Rom, l’esempio del presidio di Centocelle

Rom, l’esempio del presidio di Centocelle

Pubblichiamo questo ottimo  intervento di Annamaria Rivera, uscito sul Manifesto di ieri, perché ne condividiamo l’analisi e le riflessioni, perché Rifondazione Comunista e chi in questo partito si riconosce, non può che sentirsi parte integrante di un corteo popolare e distante anni luce da ogni tentativo di lasciar passare elementi in qualsiasi modo, assolutori o di comprensione dei vigliacchi che hanno tolto alla città intera tre vite.

Annamaria Rivera

Chiunque sia l’assassino che la notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi ha ridotto in cenere i poveri corpi di Francesca, Angelica ed Elisabeth, quest’atto atroce è stato favorito dalla marginalità.

Dalla stigmatizzazione, dalla condizione di povertà estrema inflitta a una parte della diaspora rom: tali da costringere una famiglia di tredici persone ad stiparsi in un camper parcheggiato in un’area della borgata romana di Centocelle. Non potrebbe essere più surreale il contrasto fra una tale condizione miserabile e il luogo in cui si è consumato il rogo delittuoso: il parcheggio di un grande centro commerciale, freddo e anonimo anche nella struttura, concepita come una sorta di tempio del consumismo. Eppure, allorché, dopo un lungo percorso, vi è approdato il folto corteo del 13 maggio scorso, che rivendicava verità e giustizia per le tre sventurate sorelline di quattro, otto e venti anni, gli slogan e gli interventi al microfono si sono spenti d’un tratto, soverchiati da una commozione corale intensa e palpabile.

In realtà, l’intero corteo si è caratterizzato non solo per radicalità e chiarezza politiche, ma anche per empatia e autentica indignazione. A conferirgli questo tono ha contribuito la presenza di una molteplicità di soggetti: dalle femministe di «Non una di meno» alla locale sezione dell’Anpi, dai partiti della sinistra ai centri sociali, dai rappresentanti di alcune associazioni rom al movimento per il diritto all’abitare, fino agli insegnanti e ai genitori dell’Istituto di via Ferraironi, che comprende scuole primarie all’avanguardia quali la «Iqbal Masiq» e la «Romolo Balzani». Il giorno prima ben settecento bambini, accompagnati dalle/dagli insegnanti, avevano raggiunto il luogo della strage a recare fiori e disegni.

Nonostante il processo di gentrificazione, Centocelle conserva tracce di memoria e retaggi concreti della sua storia di borgata rossa: ricordo che, insieme al Quarticciolo e al Quadraro, fu focolaio decisivo della Resistenza romana nonché nodo importante dei movimenti degli anni ’70. Di una tale storia è erede la rete di presìdi democratici e antirazzisti presente nel quartiere. È anzitutto questa ad aver permesso la riuscita del corteo e ad aver sventato il rischio che prevalesse, anche in un caso così tragico, l’ormai consueto sussulto di razzismo popolare: in realtà, spesso aizzato e organizzato da qualche Casa Pound o Forza Nuova, nondimeno fatto passare per «guerra tra poveri». D’altra parte, nel corso degli anni recenti la sinistra, anche quella detta alternativa, non si era certo contraddistinta per attivismo in favore dei diritti dei rom, se non in qualche occasione e per merito dell’associazionismo antirazzista. Né valse a mobilitarla la morte atroce di quattro bambini nel 2011: anch’essi carbonizzati da un incendio, quello scoppiato nel campo-rom di Tor Fiscale, sull’Appia Nuova. Per dire di quali pregiudizi alberghino anche nelle nostre file, basta un piccolo esempio: tre giorni dopo l’orrendo attentato di Centocelle, su una testata online d’estrema sinistra qualcuno – evitando il più piccolo cenno alla strage – scriveva dei rom come di «un’etnia i cui usi e costumi non consentono l’integrazione nel tessuto civile».

A mia memoria, la mobilitazione di sinistra più ampia ed efficace risale al 2008. Allorché il ministro dell’interno Maroni predispose la schedatura di massa dei rom, con prelievo forzoso delle impronte digitali anche ai bambini: un provvedimento affine alle schedature razziste dei regimi nazifascisti, finalizzate a costruire archivi per l’individuazione, segregazione, concentramento, deportazione delle minoranze. Fu per merito di tale mobilitazione, oltre che per le condanne anche da parte d‘istituzioni internazionali, che Maroni e il sindaco Alemanno furono costretti a qualche passo indietro.

Al di là di questa piccola vittoria, nulla è cambiato, a Roma e altrove, nella condizione dei rom in emergenza abitativa. Se in Italia la popolazione dei rom, sinti e caminanti conta al massimo 180mila persone – 70mila sono di cittadinanza italiana – appena 28mila sono quelle che vivono in baraccopoli istituzionali o in insediamenti informali: cifra che corrisponde a uno scarso 0,05% della popolazione italiana.

Nonostante così esiguo sia il numero dei casi che occorrerebbe risolvere, si perpetuano la logica del famigerato Piano nomadi, la politica degli sgomberi forzati dei campi «abusivi», l’esclusione dall’edilizia residenziale pubblica, la repressione di attività informali, uniche possibili fonti di reddito.

In realtà, i campi rappresentano il dispositivo con cui si compie, in modo estremo ed esemplare, il processo di allontanamento spaziale e simbolico dalla società e dalla civitas di persone reputate ed etichettate altre, dunque indesiderabili per eccellenza.

Su un numero così esiguo di persone si addensa il massimo non solo di stigmatizzazione, ma anche di valore simbolico. Quest’ultimo vale anche in un altro senso: la legge del 18 aprile 2017, n. 48, in materia di sicurezza urbana, con cui s’intende sorvegliare, criminalizzare e punire la marginalità, la povertà, ma anche la non-conformità sociale, colpirà, sì, in primo luogo i rom, ma pure chiunque si sottragga alla «norma» sociale. Non foss’altro che per questo, tutti/e noi ne siamo coinvolte/i.


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