La via italiana al socialismo

La via italiana al socialismo

Palmiro Togliatti (1893-1964) -

In occasione del 50° anniversario della morte di Palmiro Togliatti ci pare doveroso riproporne alcune pagine significative. Quello che segue è un lungo estratto dal Rapporto tenuto il 24 giugno 1956 al Comitato centrale del PCI. Aldo Agosti nella biografia “Togliatti. Un uomo di frontiera” (Utet, 2003) sottolinea “l’ampiezza di respiro e la varietà di spunti che contraddistinguono il rapporto” che si colloca, in quello che è stato definito “l’indimenticabile 1956”, tra il XX Congresso con il clamoroso “Rapporto segreto” di Chruščëv sui crimini di Stalin e l’invasione dell’Ungheria. Il segretario del PCI e dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale “tenta di comporre in un quadro organico e coerente la sua concezione della «via italiana al socialismo»”.

Dove sta l’importanza del congresso che ci accingiamo ora a convocare? Sta nel fatto che ci troviamo di fronte a un complesso di fatti ed elementi nuovi, sia della situazione internazionale che della situazione del nostro paese e del partito. Questi fatti ed elementi nuovi devono essere valutati in modo giusto, allo scopo di saper ricavare da essi tutte le conseguenze necessarie per l’ulteriore nostro sviluppo, per le lotte che dovremmo condurre, per l’orientamento del movimento rivoluzionario della classe operaia e del popolo italiano.

Vari compagni hanno riferito circa le discussioni che hanno avute luogo prima e dopo la lotta elettorale, a proposito di alcuni aspetti delle decisioni del XX Congresso del PCUS. Noi tutti consideriamo positivo il fatto che questa discussione si sia iniziata; anche se si è iniziata senza una preventiva impostazione da parte degli organi dirigenti centrali del partito. Questa cosa infatti era difficile da farsi nelle condizioni in cui ci trovavamo, e il fatto che il dibattito ad ogni modo si sia aperto è comunque prova della vitalità e vivacità del partito, della presenza in esso di compagni i quali ragionano, pensano, hanno una sensibilità politica e morale, hanno uno spirito critico e lo esprimono liberamente. Anzi, vi è da dolersi che nel passato, alcune volte, quando abbiamo compiuto atti politici di grande importanza per qualificare la linea del nostro partito e la sua attività, ma difficili a comprendersi, non sia avvenuto lo stesso, che il partito, cioè, non si sia impegnato di più in quelle discussioni che parecchie volte abbiamo sollecitato ma che non ci sono state. Questa volta le cose sono andate così perché nelle critiche fatte dal congresso del PCUS al compagno Stalin erano contenuti elementi tali che hanno suscitato una reazione di sentimento, oltre che politica. Anche questo però è un fatto positivo e tutto il complesso è un segno di maturità del nostro partito, non è in nessun modo segno di una crisi interna, anche se nella discussione stessa, per il modo come le cose sono state presentate e per la gravità stessa dei fatti su cui si è discusso, è venuto alla luce un certo turbamento dei nostri militanti.

In generale, quando nel partito vi è una maggiore attività dei militanti, suscitata dalla discussione di qualsiasi problema, si nota sempre un progresso in tutto l’ambito della sua attività.

So che sono state espresse, per esempio, alcune riserve al modo come da me – d’accordo con la direzione del partito – venne impostata la discussione del consiglio nazionale, ponendo al centro i problemi della lotta elettorale che stavamo per impegnare e non invece i problemi suscitati dalle critiche fatte a Stalin al XX Congresso. Coloro i quali conoscono che cosa è il nostro partito, quanto è esteso il compito di mobilitarlo, e come fosse scarso il tempo davanti a noi, dovranno riconoscere che quella impostazione era giusta. Questo significa anche, compagni, – e lo dico in modo del tutto aperto – che nella relazione fatta da me al Comitato centrale del partito dopo il XX Congresso del PCUS deliberatamente non vennero affrontate e trattate a fondo tutte le questioni che potevano e dovevano affrontarsi e trattarsi, perché era viva in me la consapevolezza che quelle questioni, una volta affrontate, dovevano essere trattate a fondo e questo non si poteva fare che in un congresso di partito e in un dibattito che lo preparasse. E un congresso, in quel momento, non lo si poteva convocare.

Nelle discussioni, che hanno avuto luogo sinora nelle federazioni, ci sono state anche delle debolezze. Desidero però dire chiaramente che non consideriamo debolezza o errore il fatto che si critichino dirigenti del par­tito, anche se questi sono i dirigenti che portano sulle loro spalle il mag­gior carico di responsabilità e di esperienza. Tutti i compagni dirigenti del partito hanno bisogno che la loro attività di direzione politica e pratica venga controllata e stimolata ed è assai bene che controllo e stimolo critico vengano da tutto il partito. Naturalmente questo non vuol dire che tutte le critiche che vengono fatte siano giuste, però tutte le critiche certamente pongono problemi che vanno affrontati, dibattuti, risolti. Non consideriamo come debolezza o errore il fatto che nei dibattito già in corso si affrontino temi di principio, anche se, alle volte, leggendo verbali di riunioni e risoluzioni votate da assemblee di cellula e di sezione, troviamo che su determinate questioni di principio le cose dette e le formulazioni conclusive non sono accettabili o sono accettabili soltanto per una parte, mentre sono deficienti per altri aspetti. Siamo lieti che si discu­tano problemi di principio perché questo contribuirà a liberarci, una volta per sempre, da una certa atmosfera di doppiezza. Oggi si invitano i diri­genti del partito a dire chiaramente, senza sottintesi nascosti fra le pieghe, quello che pensano e quello che il partito deve fare. In realtà, ciò è sempre stato fatto, e con la più grande chiarezza. Chi si immaginava stessero nascosti fra le righe chi lo sa quali sottintesi, in realtà è chi non si sentiva d’accordo con i giudizi e i compiti assai chiaramente formulati.

Non consideriamo debolezza o errore, nei dibattiti che si stanno svolgendo, il fatto che affiorino posizioni sbagliate per mancata conoscenza di fatti, per errori nella valutazione di episodi della vita del partito, del movimento comunista internazionale o della situazione che <è stata in questi anni davanti a noi. Informeremo meglio, preciseremo, la chiarezza sarà fatta.

Quello che è da considerarsi, invece, elemento di debolezza delle discussioni, che oggi si stanno svolgendo, è il fatto che spesso, più che a un dibattito, cioè a uno scambio di opinioni per arrivare a determinate conclusioni, ci si trova davanti a una specie di sfogo indistinto. Ciascuno dice quel che ha sulla coscienza, senza arrivare a nessuna conclusione e sia nelle critiche che nella posizione di problemi nuovi non ci si collega all’elemento concreto dell’attività di partito, ai temi che oggi stanno davanti a noi, per esaminarli con serietà e ricavarne conseguenze sia di principio che pratiche. Sono fenomeni negativi quella specie di revisionismo generico, che qua e là viene fuori, e non ha nessun contenuto preciso, il velleitarismo critico che non porta a nessuna conclusione pratica, e anche l’assenza di una buona direzione del dibattito stesso. Il nostro partito è un grande organismo democratico. La nostra concezione della vita interna del partito si ispira però alle norme del centralismo democratico, cioè di una vita democratica intensa, attiva, la quale però si deve svolgere sul grande binario della nostra dottrina e della nostra pratica, allo scopo di precisare la linea nella quale si deve svolgere l’azione del partito e non può scendere al livello dei pettegolezzi, o di recriminazioni prive di qualsiasi valore. Come si deve discutere dunque? Bisogna prima di tutto riferirsi alla nostra dottrina, alla dottrina marxista e leninista, a ciò che hanno scritto i nostri classici, a ciò che il partito stesso, in questo campo, ha elaborato nel corso della sua esistenza. La mia opinione è che, in questo campo, il bilancio che possiamo presentare alla classe operaia e al popolo italiano è un bilancio in sostanza positivo. È sufficiente pensare a quale fosse il cosiddetto bagaglio ideologico del partito socialista quando noi ne uscimmo, rievocare quella vacuità contro cui Gramsci cosi fieramente levò la sua protesta, l’assenza di qualsiasi conoscenza della nostra dottrina, la incapacità totale di riferirsi ai principi per condurre una giusta analisi delle situazioni oggettive e derivarne esatte indicazioni politiche, per comprendere come noi siamo andati avanti. Basta rievocare la posizione che veniva fatta nell’ambito della cultura italiana, quando noi sorgemmo e per alcuni decenni dopo, al marxismo, considerato come un cadavere che si stava putrefacendo e a cui si poteva guardare soltanto con commiserazione e quasi con scherno. Questa situazione è finita. Oggi la dottrina marxista, per opera nostra, del nostro partito, dei suoi militanti, dei suoi dirigenti, dei suoi intellettuali e dei suoi amici, è stata ricondotta ad essere uno dei pilastri di organizzazione, sviluppo e direzione della cultura nazionale. Col marxismo si devono fare i conti di nuovo, e questo risultato lo si è ottenuto

perché noi, marxisti, abbiamo dato prova di saper fare i conti non solo con la realtà politica, ma con le correnti tradizionali del pensiero italiano.

Sappiamo che anche in questo campo vi sono lacune e deficienze che dovranno essere colmate, ma non è vero che il bilancio sia negativo. Il nostro partito ha avuto la fortuna di essere stato fondato da Antonio Gramsci, il pensatore, io credo, che nell’Europa occidentale ha dato, negli ultimi cinquant’anni, il più grande contributo all’approfondimento e allo sviluppo della dottrina marxista sulla base di un’ampia conoscenza degli sviluppi intellettuali di tutto l’Occidente e di un approfondita conoscenza delle condizioni del nostro paese. Bisogna ricordarsi che questa dottrina è la più avanzata ed efficace fra le dottrine che aiutano ad intendere il mondo economico, politico e sociale, a valutare giustamente le correnti di pensiero e di azione che si muovono nella storia, ad affrontare e risolvere tutti i temi della vita nazionale e internazionale. A questa dottrina dobbiamo saper attingere. Un marxista non può essere come il somaro, che porta sulla groppa la botte con dentro il vino ma lui beve acqua. Il marxista deve bere sempre il vino della dottrina che egli possiede. Non può bere né il brodo insipido delle frasi fatte e stancamente ripetute, né l’acqua sporca dei rifiuti di dottrine di altra provenienza, o dei pettegolezzi che possano essergli posti sotto il naso dall’avversario e dal nemico. La nostra dottrina, dunque, sia il primo punto di riferimento delle nostre discussioni.

Il secondo grande punto di riferimento deve essere la realtà della vita internazionale e nazionale nei suoi aspetti politici, economici, culturali, sociali. E’ inevitabile che alcuni fra i temi del XX Congresso siano, per lo meno all’inizio, prevalenti. Sono infatti i temi che più hanno colpito e più colpiscono, e dibattendo i quali si giunge a scoprire questioni fondamentali del nostro movimento. Altrettanto però io ritengo inevitabile che a poco a poco, nel corso del dibattito, prevalgano i temi nostri: della nostra politica, dello sviluppo del nostro partito, della analisi della situazione del paese e della determinazione dei compiti che stanno davanti a noi.

Dove sta, dunque, l’importanza del nostro prossimo congresso? Sta nel peso politico che il nostro partito ha nella situazione italiana e che il risultato delle ultime elezioni ha confermato. Sta però prima di tutto negli elementi nuovi, in parte maturati e che in parte stanno venendo a maturazione, nella situazione internazionale e dei singoli paesi e quindi anche del nostro. Possiamo dire che nel mondo oggi ci troviamo davanti a una svolta, o, se si vuole essere più prudenti, a un inizio di svolta tanto nella situazione internazionale quanto nello sviluppo del movimento operaio e del movimento popolare che si orienta verso il socialismo.

È fuori dubbio che fino ad ora il maggior contributo per determinare che cosa sia questa svolta è stato dato dal XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Quel congresso è partito ed effettivamente bisogna partire da alcune constatazioni. Prima di tutto dalla constatazione che si è creato nel mondo un sistema di Stati socialisti.

In pari tempo si deve constatare il crollo dei colonialismo come sistema di dominio del mondo da parte della piccola minoranza degli Stati imperialistici. In conseguenza di questi due fatti ci si trova in presenza di un mutamento delle strutture oggettive del mondo intiero ed è in conseguenza di questo mutamento delle strutture oggettive che assistiamo a profonde modificazioni, alcune già attuate, altre ancora in corso, negli orientamenti ideali e pratici degli uomini. Tale è, per esempio, la tendenza dei nuovi popoli e Stati, che si sono sottratti al dominio dell’imperialismo, a non più seguire nel loro sviluppo economico, politico e sociale, la via del capitalismo. Da nessuno di questi nuovi Stati – prendete l’Indonesia, l’India, l’Egitto, l’Indocina – esce una voce la quale proclami la necessità di instaurare il «modo di vita americano». Escono invece voci sempre più autorevoli le quali proclamano la necessità di porsi sulla strada del socialismo, cioè di trasformare i rapporti economici, politici e sociali nella grande direzione che dal socialismo è indicata. Di qui nasce anche la tendenza all’avvicinamento di questi paesi ai paesi già socialisti, e l’accrescimento non soltanto della forza materiale, della forza economica e politica, ma del prestigio dei paesi socialisti, e prima di tutto dell’Unione Sovietica. Non è senza significato e senza profonde ripercussioni nell’animo di tutti i popoli il fatto che da alcuni anni l’iniziativa nei principali campi della vita internazionale appartiene ai paesi socialisti e non più ai vecchi Stati del capitalismo e dell’imperialismo. Le ultime iniziative dei paesi capitalistici sono state la guerra fredda, le guerre calde che l’hanno inframmezzata, i blocchi di guerra, la minaccia atomica e la corsa al riarmo.

Quali conseguenze ricavare da questo nuovo quadro del mondo che sta davanti a noi? Possiamo ricavare la conseguenza che sia finito il capita­lismo? No. Sarebbe un grave errore. Il capitalismo rimane, il capitalismo, anzi, in determinati paesi e per determinati periodi di tempo si può ancora sviluppare. Rimane il solido potere dei capitalisti in tutta una parte del mondo. Possiamo ricavare la conseguenza che sia finito l’imperialismo? No, non possiamo ricavare questo grave errore. L’imperialismo rimane. Mantiene il suo dominio su un terzo del mondo, almeno. L’economia capitalistica, in tutta una serie di grandi paesi altamente sviluppati, mantiene le sue caratteristiche di economia imperialistica che sono quelle che voi conoscete. Rimangono quindi e si sviluppano anche i contrasti interni del mondo capitalistico, così come rimangono le tendenze che sono connaturate all’imperialismo stesso. Però, il profondo mutamento di struttura che già è avvenuto ha conseguenze evidenti e sempre più estese sia nel campo dei rapporti tra gli Stati e tra i movimenti di massa organizzati, sia per quello che riguarda lo sviluppo della coscienza delle masse e delle idee, e quindi per quel che riguarda l’avanzata di tutta l’umanità sulla via del progresso.

Il XX Congresso sottolineò particolarmente una di queste conseguenze quando affermò che oggi non sono più inevitabili le guerre. Ma si possono e debbono ricavare anche altre conseguenze che toccano in modo altrettanto diretto noi che viviamo nel mondo capitalistico e combattiamo per la pace e per il socialismo. Il socialismo – e questa è la grande cosa nuova – si presenta agli uomini come una imponente forza reale in sviluppo, che avanza, che tende a estendere sempre più la sfera del proprie dominio. Le forze produttive sono in sviluppo tanto nel mondo capitalistico quanto nei paesi socialisti. Nei paesi socialisti, però, lo sviluppo delle forze produttive non è in contrasto ma in armonia con le forme di organizzazione della vita economica. Esso infatti si accompagna per lo meno all’inizio di un processo unitario di coordinamento degli sviluppi economici in differenti parti del mondo. È dai paesi socialisti che oggi viene proclamata la necessità, non dico ancora di unire il mondo, ma per lo meno di creare fra i diversi popoli un grado superiore di cooperazione per risolvere i grandi problemi che stanno davanti all’umanità. La marcia verso il socialismo assume cosi forme più ampie e pone problemi nuovi, abbraccia popoli e paesi diversi e diventa quindi anche più sicura. Quella fiducia che nel 1917 venne accesa per la prima volta nel cuore degli operai e delle masse popolari di avanguardia, quando videro che finalmente in un paese la classe operaia aveva potuto prendere il potere e servirsene per costruire un’economia e una società nuove, oggi non è soltanto aumentata ma è già anche qualitativamente una cosa diversa perché in ogni paese, sia quelli altamente sviluppati, sia quelli che ancora non lo sono, si presentano possibilità reali e nuove di raccogliere forze sempre più ampie per spingere questi paesi sulla via di uno sviluppo socialista. Di qui l’affermazione che il metodo democratico, nella lotta per il socialismo e nell’avanzata verso di esso acquisti oggi quel rilievo che nel passato non poté sempre avere. Si possono cioè ottenere determinati e grandi risultati nella marcia verso il socialismo senza abbandonare questo metodo democratico, seguendo vie diverse da quelle che sono state battute e quasi obbligatorie nel passato, evitando le rotture e le asprezze che allora furono necessarie.

Questa situazione nuova, e da cui discendono così importanti conseguenze, è stabile, rimarrà, oppure deve considerarsi transitoria? Noi non siamo profeti. Noi vediamo però che questa situazione è la espressione di trasformazioni di cui alcune sono definitive e, poi, noi lavoriamo e chiamiamo tutti i popoli a combattere perché ciò che oggi vi è di nuovo e di buono diventi permanente, non scompaia più.

Da questa situazione discende una maggiore chiarezza e un modo nuo­vo nel porre la questione delle diverse strade di avviamento al socialismo e di costruzione di una economia e di una società socialiste. Non è che que­sta questione non fosse stata vista prima. È stata vista e trattata dai classici del marxismo. È stata vista e trattata da Lenin nel primo periodo della rivoluzione. In seguito, le affermazioni che sottolineavano la possibilità di diverse vie di sviluppo politico verso il socialismo vennero, almeno in parte, dimenticate. Questo è forse avvenuto perché l’esempio sovietico esercitò una cosi forte attrazione su tutto il mondo del lavoro e in particolare sulle avanguardie della classe operaia da contribuire a farle dimenticare. Vorrei però sottolineare – e questa cosa dovrà essere ricordata, se non altro, ai compagni «giovani», come si dice adesso, la cui esperienza storica è più limitata - che la ricerca di vie di sviluppo diverse da quella seguita nell’Unione Sovietica non è mai stata abbandonata. Una ricerca di vie nuove di avvento della classe operaia e delle forze popolari al potere, di organizzazione del potere e quindi di marcia verso il socialismo, con me­todi nuovi, venne fatta non senza originalità e coraggio quando il mondo capitalistico, dopo la terribile crisi del 1929, generò le nuove forme fasciste di aperta dittatura reazionaria e si aprirono profonde crisi politiche in tutta l’Europa. Non si giunse a conquiste stabili, permanenti, ma i tentativi vennero fatti. Il più noto venne fatto al tempo della politica dei fronti popolari, quando giungemmo, buttando a mare molte vecchie posizioni, ad affermare che i partiti comunisti potevano e dovevano entrare nei governi in circostanze determinate. A proposito della Spagna, in particolare, giungemmo a definire il carattere di un nuovo Stato democratico, in cui la classe operaia e i suoi partiti partecipavano al potere, ma che però non corrispondeva in nessun modo allo Stato che si era organizzato quando la classe operaia prese il potere in Russia nel 1917.

La dottrina della diversità delle vie di sviluppo verso il socialismo ri­chiede però, oggi, una più profonda elaborazione, in relazione appunto con le modificazioni delle strutture oggettive della società e degli indirizzi del movimento reale che intende trasformarla. Anche qui è necessario partire dall’esame dello sviluppo delle forze produttive, da cui viene una spinta oggettiva verso il socialismo. Questa spinta si manifesta in un determinato modo nei paesi a economia altamente sviluppata, si manifesta in altro mo­do in paesi a economia non pienamente sviluppata. Già Lenin aveva cor­retto la tesi enunciata da Marx, secondo la quale si potrebbe andare verso il socialismo soltanto in quei paesi che abbiano raggiunto il più alto grado di sviluppo del capitalismo. Oggi è evidente che le correzioni fatte da Lenin debbono essere ulteriormente precisate, nel momento in cui vediamo popoli e Stati nuovi, spezzato il giogo coloniale, affermare il proposito di andare verso il socialismo e chiedere l’aiuto dei paesi già socialisti per riuscire a fare, per lo meno, qualche passo in una direzione che non è più quella tradizionale dello sviluppo capitalistico. Questo era stato, almeno in parte, preveduto da Lenin, quando aveva affermato che, in determinate circostanze, è possibile che determinate fasi di sviluppo del capitalismo vengano saltate attraverso forme di evoluzione originali, aiutate dall’assistenza di paesi dove già esiste una società socialista. Questa previsione di Lenin acquista oggi un contenuto concreto, che prima non aveva. Grandi e nuovi problemi si vengono cosi presentando e sono da trattarsi in modo nuovo. Cosi quello, per esempio, di far sparire dal mondo le zone della fame, della disperazione, delle malattie endemiche, le zone dove non esistono ancora nemmeno le forme elementari di sviluppo di una civiltà la quale soddisfi le necessità prime di una vita umana e garantisca agli uomini il necessario grado di benessere.

Sul terreno politico credo si possa affermare che lo sviluppo soggettivo non è stato ancora e non è del tutto corrispondente allo sviluppo oggettivo. L’azione consapevole dei partiti di avanguardia della classe operaia non ha corrisposto e non corrisponde, in generale, alle modificazioni di strut­tura che hanno avuto luogo e ai nuovi stati di coscienza che sorgono tra le masse. Non si è avuto un uniforme e generale sviluppo in tutto il mondo dei partiti comunisti, cioè dell’avanguardia della classe operaia organizzata in questi partiti. Sono anche intervenuti, per impedire che ci fosse questa uniformità di sviluppo, elementi politici: la forza, la violenza, alle volte, delle classi dirigenti. Vi sono stati errori, manifeste incapacità delle avanguardie comuniste e delle loro direzioni di inserirsi nei processi storici nazionali, di comprendere le tradizioni storiche dei singoli paesi e utilizzarle, per dare slancio all’avanzata delle avanguardie comuniste, conquistando la direzione di grandi movimenti popolari. Tutti questi elementi hanno frenato – e qua e là persino impedito – lo sviluppo dei partiti comunisti. Il campo stesso del socialismo, del resto, ha nel suo interno diversità di cui non si può non tener conto. Sarebbe persino strano che qualcuno pensasse di poter ridurre i problemi che si possono presentare per l’organizzazione di un’economia e di una società socialista in Cina con quelli che si sono presentati dopo la presa del potere nell’Unione Sovietica. Lo stesso dicasi anche per i paesi dove vi sono regimi di democrazia popolare. Vi sono tra questi paesi notevoli diversità di struttura economica, di tradizioni poli­tiche, di forme di organizzazione. Sono diversi anche i progressi fatti sino ad ora nella costruzione di una economia e di una società socialiste. Sarebbe un grave errore se di queste diversità non si tenesse il dovuto conto nello stabilire i compiti, gli obiettivi e il ritmo dell’azione. Se poi volgiamo lo sguardo al di fuori del campo dei paesi già socialisti le diversità sono ancora più grandi. Possiamo trovare, infatti, una spinta verso il socialismo e un orientamento più o meno chiaro verso riforme e trasformazioni economiche di tipo socialista anche in paesi dove i partiti comunisti non soltanto non partecipano al potere, ma alle volte non sono nemmeno delle grandi forze. Quale sia la funzione che si presenta ai partiti comunisti in questi casi è un problema da studiare e non spetta in prima linea a noi studiarlo. Spetta alle avanguardie operaie, ai comunisti attivi in qei paesi. Certo ci si trova qui di fronte a una posizione nuova del rapporto tra i partiti comunisti e il potere, tra i partiti comunisti e le masse lavoratrici, tra i compiti dei partiti comunisti e l’avanzata di intieri paesi verso il socialismo. Questa situazione si presenta oggi e assume particolare rilievo in zone del mondo da poco tempo liberate dal colonialismo. Anche in paesi di capitalismo molto avanzato, però, può accadere che la classe operaia nella sua maggioranza segua un partito non comunista e non possiamo escludere che, anche in questi paesi, partiti non comunisti, ma fondati sulla classe operaia, possano esprimere la spinta che viene dalla classe operaia verso il socialismo. Anche, del resto, là dove esistono forti partiti comunisti possono esistere accanto a loro altri partiti i quali abbiano delle basi nella classe operaia e un programma socialista. La tendenza ad attuare trasformazioni economiche radicali, in una direzione che sia genericamente quella del socialismo, può, infine, partire anche da organizzazioni e movimenti che non si dicano socialisti. Naturalmente in questi casi si pone la questione del modo di arrivare, tra diverse organizzazioni, di cui alcune comuniste o socialiste, orientate chiaramente verso la costruzione del socialismo, altre non comuniste o socialiste, ma orientate verso riforme sociali di tipo socialista, a un rapporto normale, che partendo dalla reciproca comprensione giunga sino alla intesa e alla eventuale collaborazione. Si pone quindi in modo nuovo anche il problema del modo di raggiungere una unità tra le diverse forze organizzate che oggi tendono, in forme diverse, a muoversi nella direzione della società socialista. Come vedete si viene a creare un movimento complesso, multiforme. Si presenta a noi un quadro profondamente diverso da quello che ci stava davanti nei decenni passati, e in questo quadro anche il problema della direzione dei movimenti verso il socialismo, e degli stessi movimenti comunisti e dei partiti comunisti, inevitabilmente si deve porre in modo diverso da come si è posto in passato. Non vi è dubbio, per noi, che l’Unione Sovietica rimane il primo grande modello storico di conquista del potere da parte della classe operaia e di utilizzazione del potere, nel modo più energico e più effettivo, per riuscire, spazzate le resistenze della borghesia e delle altre classi reazionarie, respinti i tentativi di intervento provenienti dall’estero, ad accingersi al compito di costruire una economia e una società nuove e ad assolvere questo compito. La esperienza che in questo modo è stata compiuta è una esperienza sterminata, che ha i suoi grandi, prevalenti, aspetti positivi ed anche i suoi aspetti negativi. Lo studio di questa esperienza è stato e continuerà ad essere insegnamento prezioso non soltanto per i partiti comunisti, che ad essa dovranno sempre rifarsi, ma per tutti coloro i quali vogliano comprendere la realtà di oggi, che aspirino a trasformazioni economiche e sociali di natura radicale, e vogliano muoversi in direzione di tali trasformazioni. Questa esperienza, però, non può contenere né la soluzione bella e fatta di tutti i problemi che oggi si pongono, in quei paesi che già sono diretti dalla classe operaia e dai partiti comunisti, né tanto meno la soluzione bella e fatta delle questioni che si pongono là dove invece i partiti comunisti o i partiti orientati verso il socialismo sono partiti di opposizione, che si muovono in condizioni profondamente diverse da quelle in cui si mosse l’avanguardia della classe operaia in Russia per prendere il potere e dopo aver preso il potere. L’esperienza compiuta nella costruzione di una società socialista nell’Unione Sovietica non può contenere direttive per risolvere tutte le questioni che si possono presentare oggi a noi e ai comunisti di altri paesi, siano essi o non siano al potere, e a tutti i partiti di avanguardia della classe operaia e del popolo. Si creano cosi diversi punti o centri di orientamento e di sviluppo. Si crea quello che ho chiamato, nell’intervista che avete letto [intervista alla rivista “Nuovi Argomenti”, maggio-giugno 1956, ndr], un sistema policentrico, corrispondente alla situazione nuova, al mutamento delle strutture del mondo e delle strutture stesse dei movimenti operai, e a questo sistema corrispondono anche nuove forme di relazioni tra i partiti comun­sti stessi. La soluzione, che oggi, probabilmente, più corrisponde a questa situazione nuova, può essere quella della piena autonomia dei singoli movimenti e partiti comunisti e dei rapporti bilaterali tra di essi, allo scopo di creare una completa, reciproca comprensione e una completa, reciproca fiducia, condizioni per una collaborazione e condizioni per dare unità allo stesso movimento comunista e a tutto il movimento progressivo della classe operaia. Un sistema simile è probabilmente anche quello che può permettere una migliore estensione dei rapporti tra i movimenti comunisti e i movimenti di orientamento socialista, non comunisti (socialisti, socialdemocratici, di liberazione nazionale, ecc.) che può permettere di affrontare e risolvere in modo nuovo le questioni dell’avvicinamento tra diversi settori del movimento operaio, della comprensione, della reciproca fiducia, dell’intesa ed eventualmente domani dell’accordo tra tutti i partiti che lavorino per delle trasformazioni socialiste del mondo. La unità d’azione, come noi l’abbiamo raggiunta in Italia con il partito socialista, e come è stata realizzata in altri paesi in altri periodi, è una delle forme attraverso le quali si risolve il problema di questo accordo, ma non è la sola possibile, anche se è tra le più avanzate. È evidente che, in questa situazione nuova, mentre lavoriamo in modo nuovo per stabilire il contatto con le altre parti del movimento comunista internazionale e con gli altri settori del movimento operaio e popolare orientati verso il socialismo, noi riaffermiamo con energia e dobbiamo lottare per accrescere nelle nostre file, nella classe operaia e nel popolo, lo spirito dell’internazionalismo proletario. Riusciremo però tanto più agevolmente a raggiungere questo scopo quanto più riusciremo a dare al nostro internazionalismo proletario un contenuto concreto, preciso, che corrisponda alla situazione che ci sta davanti, che non si riduca alla ripetizione di formule del tempo passato, ma affronti con spirito e iniziative nuove tutti i problemi che si possono oggi presentare ai partiti di avanguardia della classe operaia. Fedeli a questo orientamento, abbiamo lavorato per risolvere e abbiamo risolto la questione dei nostri rapporti con la Lega dei comunisti jugoslavi. Voi ricordate il passato, gli errori che sono stati compiuti, il modo come questi errori sono stati corretti, e sono a voi presenti i passi che recentemente abbiamo fatto per ristabilire normali relazioni con i comunisti jugoslavi. (…) Abbiamo stabilito con la Lega dei comunisti jugoslavi rapporti bilaterali di solidarietà e di fiducia, rapporti che svilupperemo, per riuscire a comprendere sempre meglio ciò che i compagni jugoslavi fanno e per far comprendere sempre meglio a loro ciò che noi facciamo, e per dare in questo modo, in questo campo, il nostro contributo alla soluzione del grande problema di stabilire nuovi rapporti fra tutti i settori del movimento operaio che marciano verso il socialismo, seguendo ciascuno una propria strada. (…)

In questa nuova situazione si presentano in una nuova luce anche i rapporti col Partito comunista dell’Unione Sovietica e con il grande movimento dei comunisti sovietici. Questa questione è stata in parte complicata dall’interferire, nella trattazione di essa, delle rivelazioni contenute nel rapporto fatto dal compagno Chruščëv in una seduta riservata del XX Congresso. Queste rivelazioni hanno suscitato sorpresa e commozione, hanno creato quel turbamento che voi sapete e dato inizio nel nostro partito, e credo anche in altri partiti comunisti, a un ampio dibattito, tuttora in corso. A parte questo fatto, la questione dei rapporti tra il movimento comunista degli altri paesi e il Partito comunista dell’Unione Sovietica si poneva egualmente. Era una questione oggettivamente matura, perché la situazione stessa richiedeva che questi rapporti venissero esaminati e chiaramente posti su una base nuova. I fatti che sono avvenuti hanno senza dubbio accelerato il processo; hanno dato una spinta alla soluzione migliore di esso e lo hanno reso evidente alle grandi masse dei comunisti e dei lavoratori di opinione avanzata, e questa è una cosa positiva.

Voi sapete come il nemico e i suoi servi trattano questa questione. Con la massima volgarità e stupidaggine, affermando che i comunisti sono in tutto il mondo, sono sempre stati e saranno sempre i servi di Mosca, obbedienti agli ordini che vengono dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica e dallo Stato che questo dirige. Possiamo trascurare questo mo­do di porre la questione, che corrisponde a una totale incapacità di com­prendere la realtà, di capire che cosa è stato, nella storia d’Europa e del mondo, lo sviluppo del movimento comunista tra la prima e la seconda guerra mondiale e in seguito durante e dopo la guerra.

Quando la classe operaia nella Russia prese il potere nel 1917, lo tenne nelle sue mani, respinse vittoriosamente gli attacchi di ogni sorta di nemici, si accinse alla costruzione di una società socialista e dette per la prima volta nel mondo l’esempio reale, evidente, di una società socialista costruita sotto la direzione di un grande partito comunista, quando questo avvenne, le avanguardie della classe operaia nel mondo intiero non potevano non orientarsi sopra questo grande esempio, non vedere in esso un centro di orientamento e di guida per tutta l’avanzata verso il socialismo in un mondo che al socialismo era fieramente ostile e che l’imperialismo completamente dominava. È questo orientamento che ha permesso al movimento comunista di sorgere, di svilupparsi, di affermarsi, di andare avanti, di dare il proprio, decisivo contributo allo sviluppo delle grandi lotte democratiche e sociali che riempiono di sé gli ultimi decenni della storia europea. Naturalmente, questo contributo è stato tanto più grande, tanto più efficace, tanto migliore, quanto più il movimento comunista, orientandosi secondo l’esempio e la guida che ho detto, ha saputo mantenere, rafforzare, sviluppare le proprie radici, nella classe operaia, nel popolo, nelle condizioni storiche e nelle tradizioni del proprio paese e quindi diventare elemento permanente dello sviluppo della lotta politica e della società. Non è necessario ripetere che in tutto il periodo storico successivo alla Rivoluzione d’ottobre, e fino allo scoppio della guerra mondiale e anche dopo, le posizioni politiche del Partito comunista dell’Unione Sovietica, da esso affermate e difese, contro ogni sorta di nemici, hanno giustamente orientato, nelle cose essenziali, le avanguardie della classe operaia dell’Europa e del mondo intiero. Non sono venuti, in questo periodo storico, da nessun’altra parte, un insegnamento e una guida che potessero giustamente orientare le avanguardie della classe operaia e le avanguardie democratiche, come furono esse orientate da Lenin prima, e poi dalle realizzazioni del partito dei bolscevichi russi. Da Lenin e dalla rivoluzione russa venne la necessaria spinta alla radicale rottura con l’ideologia e con la pratica del riformismo, indispensabile per avere una base solida di sviluppo del movimento operaio e di avanzata verso il socialismo. Dalla stessa fonte vennero le necessarie ispirazioni per la creazione di quei partiti operai rivoluzionari, senza i quali un affermarsi progressivo della classe operaia come elemento dirigente delle grandi masse popolari e della vita nazionale non è possibile. E in seguito poi, quando l’Europa e il mondo intiero attraversarono un periodo di così profonde crisi, le posizioni assunte dai compagni che stavano alla testa del Partito comunista dell’Unione Sovietica orientarono giustamente non soltanto le avanguardie della classe operaia, ma tutto il movimento democratico e progressivo nell’Europa e nel mondo.

Prendiamo, ad esaminare, per esempio, il decennio che si colloca fra il 1930 e il 1940. Fu un periodo di tragica rottura e quasi di disfacimento dell’Europa. Doveva mettere capo, da un lato alla distruzione delle libertà democratiche nella maggior parte del continente europeo, al di fuori dell’Unione Sovietica, dall’altra allo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fascismo governava, era al potere in Italia dal 1922. Andò al potere in Germania. Dominava in tutti ì paesi balcanici. Un regime di tipo fascista esisteva nella Polonia. Il fascismo scatenò una guerra civile e una guerra vera e propria per riuscire a distruggere il regime democratico e repubblicano nella Spagna. Giunse a conquistare, con le intimidazioni e con le armi, l’Austria e la Cecoslovacchia. Nei paesi di cosiddetta democrazia occidentale, prevaleva nella classe dominante la tendenza al compromesso con il fascismo, a mettersi d’accordo con hitleriani e fascisti per liquidare in un modo o nell’altro tutte le conquiste democratiche fatte dal popolo e instaurare regimi di aperta dittatura delle classi più reazionarie. È in questo periodo che si collocano le giuste ed efficaci azioni dell’Unione Sovietica e del partito che la dirigeva, per ispirare e guidare non soltanto la classe operaia, ma tutte le forze democratiche e tutti i popoli dell’Europa a una conseguente difesa della democrazia, a unirsi per riuscire a battere il fascismo e allontanare il pericolo di un nuovo conflitto mondiale. Fu una lotta ostinata, lunga, paziente, che i dirigenti dell’Unione Sovietica condussero per riuscire a far prevalere quella linea di collaborazione delle forze democratiche che avrebbe potuto salvare il mondo dagli orrori della seconda guerra mondiale.

Oggi è facile dimenticare queste cose, e rappresentarci la realtà come se ci fossero stati nell’Unione Sovietica soltanto degli assassini e di qua degli agnelli che stessero in adorazione davanti agli ideali della democrazia! Questa rappresentazione non ha niente a che fare con la realtà. L’Unione Sovietica fu, in quel terribile decennio della storia d’Europa, il baluardo più forte, il difensore più conseguente dei principi della democrazia, della libertà e della pace. Per questo trascinò dietro a sé, con una politica giusta, le grandi masse popolari di tutto l’Occidente. E’ facile oggi negarlo, perché è sempre facile dire delle bugie. Noi sapevamo e tutti sapevano benissimo quali fossero allora le intenzioni delle classi dirigenti del cosiddetto Occidente democratico europeo, della Francia e anche dell’Inghilterra, in special modo. Prevalevano in esse coloro che intendevano, con l’aiuto del fascismo, preparare lo strozzamento dei regimi democratici e scatenare l’attacco della barbarie fascista, contro il paese del socialismo. Se non vi fosse stato, nel 1939, quel patto di non aggressione tra l’Unione Sovietica e la Germania, la sola prospettiva che con tutta probabilità sarebbe rimasta aperta era quella di un nuovo compromesso tra le grandi potenze occidentali e la Germania fascista, alle spalle, forse, del popolo polacco, ma con lo scopo principale di spingere Hitler ad attaccare il paese del socialismo e distruggere tutte le conquiste rivoluzionarie della classe operaia. Se vi furono in quel patto momenti che poterono allora sembrare negativi, furono dovuti a chi aveva respinto quella politica di unità democratica e per la difesa della pace che da anni ed anni era stata proclamata e difesa dall’Unione Sovietica, di fronte alla resistenza, agli intrighi, alle calunnie dei dirigenti delle democrazie occidentali, oltre che del fascismo.

Quale politica facemmo noi allora? Facemmo, dietro l’ispirazione che ci veniva dai comunisti sovietici, una grande politica democratica, socialista e di pace. Questo fu e rimane il nostro merito storico principale e non soltanto, come ora si vorrebbe far credere, l’eroismo, che nessuno può negare, dei nostri militanti nella Resistenza e nella guerra. Correggemmo errori di valutazione, errori di strategia e di tattica che avevamo compiuto nel periodo precedente, e particolarmente alla vigilia dell’andata al potere del fascismo in Germania, ponemmo al centro del nostro lavoro e della nostra lotta l’azione delle masse operaie e lavoratrici di tutta l’Europa per impedire l’avanzata del fascismo e impedire lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il Fronte popolare, di cui oggi è moda parlare come di qualcosa di deteriore, fu il più grande tentativo fatto negli ultimi decenni per dare un nuovo corso alla politica democratica nell’Europa e, direi, nel mondo intiero: per evitare che il fascismo dovesse essere liquidato attraverso gli orrori di una nuova guerra. Il fallimento di quel tentativo fu la premessa del crollo della democrazia e fu la premessa di quel disperato sforzo che i fascisti fecero per impadronirsi del mondo intiero con le loro armi e con la loro barbarie. Né io rievoco oggi queste cose per dare rilievo a meriti particolari del nostro partito o di suoi dirigenti, nell’elaborazione e nell’attuazione di quella politica. Le rievoco invece precisamente per ricordare la parte che ebbero l’Unione Sovietica e quel partito comunista nell’ispirare a tutti i comunisti e alla classe operaia di tutta Europa quella grande politica democratica. Vero è che questo avveniva mentre nell’Unione Sovietica, ci diono ora, aveva luogo un’ondata di azioni illegali, di violenze, di violazioni della legalità rivoluzionaria ai danni di dirigenti stessi del partito. Noi non lo potevamo né sapere né immaginare. La nostra fiducia e solidarietà operante con il Partito comunista dell’Unione Sovietica deriva proprio dal fatto che sotto l’ispirazione e la guida di quel partito sviluppavamo quella grande politica e proprio per questo non potevamo nutrire dubbio alcuno circa le forme di sviluppo e attuazione della democrazia nell’Unione Sovietica. Non fu proprio di quegli anni l’approvazione di quella Costituzione sovietica che cancellò i limiti alla democrazia che esistevano nelle precedenti costituzioni?

Ed è proprio allora che il movimento comunista incomincia ad avere una sua autonomia di sviluppo, se non in tutti, per lo meno in parecchi paesi, e si preparano quelle condizioni che in seguito imposero lo scioglimento dell’Internazionale comunista. Nel seno dell’Internazionale comunista è menzogna che vi fosse soltanto un gruppo che comandava e dei comunisti non russi che ubbidissero. Anche queste cose ai compagni che non le conoscono per non averle vissute le dovremo ricordare. Nell’Internazionale comunista si ebbero per anni ed anni grandi dibattiti, accompagnati, è vero, da una grande disciplina. Un grande dibattito accompagnò la liquidazione dei gruppi trotskisti e di destra, che negavano la possibilità stessa della costruzione di una società socialista. Seri dibattiti ebbero luogo quando, tra il 1928 e il 1931, prevalsero giudizi e orientamenti estremisti che noi ritenevamo sbagliati. Un grande dibattito ebbe luogo prima del VII Congresso dell’Internazionale comunista. Si fecero anche errori. Vi furono reciproche incomprensioni. (…)

In seguito, durante e dopo la guerra, e soprattutto là dove i partiti comunisti erano cresciuti, come partiti che avessero profonde radici nei loro paesi, l’autonomia di questi partiti divenne più grande, anche se in questo periodo ancora una volta dall’Unione Sovietica è venuta una ispirazione decisiva, per la resistenza, e la lotta contro la politica cui gli imperialisti americani dettero inizio un paio d’anni dopo la fine della guerra, per tentare di imporre a tutto il mondo il loro dominio. La cosa più importante, però, è che in questo ultimo periodo il movimento comunista si è sviluppato con ampia autonomia. E i partiti che hanno saputo lavorare da sé e bene sono andati avanti per la loro strada. (…) Siamo cresciuti e ci siamo affermati come comunisti italiani, la cui condotta politica era dettata dalle condizioni del nostro paese e dalle necessità vitali del nostro popolo e da niente altro. (…) Non esito a richiamare alla memoria dei compagni che n alcuni casi vi furono differenze tra ciò che i comunisti sovietici dicevano su certe que­stioni e ciò che noi sostenevamo, ma ciò non ruppe mai la reciproca solidarietà e comprensione. (…)

Oggi le critiche che sono state fatte all’attività del compagno Stalin e la denuncia dei terribili errori da lui commessi hanno spinto e spingono a riesaminare tutta una serie di questioni e quindi anche quella dei rapporti reciproci tra i comunisti dell’Unione Sovietica e il movimento comunista degli altri paesi. Non so se qui verrà posto il problema, che è stato sollevato in alcune discussioni di cellula e di sezione, del modo come il nostro partito è stato informato di queste critiche, e in particolare del contenuto preciso del rapporto fatto dal compagno Chruščëv. Noi riconosciamo che il modo è stato cattivo, ma d’altra parte chiediamo che si riconosca che la nostra responsabilità non vi è impegnata per nulla.(…) Nel nostro partito è anche stato espresso un certo malcontento critico per alcuni aspetti e per la forma del rapporto. Voglio ricordare ai compagni che non si può però considerare il rapporto come qualcosa di isolato. Bisogna porlo in relazione con tutto quello ch è stato detto al congresso e che ne fornisce l’inquadratura. A parte però che il rapporto, come documento isolato da tutto il resto, possa apparire per alcuni aspetti non felice, rimangono alcuni punti fondamentali su cui dobbiamo essere d’accordo, sui quali, anzi, non possiamo non essere d’accordo. Il primo è che il rapporto racconta dei fatti e questi fatti noi non li possiamo contestare. Non possiamo se non credere a coloro che ci espongono questi fatti, anche se nel passato questi fatti non li conoscevamo e non li potevamo nemmeno immaginare. La denuncia di questi fatti non poteva non essere compiuta davanti al partito. Circa il modo di compierla, non sta a noi esprimere un giudizio, perché ogni partito ha le sue norme e il suo costume di vita interna. Possiamo non essere contenti del modo come la denuncia è stata portata a conoscenza del movimento comunista nei paesi capitalistici, ma questo è un altro problema. Dobbiamo riconoscere che la denuncia degli errori e l’azione iniziata ed energicamente condotta per correggerli sono atti eminentemente positivi. La correzione doveva essere fatta e deve essere salutata. Essa costituisce una riaffermazione e avrà come conseguenza il rafforzamento del carattere democratico della società socialista. Essa restaura i principi e la pratica della democrazia nella vita interna del Partito comunista dell’Unione Sovietica, là dove questo carattere democratico era venuto meno. Questo doveva farsi e non potrà avere che risultati favorevoli sullo sviluppo del partito comunista e della società socialista nell’Unione Sovietica, sullo sviluppo del movimento comunista nei paesi dove i comunisti sono già al potere e sullo sviluppo di tutto il movimento operaio e socialista nel mondo intiero.

È evidente che dalle gravi denunce e critiche di oggi la persona di Stalin esce molto diversa da quella che ci eravamo rappresentata. Non esce però distrutta. Dovrà ricevere nuove dimensioni. Si presenta come una personalità profondamente contraddittoria nel suo interno e nella sua evoluzione. A un massimo di cose buone andava accoppiato in essa un massimo di cose cattive. Ma questo problema, oramai, è problema di storia. (…)

Per quel che riguarda la nostra «corresponsabilità », di cui oggi tanto si parla dagli avversari ed è stata un loro cavallo di battaglia in campagna elettorale, essa ha un contenuto politico. Esiste perché noi abbiamo accettato, senza critica, una posizione fondamentalmente falsa circa l’inevitabile inasprimento della lotta di classe con il progresso della società socialista, teoria che era stata enunciata da Stalin e dalla quale derivarono terribili violazioni della legalità socialista. Esiste una nostra responsabilità anche di avere accettato, e introdotto nella nostra propaganda, il culto della persona di Stalin, anche se qui si debba riconoscere che ci siamo guardati dal trasportare quel metodo all’interno del nostro partito. Il modo come ci siamo sforzati di organizzare il nostro partito, di orientarlo e dirigerlo nelle sue questioni e nelle sua vita interna si può anche affermare che sia stato un tentativo per superare di fatto molti tra i difetti che le critiche a Stalin mettono in evidenza.

Riconosciute tutte queste cose, rimangono però aperti molti problemi. Il rapporto stesso non dà una risposta esauriente e soddisfacente a tutte le questioni che sorgono davanti a colui il quale lo esamini. Il dibattito e la critica debbono però a questo punto essere portati sul terreno politico, sul quale si muovono i marxisti quando intendono analizzare determiante situazioni e ricavare determinate conseguenze. Sorge la questione di ciò che ha reso possibili errori cosi gravi, e soprattutto il fatto che attorno ad essi si creasse un consenso e una connivenza, che giungono fino alla corresponsabilità di coloro che oggi li denunciano. Di qui discende la questione non soltanto delle necessarie correzioni, ma delle garanzie contro il ripetersi di errori simili. (…)

Il dibattito oggi è aperto nel movimento comunista internazionale e in tutto il movimento socialista e democratico. Ad esso dovrà dare il proprio contributo ulteriore anche il nostro partito, nella preparazione del suo prossimo congresso.

Avete letto come ho affrontato il tema delle cosiddette riforme istituzionali che, da parte di taluni, si afferma che dovrebbero compiersi nell’Unione Sovietica, essendo indispensabili per impedire il ripetersi di fatti così gravi come quelli denunciati nel rapporto del compagno Chruščëv. La risposta che ho data tende a sottolineare quello che per me rimane un fatto fondamentale, e cioè che la rivoluzione d’ottobre ha creato una società politica di un tipo nuovo, profondamente diverso dalle società democratiche dell’Occidente capitalistico. Correzioni dovranno essere fatte, misure dovranno essere prese, garanzie dovranno essere date, ma l’originalità di questa società, quale essa è uscita dalla rivoluzione e dall’opera di costruzione economica e politica di una nuova società socialista, io credo che non possa non rimanere. Questa originalità sta nel sistema sovietico e nella direzione del partito comunista.

In relazione con questa questione, viene sollevato il problema della dittatura del proletariato. Ci si chiede se gli atti così riprovevoli, che il rapporto di Chruščëv denuncia e di cui al responsabilità prima risale al compagno Stalin e a determinati suoi collaboratori, non siano dovuti a quella forma di organizzazione della società che è la dittatura del proletariato. Anche questo tema è degno di essere affrontato e noi non dobbiamo avere il timore di affrontarlo, purché stiamo attenti a non semplificare le cose e a non cadere nelle banalità e volgarità socialdemocratiche. (…)

Prima di tutto, fa parte della dottrina della dittatura del proletariato l’affermazione del carattere di classe dello Stato e di ogni Stato, tanto dello Stato diretto della borghesia quanto dello Stato diretto dalla classe operaia. «Ogni Stato è una dittatura» diceva Gramsci. Questa affermazione è vera e rimane valida. La costruzione della società socialista costituisce un periodo transitorio tra la rivoluzione che abbatte il capitalismo e il trionfo del socialismo e il passaggio al comunismo. In questo periodo transitorio, la direzione della società appartiene alla classe operaia e ai suoi alleati, e il ca­rattere democratico della dittatura proletaria deriva dal fatto che questa direzione si realizza nell’interesse della schiacciante maggioranza del popolo, contro i residui delle vecchie classi sfruttatrici. Si può discutere quanto debba e possa durare questo periodo transitorio, ed altrettanto evidente è che nel corso di esso ci possono essere diverse fasi, e quindi forme diverse di sviluppo democratico. Nella Unione Sovietica diverse fasi ci sono state. Una cosa era la Costituzione del 1924; una cosa diversa è la Costituzione del 1936. Sulla base di questo esempio riteniamo del tutto verosimile che nell’Unione Sovietica, pur restando la direzione politica nelle mani della classe operaia e dei suoi alleati, la democrazia possa e debba svilupparsi in modo nuovo, conservando però le sue caratteristiche originarie.

Ma questo non è tutto ciò che vi è nella dottrina della dittatura del proletariato. Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin nello sviluppare questa teoria affermano che l’apparato dello Stato borghese non può servi­re per costruire una società socialista. Questo apparato deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito dall’apparato dello Stato proletario, cioè dello stato diretto dalla classe operaia stessa.Questa non era la posizione originaria di Marx e Engels: fu la posizione cui essi giunsero dopo la esperienza della Comune di Parigi e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione rimane pienamente valida, oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamentari, è evidente che correggiamo qualche cosa in questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stanno ancora compiendo nel mondo.

Il terzo punto sul quale si può concentrare l’attenzione è quello che riguarda le forme di esercizio del potere nel regime di dittatura del proletariato. Lenin disse chiaramente, all’inizio, che le forme di organizzazione che la dittatura del proletariato prendeva nella Russia non sarebbero state obbligatorie in tutti gli altri paesi. Possiamo noi oggi, sottolineando in modo particolare questa affermazione, dare ad essa una certa estensione, per giungere alla conclusione che anche per quanto riguarda l’esercizio del potere le affermazioni fatte da Lenin nei primi anni di esistenza della Repubblica sovietica corrispondevano a quella situazione, a una situazione di rottura rivoluzionaria, di guerra civile, di sviluppo di un potere che doveva essere difeso con tutti i mezzi e ad ogni costo contro gli attacchi che venivano da ogni parte, ma possono non corrispondere a situazioni diverse? A me sembra evidente che, in situazioni diverse, quelle affermazioni non solo valide. E qui si presenta la questione della esistenza di diversi partiti in una società socialista e del contributo che diversi partiti possono dare alla marcia verso il socialismo. È inutile e persino sciocco ci vadano ricantando che la nostra esaltazione della vittoria della Rivoluzione di ottobre e la nostra solidarietà di decenni col Partito comunista dell’Unione Sovietica significhino che noi riteniamo che in tutto il mondo e in qualsiasi situazione debbano essere obbligatoriamente fatte le stesse cose che si son fatte in Russia. Ciò che si è fatto nell’Unione Sovietica non è il modello – e in questo campo in modo particolare – di ciò che potrà e dovrà essere fatto in altri paesi, a seconda delle condizioni ivi esistenti. Ammettiamo senza difficoltà che in una società dove si costruisce il socialismo possano esserci diversi partiti, di cui alcuni collaborino a questa costruzione. Ammettiamo che la spinta a profonde trasformazioni di indole socialista possa venire da partiti diversi i quali giungano a intendersi per poter attuare queste trasformazioni. Si può giungere (e, se non sbaglio, di questo si sta discutendo fra i dirigenti di un grande paese oggi diretto dai comunisti) a considerare la estinzione stessa dei partiti in conseguenza dell’affermarsi di una società socialista unitaria, come il risultato di un processo che investa ugualmente tanto il partito comunista quanto gli altri partiti che con esso collaborano. Si giungerebbe cosi, attraverso un processo di natura nuova, a creare una società di nuovo tipo, avente una sua struttura politica che corrisponda alla avanzata e in fine alla vittoria definitiva del socialismo.

Ponendo queste questioni ci siamo gradualmente avvicinati ai temi che dovranno stare, e staranno senza dubbio al centro del nostro dibattito pre­congressuale, ai temi della linea politica del nostro partito, ai temi della linea politica del nostro partito e della sua applicazione, del modo come riteniamo che in Italia si pongano le questioni di trasformazione delle strutture economiche per la costruzione di una socie­tà socialista.

Non credo sia compito del Comitato centrale, allo inizio di un dibattito precongressuale, affermare senz’altro che la linea seguita dal partito sia stata giusta o non sia stata giusta. Questo è il problema che dobbiamo oggi porre davanti al partito e alla discussione del quale il partito deve dare il suo contributo.

A noi interessa che la discussione si svolga nel modo più libero possibile. A noi però incombe il compito di mettere bene in rilievo quali sono stati gli elementi della linea politica che abbiamo seguito, affinché il giudizio

che si possa dare sulla sua giustezza sia un giudizio fondato e seriamente investa le questioni che debbono essere trattate.

Quali sono dunque stati gli elementi fondamentali della nostra linea politica? Siamo partiti dalla analisi delle strutture economiche della

società italiana e della sua struttura politica. Questa analisi ci ha portati a individuare le forze motrici di una rivoluzione democratica e socialista

(e uso questi termini perché entrambi questi elementi hanno caratterizzato

il nostro movimento) nella classe operaia e nelle masse contadine con le quali deve stabilirsi una alleanza di classe e politica per la lotta contro le vecchie classi dirigenti capitalistiche. Particolarmente abbiamo individuato nelle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno condizioni oggettive, create dallo sviluppo storico del nostro paese, che danno un contenuto particolare a questa alleanza di classe e ne estendono l’ampiezza fino ad abbracciare in queste regioni più arretrate ampi gruppi

anche di piccola e media borghesia urbana. Il maggior contributo a questa analisi è stato dato dal compagno Gramsci e voi lo conoscete.

Dopo la dopo la guerra e dopo il crollo del fascismo si sono create condizioni nuove. E’ stata fatta una nuova grande esperienza; atti nuovi sono stati compiuti; le forze di classe si sono mosse in modo diverso e da tutto questo sono derivate conseguenze particolari, abbiamo quindi cercato, in relazione con lo sviluppo dei fatti, di arricchire la nostra analisi sia della struttura della nostra società, sia dei compiti della classe

operaia. La prima e la principale delle conseguenze che abbiamo ricavate da tutto ciò che avvenne sotto il fascismo e durante la guerra é stata la nuova affermazione della funzione nazionale della classe operaia e delle

masse lavoratrici più vicine ad essa, nel momento in cui le classi dirigenti capitalistiche rinunciavano alla loro posizione dirigente, e con la loro

politica portavano la nazione alla catastrofe. Tutta la nostra politica, in tutti i suoi atti, è sempre stata ispirata dal proposito di realizzare questa funzione nazionale della classe operaia, di renderla evidente, di dare una coerenza nazionale agli atti politici che il partito compirà in tutti i campi della sua attività.

Caduto il fascismo, si pose il problema di costruire una società nuova e, per la parte stessa che in quella caduta ebbero la classe operaia e le forze democratiche poterono essere conquistate alcune posizioni di valore fondamentale, punti di arrivo di un grande processo di rinnovamento che ad un certo momento venne arrestato, ma punti di partenza per la nostra azione successiva. Queste posizioni sono, essenzialmente, la Costituzione democratica e repubblicana dello Stato, i principi in essa affermati e quindi l’organizzazione di una democrazia la quale, se dovesse effettivamente corrispondere a ciò che la Costituzione dice, già sarebbe una democrazia di tipo nuovo, diverso non solo da tutto ciò che vi era in Italia prima del fascismo, ma diverso dalle democrazie capitalistiche di tipo tradizionale.

Di qui noi abbiamo derivato l’orientamento generale della nostra lotta politica, che è stata una lotta democratica per l’applicazione della Costituzione repubblicana nei suoi principi politici e nei suoi principi economici, per l’attuazione cioè, di quelle riforme che. in modo più o meno esplicito, essa indica. Linea politica, quindi, di conseguente sviluppo democratico e di sviluppo nella direzione del socialismo attraverso l’attuazione di riforme di struttura previste dalla Costituzione stessa.

Naturalmente, il seguire una linea di sviluppo democratico non poteva dire e non ha mai voluto dire, per noi, affermazione vuota della necessità di determinate riforme. Ha voluto dire lotta delle masse per le loro rivendicazioni immediate e per delle grandi riforme sociali; ha voluto dire lotta per la unità delle masse lavoratrici, e prima di tutto della classe operaia; ha voluto dire grande e continuo sforzo dei partiti della classe operaia per stringere sempre più ampie alleanze con tutti quegli strati della popolazione lavoratrice che possono e debbono essere interessati a una trasformazione profonda delle strutture della società.

Di qui è venuto il carattere positivo, costruttivo della nostra politica. Di qui il fatto che l’azione del nostro partito ha cercato di giungere sempre alla formulazione di obiettivi, vicini o lontani che dovevano essere raggiunti attraverso il movimento e la lotta delle masse sul terreno democratico e utilizzando tutti gli istituti della nostra democrazia. Questo abbiamo cercato di fare per quello che si riferisce agli interessi, alle rivendicazioni e ai compiti della classe operaia, delle classi contadine e di certe categorie del ceto medio. Questo abbiamo cercato di fare ponendo in modo nuovo anche se il partito non ha sempre compreso bene tutto ciò che lo si invitava a fare determinati problemi, come per esempio quello della emancipazione delle masse femminili, strumento importante per una conseguente trasformazione democratica della società italiana. Lo stesso per ciò che si riferisce ai problemi giovanili, della cultura e cosi via.

Se ci avviciniamo al campo specifico della organizzazione del partito, ci sono state nell’attività nostra cose nuove? Credo che cose nuove ci sono state, per lo meno nel proposito degli organi dirigenti del partito. Prima di tutto vi è stato il proposito di costruire un partito che per la propria composizione, per il numero dei suoi aderenti, per la propria struttura e per il suo modo di funzionare fosse in grado di adempiere a una funzione positiva costruttiva; fosse in grado non soltanto di fare della propaganda, della agitazione, di predicare i grandi principi, ma di dirigere giorno per giorno la classe operaia, le masse lavoratrici e la maggioranza della popolazione a comprendere e difendere i loro interessi e principalmente a difendere e consolidare il regime democratico e svilupparlo nella direzione di profonde riforme sociali.

A queste novità nella organizzazione del partito su cui non mi soffermo ma che potrebbero essere ampiamente illustrate, doveva unirsi un regime interno esso pure di carattere particolare, accentuatamente democratico, perché un partito il quale sia chiuso in se stesso, burocratizzato, nel quale prevalga la tendenza non a pensare, ma soltanto a comandare o a obbedire, non è in grado di stabilire un largo collegamento con le masse, quel collegamento che noi abbiamo sempre voluto che il partito stabilisse e che deve essere la caratteristica essenziale del nostro partito. Di qui una lotta continua per una democrazia interna del partito, per una forte attività e vivacità interna delle nostre organizzazioni, il che non può e non deve contraddire né alla disciplina, politica e di lavoro, né al metodo del centralismo democratico.

Arrivati a questo punto, però, bisogna dire che gli elementi costruttivi di una politica in coloro che l’hanno impostata e diretta non sono ancora la politica di un partito. Bisogna vedere come queste cose sono state attuate, come si sono realizzate, come il partito è stato guidato a realizzarle. La linea di cui ho esposto i capisaldi e che venne fissata e confermata ripetute volte nelle riunioni nazionali del partito, è stata compresa e realizzata cosi come avrebbe dovuto? Il Partito se ne è impadronito pienamente, giustamente e a tempo? Credo se ne sia impadronito a poco a poco e

soltanto in parte. Vi sono state, per lunghi periodi, larghe incomprensioni, riserve, lacune nella nostra attività. Vi sono state resistenze ad attuare gli indirizzi che venivano dati. La più grave di queste incomprensioni e riserve credo fosse quella che consisteva e non so se consista tuttora nel considerare che la nostra affermazione del carattere democratico della nostra lotta per la trasformazione della società italiana, fosse una specie di trucco, qualcosa che noi adoperavamo per ingannare il nemico o superare difficoltà, per non esporci a determinati colpi e non fosse invece l’anima vera di una politica la quale discendeva dalle grandi vittorie che la classe operaia già aveva ottenuto e, partendo da quelle vittorie, voleva e vuole spingere avanti tutta la società.

Di qui sono derivate parecchie difficoltà allo sviluppo del nostro partito, oltre che, naturalmente, dalla resistenza e dagli attacchi dell’avversario e dallo sviluppo stesso delle cose. Bisogna dire che il nostro partito ha acquistato una grande capacità di superare queste difficoltà con un grande lavoro pratico di organizzazione. Questo lavoro pratico di organizzazione non deve essere né disprezzato né svalutato. E’ elemento essenziale dell’attività di un grande partito comunista. Ricordiamoci di ciò che diceva Lenin e cioè che l’organizzazione è il «solo» strumento che la classe operaia ha nelle sue mani per poter battere l’avversario. Non si può però con un lavoro pratico di organizzazione sostituire una politica. Alla fine, se ci si riduce a un lavoro di organizzazione staccato da sempre nuove e ricche iniziative politiche, ci si trova di fronte a deficienze e insuccessi, non si riesce ad andare avanti come le condizioni oggettive renderebbero possibile.

[…]

Come dobbiamo ulteriormente sviluppare la linea del nostro partito? Dobbiamo continuare nella ricerca e attuazione di una via nostra, di una via italiana si sviluppo verso il socialismo. Ma vorrei correggere quei compagni i quali hanno detto – come se fosse senz’altro cosa pacifica – che via italiana di sviluppo verso il socialismo vuol dire via parlamentare e nulla più. Questo non è vero. Chi ha detto che «via italiana» voglia dire via parlamentare? Viaitaliana è una via di sviluppo verso il socialismo che tiene conto delle condizioni già realizzate e delle vittorie già conseguite. Siccome queste vittorie hanno creato una larga base di sviluppo democratico, la via italiana è una via la quale prevede uno sviluppo sul terreno democratico, di rafforzamento della democrazia e di sua evoluzione verso determinate, profonde riforme sociali. Se non si pone la questione in questo modo, se si fa una sommaria identificazione esteriore fra «via italiana» e «via parlamentare» si possono creare da un lato illusioni pericolose, mentre dall’altro si possono avere anche gravi delusioni. Il compagno che lavora nelle fabbriche, che sa quale è il peso del potere del padrone , il cittadino il quale è giunto a conoscere quale è la natura e quale il peso del potere delle classi dirigenti capitalistiche nella attuale società e dall’altra parte vede che cosa è oggi il nostro parlamento, può arrivare alla conclusione che per questa strada non si arriverà mai a un rivolgimento radicale. Bisogna dunque porre giustamente la questione.

La via seguita finora da seguita da noi è stata una via conseguentemente democratica. Nel lavorare e lottare su questa via abbiamo però incontratto aspre resistenze. Abbiamo dovuto combattere a denti stretti per difendere gli interessi dei lavoratori, la loro libertà e la loro vita, per strappare qualche miglioramento e qualche piccola riforma. In certi momenti si è persino posta la questione di dover combattere per salvare la legalità del nostro grande movimento, che qualcuno credeva di poter minacciare. Sapevamo che quelle erano vane illusioni di reazionari, ma erano vane illusioni perché eravamo forti e resistevamo e attorno a noi, nella lotta e anche nel sacrificio, si raccoglieva la grande massa dei lavoratori. L’utilizzazione del parlamento é una delle possibilità di sviluppo di una azione conseguentemente democratica per ottenere delle riforme di struttura. Perché questa possibilità possa realizzarsi occorrono però determinate condizioni. Occorre un parlamento che sia veramente specchio del paese, occorre un parlamento che funzioni e occorre un grande movimento popolare che faccia sorgere dal paese quelle esigenze che poi possano essere soddisfatte da un parlamento in cui le forze popolari abbiano ottenuto una rappresentanza abbastanza forte. Né è sufficiente, perché il parlamento sia specchio del paese, che ci sia una rappresentanza proporzionale. E’ necessario venga spezzato, e ampiamente spezzato, tutto quel sistema di costrizioni, di coercizioni, di intimidazioni, di terrorismo spirituale, cui si ricorrein misura sempre più larga per impedire che il votoparlamentare corrisponda al la coscienza e alle necessita delle masse lavoratrici che votano. Dobbiamo tener presente quello che diceva Lenin circa il carattere illusorio della democrazia borghese. Noi possiamo oggi mettere fine, in parte e anche in gran parte, a questo carattere, illusorio, possiamo cioè creare un terreno veramente democratico sul quale si possa vittoriosamente svolgere la lotta per il socialismo, così come prevedevano i classici del marxismo. Ma perché si crei questo terreno, perché esso terreno esista e sia ampio, anche per questo è necessaria una forte lotta delle masse, una larga azione nel paese. Dobbiamo poi riconoscere che il funzionamento del parlamento italiano, soprattutto da qualche anno in qua, è deficiente, limitato, tale che impedisce al parlamento di adempiere le funzioni che gli spettano. Il parlamento ogginon adempie quasi in nessun modo la funzione di controllo sugli atti del potere esecutivo . Questo vuol dire che anche di questo problema del funzionamento del parlamento dobbiamo farne oggetto di dibattito, di azione e di lotta nel paese. Infine per la efficace utilizzazione delle possibilità parlamentari ai fini di un rinnovamento democratico e socialista si richiede un grande movimento popolaredi massa da cui escano forti alle masse lavoratrici, capaci di esigere dal parlamento la soddisfazione delle richieste e rivendicazioni popolari.

Vorrei anche ricordare che. quando si tratta la questione di una via italiana verso il socialismo, bisogna evitare di credere che si tratti di un tema da risolversi a tavolino, attraverso la elaborazione di formule più o meno nuove, dovute alla acutezza e originalità dell’uno o dell’altro dirigente. Quel tanto che finora ci siamo aperto di «via italiana» è dovuto prima di tutto alla lotta delle masse popolari e quello che riusciremo ancora a conquistarci sarà il risultato di altre lotte e delle esperienze che faremo nel corso di esse. L’impegno democratico del partito è una premessa, così come è una inderogabile premessa il suo

impegno di essere sempre più strettamente legato alle condizioni e tradizioni del paese e del nostro movimento operaio.

Ma che cosa è particolarmente importante, oggi, per la determinazione della nostra linea politica? E’ importante la ricerca delle cose nuove, di quello che è cambiato, del modo come è cambiato e della situazione che si è creata in conseguenza di questi cambiamenti. Salutiamo tutte le ricerche del nuovo, pur mettendo in guardia contro gli schematismi e le astrattezze che alle volte si incontrano in questo campo. Non basta dire, per esempio, a un gruppo di compagni, che si sono perdute le elezioni nella tale fabbrica perché non si comprende che è in corso la seconda rivoluzione industriale. Siffatta affermazione generica non aiuta il compagno a capire.

Davanti ad essa il compagno si ritira in se stesso, non riesce alle volte nemmeno a comprendere quello di cui si parla e soprattutto quello che egli deve fare. La ricerca del nuovo deve essere sempre collegata con l’esame degli aspetti concreti e pratici del movimento delle classi, del movimento operaio e del nostro lavoro.(…)


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