Accanto al popolo afghano

Accanto al popolo afghano

Stefano Galieni*
Una mail giunta stamattina, in risposta ad una richiesta di notizie da Kabul :«Thanks dear Stefano, yesterday was very a hard day for the Kabul people, i was just passed from the road, I see all the broken glasses and wounded people,I was very near to the area which explosion happened, I was very lucky that i remain safe.I am working on Wazir Akber in the same area.  i was very afraid and shocked. thank you we as afghan people we know we are not alone we have Kind people like you  to think about us and feel the Afghan people’s suffered».
Poche parole che ci ha inviato una compagna dall’Afghanistan, Rohina Bawer, di Hawca (Humanitarian Assistance for women and children of Afghanistan), all’indomani dell’ennesima strage che rapidamente non solo la nostra stampa mainstream ma anche noi spesso viviamo quasi con fatalismo e indifferenza. Eppure 80 morti nel centro di Kabul non sono un evento da considerare “normale”.
Eppure il fatto che alcuni paesi europei come la Germania, l’Olanda e a breve, temiamo, anche l’Italia considerino l’Afghanistan un “paese sicuro” in cui poter rimpatriare coloro che chiedono asilo dovrebbe farci fermare un momento. Solo un paio di mesi fa gli USA, potenza occupante, sperimentavano in Afghanistan la MOAB (Mother of all bombs), 11.000 kg di tritolo per “distruggere tunnel dell’Isis, che da quanto ci risulta non solo ha ucciso vari civili ignari ma ha fatto perdere l’udito a centinaia di persone. Bisognava fare un esperimento bellico e gli USA hanno utilizzato una regione afghana come se fosse territorio proprio.
Eppure, continuando nel cahier de doleance, l’Afghanistan continua oggi ad essere paese da cui si fugge, per una guerra mai terminata da quasi 40 anni, per l’occupazione militare occidentale da una parte e quella delle milizie talebane dall’altra, per assenza di prospettive di vita decente. In una Italia che va in tilt per 180 mila richiedenti asilo sbarcati in un anno è impossibile comprendere che nel solo Pakistan risultano essere presenti regolarmente almeno 1,5 milioni di cittadini e cittadine afghani e che, se si calcola quanti sono presenti irregolarmente perché temono di farsi registrare dal governo pakistano e quindi di poter essere espulsi, si arriva alla cifra di oltre 4 milioni di profughi. A molti e molte di loro non è garantito nulla, solo lavori sottopagati e al nero.
Oggi quella è una guerra dimenticata ma che ogni tanto torna sotto i riflettori. L’attentato di due giorni fa aveva come obiettivo le ambasciate occidentali ma a morire sono stati uomini e donne afghani che avevano avuto la sventura di essere presenti in quel momento e il domani si prospetta più nero.
Raccontava Malalai Joya, una delle tante donne che hanno avuto il coraggio di dire no tanto all’occupazione che al fondamentalismo, recentemente passata in Italia e che vive nel suo paese quasi in clandestinità che coloro che tornano “rimpatriati a forza” rischiano doppiamente. A chi le chiedeva se l’ISIS stesse divenendo un problema anche in Afghanistan ha risposto semplicemente:«Oggi l’Isis non è un grosso fenomeno. A comandarla sono ex talebani: cambia solo il nome e la bandiera. Ma attenzione: gli afghani che state rimpatriando in massa dall’Europa finiranno vittime della droga oppure arruolati dall’Isis e altri gruppi a 600 dollari al mese». Uno scenario buio da cui non si riesce e in fondo non si vuole uscire, uno scenario in cui anche l’Italia e il suo governo giocano un proprio ruolo.
Nell’anno in corso vengono spesi 295 milioni di euro — compresi i 120 milioni per il sostegno alle forze di sicurezza locali — e l’impiego di 900 soldati, 148 mezzi terrestri e 8 elicotteri e questo per portare la pace nel Paese. Quella afghana, come tante nel mondo, sono situazioni complesse non risolvibili con semplici dichiarazioni di principio e buone intenzioni ma l’antica frase “svuotare gli arsenali riempire i granai” resta l’unico percorso in cui ci si possa ritrovare.

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