei sotto attacco».

Se il Ceta entrasse in vigore a pieno titolo, introducendo il sistema di ricorso arbitrale (il cosiddetto Investment Court System o Ics) che consentirà agli investitori di citare quegli Stati le cui regole, a proprio giudizio, siano ingiustificatamente restrittive del commercio, le grandi corporation dell’industria conserviera delle carni, ad esempio, potranno denunciare l’Ue e gli Stati membri per i tentativi di espandere le norme sull’etichettatura di origine.

Discorso analogo per la pasta e la volontà dell’Italia di introdurre relativa etichettatura d’origine. Il Canada esporta in Italia grandi quantità di frumento, che poi viene trasformato in pasta. Il presidente di Cereals Canada, Cam Dahl, ha fatto intendere la possibilità di adire le vie legali ancora prima chel’Italia avviasse l’etichettatura d’origine per la pasta, affermando di sperare «che l’Italia non faccia questo passo, ma non potendo saperlo dobbiamo essere preparati, sia per un’azione in seno alla Wto, che per misure nell’ambito del accordo commerciale Canada-Ue». Con l’entrata in vigore del Ceta, quindi, iniziative come questa potrebbero essere perseguite in modo permanente, sia a livello di Ue che di Stati membri.

Non è un caso, infatti, che Coldiretti, insieme alle associazioni di consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento Consumatori, sia tra i principali oppositori del Ceta: «È un regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare che colpisce il vero Made in Italy e favorisce la delocalizzazione, con riflessi pesantissimi sul tema della trasparenza e delle ricadute sanitarie e ambientali», hanno affermato i produttori italiani senza mezzi termini. E insieme alla Campagna Stop Ttip Italia e alle altre organizzazioni è impegnato a mettere sotto pressione scrivendo e raggiungendo su twitter e facebook tutti i senatori italiani perché affidino a un confronto più ampio, e non a una legislatura agli sgoccioli, una decisione responsabile su quale tipo di commercio sia più adatto a difendere i nostri diritti, l’ambiente il lavoro e i legittimi interessi di imprese e cittadini.

*portavoce della campagna Stop-ttip


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