Israele: due mesi di governo Netanyahu, tra proteste interne, derive autoritarie e repressione in Palestina

di Pietro Pasculli *

In circa 100 mila sono scesi in piazza sabato a Tel Aviv per la quinta settimana consecutiva di proteste contro i piani di revisione giudiziaria del nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu. L’ondata di proteste descritta dai manifestanti come una “lotta per il destino di Israele” ha colpito diversi centri del paese, innescata dal timore che le ampie modifiche giudiziarie proposte dal nuovo governo di estrema destra possano minare le norme democratiche del paese.

Il Primo Ministro israeliano dopo essere tornato in carica lo scorso dicembre ha accusato la Corte suprema israeliana di parzialità ed ha presentato un piano di revisione che mira a limitare i poteri della Corte, come la capacità di annullare leggi incostituzionali, ed affidando alla Knesset un maggiore controllo sulle nomine giudiziarie. La proposta, se approvata, impedirebbe così il potere di revisione giudiziaria della Corte, cambiando radicalmente l’equilibrio dei poteri tra il ramo giudiziario e quello legislativo.

Lo scorso 18 gennaio la Corte suprema israeliana con 10 voti favorevoli ad 1 aveva dato disposizione al Primo Ministro di rimuovere Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso sefardita Shas, dai ministeri del nuovo governo per motivi di “estrema irragionevolezza” e per le condanne accumulate. Netanyahu, anche lui con un processo in corso per corruzione, ha difeso Deri ed i piani di modifica giudiziaria. Nelle prossime settimane, infatti, la coalizione di governo discuterà della cosiddetta “legge Dery” che permetterebbe ad Arye Dery di tornare a ricoprire la sua carica di ministro, e di una proposta di emendamento che trasferirebbe la responsabilità del dipartimento di polizia dalla procura di Stato al ministro della Giustizia, arrivando così ad affidargli direttamente le indagini dei pubblici ministeri.

Intanto nella giornata di domenica un ragazzo palestinese di 14 anni è stato colpito a morte durante un’incursione dell’esercito israeliano a Jenin in Cisgiordania, mentre altri due palestinesi sono rimasti feriti. Sempre a Jenin lo scorso 26 gennaio le forze di occupazione israeliane avevano assassinato 11 palestinesi dopo un’irruzione nel campo profughi. Da inizio anno ci sono state 46 omicidi di palestinesi, al ritmo di circa un morto al giorno. L’offensiva israeliana in corso in Cisgiordania segna un’importante impennata di omicidi, che si sommano alle oltre 190 vittime palestinesi del 2022, rendendolo l’anno con più morti palestinesi della Cisgiordania dalla fine della Seconda Intifada nel 2005.

Il 2022 segnato da un inasprimento della repressione del governo di Tel Aviv potrebbe rivelarsi quindi solo un’anticipazione di un 2023, ancora più sanguinoso. La presenza nel nuovo governo Netanyahu di esponenti capofila del suprematismo ebraico e dell’estrema destra potrebbero aggravare la situazione in Palestina su diversi fronti, come l’aumento delle incursioni e l’annessione “de iure” di alcuni territori palestinesi, trasferendo le autorità chiave relative all’occupazione dal Ministero della Difesa alle autorità civili.

Inoltre, la decisione da parte del Presidente dell’Autorità palestinese (AP) Mahmoud Abbas di tagliare il coordinamento della sicurezza con Israele in risposta al massacro condotto dalle forze israeliane a Jenin, potrebbe scatenare ulteriori misure di ritorsione da parte di Israele in ambito non solo militare ma anche economico. Secondo i dati forniti dalla Commissione Economica e Sociale per l’Asia Occidentale (ESCWA) delle Nazioni Unite nel 2022, Israele ha negato ai palestinesi l’accesso alle loro risorse naturali, comprese le risorse idriche condivise con uno sfruttamento da parte di Israele del 90% delle risorse idriche transfrontaliere, ed una stima di 1,5 miliardi di barili di riserve petrolifere in Cisgiordania, oltre a più di 2,5 miliardi di dollari di gas naturale al largo della costa di Gaza.

Il sistema di apartheid di Israele sta sistematicamente privando l’economia palestinese di elementi vitali per il suo sano funzionamento ed aggravando le condizioni di vita dei palestinesi. Gli ultimi sviluppi nella politica israeliana rischiano di accelerare queste tendenze e sferrare un duro colpo all’economia palestinese, già segnata dal drastico calo degli aiuti internazionali nell’ultimo decennio e dal trattenimento da parte di Israele di miliardi di trasferimenti fiscali. Mentre i problemi economici in Cisgiordania sono cronici, i problemi di governance e la mancanza di elezioni presidenziali stanno indebolendo lentamente l’efficacia e la credibilità istituzionale dell’Autorità palestinese.

Nel frattempo il gabinetto di governo israeliano ha approvato domenica la legalizzazione di nove avamposti illegali di coloni in Cisgiordania, suscitando la reazione dell’AP che ha definito il provvedimento una “guerra aperta” contro i palestinesi. Attualmente si contano più di mezzo milione di israeliani che vivono in oltre 200 insediamenti costruiti su terre palestinesi e considerati illegali dalle leggi internazionali. Il ministero degli Esteri palestinese in un comunicato ha dichiarato come la legalizzazione delle colonie illegali superi “tutte le linee rosse”, minando ogni tentativo di riavvio del processo di pace.

Decine di leader e alti funzionari di Paesi arabi e islamici hanno avvertito che le azioni israeliane in Palestina potrebbero alzare il livello dello scontro interno e peggiorare le turbolenze regionali. Dal canto loro, i palestinesi continueranno a resistere con tutto ciò che hanno per proteggere le loro vite, i propri diritti e le loro proprietà.

* Gruppo di lavoro sul Medio Oriente della Sinistra Europea