Il primo atto di un “Patriot Act” europeo

Il primo atto di un “Patriot Act” europeo

Stefano Galieni

Il 25 novembre scorso, il parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza (548 voti a favore, 110 contrari e 36 astenuti) una complessa risoluzione sulla “ sulla prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche ”elaborata nei mesi scorsi ma che ha assunto una forma più apertamente repressiva dopo gli attentati di Parigi. Un testo molto lungo, diviso in 10 settori di intervento per un totale di 83 punti di cui è possibile trovare una articolata ma altrettanto lunga descrizione e valutazione sul sito a-dif.org  Numerosi i punti che vale la pena analizzare al di là di quelli su cui si è soffermata la stampa. Nel nome di meno libertà in cambio di maggiore sicurezza, tanto gli stati quanto le agenzie di polizia europee, gli apparati di coordinamento giudiziario, gli stessi governi, potranno a breve termine – ma in parte lo stanno già facendo- in nome della lotta sacrosanta contro il terrorismo – controllare ampi settori della vita privata delle persone, dai viaggi aerei, all’utilizzo della rete. Le condizioni di diritto a cui siamo abituati rischiano di scemare e se, lo stato di emergenza in Francia permette attualmente agli apparati di polizia di agire indisturbati e senza alcun reale controllo del potere giuridico, anche in Italia vanno aumentando i casi di espulsione di persone arrestate sulla base di sospette attività di “incitamento all’odio” e di “propaganda” che si ritrovano rimandate in patria senza aver avuto il minimo accesso alla difesa. Si tratta di una scelta che certamente trova consenso sociale innescato dalla paura ma che rischia di produrre un vero e proprio stato permanente di eccezione dove oggi il nemico è nel jihaedismo, nel Dahesh, in altre organizzazioni identificate, con un chiaro e pericoloso progetto politico, domani potrebbero anche essere le altre forme di conflitto sociale. Di fatto l’Europa che conoscevamo sparisce, gli strumenti di coordinamento oggi utilizzati per intercettare i foreign fighters, per seguire i fondi che alimentano il traffico d’armi clandestino, per inquadrare i luoghi informali in cui la radicalizzazione (opinione) si trasforma in organizzazione armata e in progetto criminale (reato), diventeranno strumenti stabilmente presenti nella nostra vita, in grado di condizionarci e di controllarci ben oltre gli scopi dichiarati. Il testo, letto nella sua interezza, mostra in maniera chiara come ad una ipotesi iniziale di percorso condiviso, in cui la lotta contro i fenomeni di contiguità al terrorismo in chiave repressiva doveva accompagnarsi una maggiore attenzione verso gli elementi preventivi di intervento sociale nei singoli paesi, si sia passati ad una risoluzione finale in cui il secondo aspetto si riduce in termini di risorse dedicate. Un testo in fondo molto ipocrita, che da una parte dichiara di volersi opporre ad ogni forma di terrorismo e di non legare questo crimine a nessuna religione, provenienza nazionale, “fattore etnico” e poi interviene esclusivamente nei confronti del mondo musulmano. Molte le risorse che vengono erogate ad agenzie di controllo, ampi i margini di cooperazione fra gli stati per la repressione anche preventiva, pochi cenni a quali dovrebbero essere gli strumenti a cui vincolare i governi per migliorare scuola, sanità, welfare, diritto al lavoro e all’abitazione. Fattori che di fatto possono quantomeno evitare di ampliare il mare su cui le organizzazioni criminali possono pescare per costruire le loro reti. Gli elementi che hanno reso totalmente irricevibile tale testo nascono soprattutto dalle modifiche imposte dalla relatrice, la francesce Rachida Dati (PPE) ma alcuni passaggi risentono della scelta UE di non voler toccare equilibri geopolitici consolidati. Mentre ad esempio si dichiara di voler combattere il traffico d’armi e praticare la loro distruzione non è passato un emendamento proposto dal GUE-NGL per vietare di vendere strumenti militari a paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar, eufemisticamente sospettati di appoggiare direttamente o indirettamente il Daesh (ISIS). Ma tanti altri sono gli aspetti problematici per cui si rimanda ad una lettura della risoluzione o della sua analisi che citiamo all’inizio. Un altro degli elementi respinti proponeva di considerare il legame fra gli attentati in Francia e l’impegno militare dei paesi UE in Afghanistan e Iraq, non per offrire giustificazioni ma per fornire una analisi meno superficiale. Di positivo c’è però qualcosa. Si rifiuta categoricamente di legare la questione dei profughi e il loro arrivo all’”allarme terrorismo”, si richiama i paesi a non far modo che crescano negli Stati membri i fenomeni di islamofobia che arrecano solo sostegno al terrorismo, si considerano le moschee aperte alla luce del sole come antidoti alle forme di fanatismo che invece prosperano di più in rete o nei luoghi informali di incontro. Quindi si richiama ad un forte lavoro mirato di intelligence ma si questo non v’è quasi traccia nei commenti dei media italiani. Anzi trova spazio chi invita a non far costruire centri culturali islamici se non a provvedimenti ancora più grotteschi e offensivi verso 1.700 mila persone che nulla hanno a che fare con i crimini parigini.

Poco però per votarne l’approvazione, tanto è che buona parte del GUE-NGL, fra questi Eleonora Forenza e Barbara Spinelli (relatrice ombra) hanno votato contro il testo. Ma anche la sinistra, di fronte a tale allarme ha avuto atteggiamenti differenziati e questo resta un tema su cui riflettere a lungo


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