Pubblichiamo la traduzione dell’intervento di Stefano Amann, dell’Area Esteri e Pace del PRC-SE, all’Università Estiva della Sinistra Europea (Aveiro-Portogallo 8-12 luglio 2022).
di Stefano Amann
Guardando al titolo di questo seminario, credo che la parola chiave sia “risposta”, perché essa sola ci chiama ad affrontare i problemi posti in qualità di agenti politici. Ci si aspetta da noi proposte fattibili ed efficaci. Oggi propongo quindi una breve analisi delle contraddizioni sociali, politiche ed economiche in cui la sinistra si trova attualmente ad operare. Personalmente ritengo che queste contraddizioni debbano essere incluse nella nostra analisi, soprattutto oggi in presenza della guerra e dell’attitudine dei governi a militarizzare la società, psicologicamente ancor prima che materialmente. Inoltre, vorrei più che altro fornire dubbi e porre domande e non risposte, perché di solito focalizzo la mia attenzione sulle criticità, piuttosto che su ciò che siamo già d’accordo. Per questo probabilmente il mio contributo sembrerà provocatorio, ma credo che questo sia il modo più efficace affinchè si possa imparare gli uni dagli altri.
Le politiche estere e militari sono storicamente strumenti delle politiche commerciali dei governi. Non c’è autonomia delle prime rispetto alle seconde. La politica commerciale è oggi diffusamente determinata dal modello imperialista neoliberale, che prevede un forte controllo dei flussi commerciali e affinchè le condizioni del mercato internazionale siano determinate dalla struttura dei costi e dalle catene del valore occidentali. Quando affrontiamo il problema della militarizzazione, dunque, non possiamo fare a meno di dire che essa solo permette al sistema economico europeo di sopravvivere. Ne consegue che qualsiasi proposta politica che affronti la necessità di contrastare la militarizzazione deve porsi come primo obiettivo il superamento dell’attuale sistema di sfruttamento.
Faccio un esempio semplice e provocatorio: avere a disposizione decine di tazzine di caffè al giorno al prezzo di un euro è un privilegio costruito intorno alle condizioni commerciali inique che il mondo occidentale ha imposto al resto del mondo; condizioni formalizzate in accordi neocoloniali che fanno leva sia sulla forza finanziaria sia, soprattutto, sulla forza militare basata sulla proiezione della forza. La tazzina di caffè è ovviamente un esempio banale, e stiamo parlando di un bene non essenziale; un bene peraltro poco elastico rispetto al prezzo. Ora sostituiamo nel nostro esempio il caffè con il gas naturale: tutto cambia e ci ritroviamo a parlare della guerra tra Russia e NATO. È dunque evidente quanto la consapevolezza dei meccanismi economici che regolano la vita dei cittadini europei possa essere la base di movimenti politici di sinistra di massa.
Quando ci troviamo di fronte a due fattori, la scarsità delle risorse e l’anelasticità della domanda, emergono inevitabilmente i conflitti. Fortunatamente la politica offre numerose vie di uscita e suggerisce di affrontare il problema scorporandolo nelle sue componenti essenziali e proponendo di conseguenza una serie di avanzamenti progressivi.
La geopolitica fornisce un immediato spunto di riflessione: oggi noi siamo spettatori di un decadente sistema internazionale che vede l’egemonia nordamericana ridursi sensibilmente di fronte all’ascesa di altre potenze che chiamiamo riluttanti e che sfidano l’ordine mondiale costruito dopo il 1945 e rilanciato dopo il 1989. Ad un ordine quasi unipolare si sta sostituendo un concerto multi polare, facendo tornare il baricentro del potere globale laddove è sempre stato, cioè in Asia. Siamo peraltro coscienti del fatto che questo shift of Power vedrà vincenti stati che in molti casi poco hanno a che fare con il socialismo, ma credo anche che in qualunque ordine mondiale fondato sull’equilibrio di potere sia preferibile alla nuova dottrina “Nato a 360°“ recentemente elaborata. Dovremmo quindi spingerci a favorire l’emersione e il successo di una borghesia euro nazionalista come premessa necessaria ad una successiva fase di democrazia internazionale basata su un equilibrio multi polare? È questa una domanda che preferisco lasciare aperta. Ma da più parti arrivano commenti autorevoli relativi al ruolo degli Stati europei nella guerra tra Russia e Ucraina; questi commenti sottolineano che laddove e qualora i maggiori Stati europei avessero la forza di perseguire integralmente il loro interesse nazionale e declinarlo sul livello europeo, forse potrebbero determinare le condizioni per la fine della guerra; è strano ma abbiamo assistito negli ultimi mesi ad una singolare convergenza tra alcuni settori della borghesia manifatturiera e ampie fasce di popolazione. In Italia, nonostante la propaganda e la narrazione del governo, la maggior parte del popolo è contro le sanzioni alla Russia ed è favorevole ad una soluzione diplomatica; questa è la forza a cui noi dobbiamo dare voce e supporto. Anche la Confindustria tedesca, per citare un esempio tra i molti, ha più volte espresso perplessità.
Un interessante dibattito attraversa da decenni la sinistra, un dibattito che recupera le teorie di Karl Schmitt – il famoso e famigerato filosofo tedesco – dandone una lettura da sinistra soprattutto come strumento di analisi della globalizzazione. Senza pretendere di esaminare l’intera opera di Schmitt, non può sfuggire la denuncia dell’utilizzo dell’universalismo idealista sul piano dei valori da parte del mondo occidentale, ed anglosassone in particolare. Senza per forza diventare seguaci di Schmidt, è sicuramente interessante dal punto di vista politico indagare e capire l’apparente sovrapposizione e convergenza tra destra e sinistra a proposito della critica alla globalizzazione; critica che a destra è intesa in senso esclusivista, razzista, etnicista, mentre a sinistra la critica parte, come abbiamo detto anche qui, da un’analisi economica. Ma diciamoci la verità: sul terreno della critica al liberismo la destra nazionalista è più efficace di noi. In un mondo profondamente segnato dalla competizione neoliberale in cui le crisi sociali sono la conseguenza diretta della libertà dei movimenti di capitale fisico e finanziario, nel mondo che sperimenta in larga parte la ricetta economica della svalutazione interna, la solidarietà internazionale mostra dei limiti. Non solo: sono le stesse basi semantiche del discorso “di sinistra“ a risultare talvolta perdenti di fronte alla semplificazione offerta dai populismi; con notevoli eccezioni come dimostrano le recenti elezioni francesi. Personalmente trovo estremamente significativo e preoccupante il fatto che le forze politiche europee di destra si stiano muovendo per intercettare il crescente malumore popolare dovuto alle conseguenze delle sanzioni alla Russia.
Naturalmente non sto suggerendo che la sinistra debba promuovere il ritorno a nuove forme di nazionalismo, ma ritengo che le dinamiche dell’odierno imperialismo nordamericano prevedono diversi piani di interesse per cui esiste una potenza egemone titolare della quota maggioritaria di potere e ricchezza attorno alla quale agiscono Stati e poteri economici multinazionali come moderni vassalli la cui fortuna dipende esclusivamente dalla fedeltà all’impero. Quindi sorge una domanda, sicuramente provocatoria, e cioè se sia un’opzione percorribile favorire una ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro globale con l’obiettivo di dare maggior forza all’Europa e dunque condurre alla disarticolazione dell’alleanza atlantica e della Nato e alla normalizzazione dei rapporti con i vicini naturali della penisola europea: il Mediterraneo, l’Africa e l’Asia. Se assumiamo che oggi la Nato è il maggior pericolo per la pace mondiale nonché il maggior fattore di destabilizzazione, militarizzazione e conseguente impoverimento sociale, allora dovremmo seriamente pensare ad ogni strategia politica per arrivare al superamento del legame Nord Atlantico.
Evidenziare con forza le conseguenze sulla classe operaia dovute sia alla politica di riarmo europea e della Nato sia alle sanzioni, è senza dubbio una delle vie maestre che la sinistra deve percorrere con convinzione. Probabilmente l’Europa dovrà intraprendere un nuovo percorso di emancipazione per porre le basi di un mondo più equilibrato e più democratico. Emancipazione che passa attraverso alcuni grandi elementi politici che potremmo brevemente elencare:
- Politica energetica.
- Politica alimentare.
- Approvvigionamento idrico.
- Approvvigionamento di materie prime.
Dal breve elenco emerge evidente un fatto piuttosto conosciuto e cioè che la sinistra deve confrontarsi con il grande tema delle conseguenze del cambiamento climatico. È opportuno che l’Europa si interroghi finalmente sulle conseguenze nefaste della globalizzazione che vede i popoli europei, apparentemente ricchi e prosperi, declinare lentamente a causa dei fattori geografici e della competizione internazionale che riduce anno dopo anno l’estrazione di valore aggiunto dalle attività economiche, oggi sottoposte ad una spietata concorrenza; concorrenza frutto del modello economico che l’Europa stessa ha contribuito ad esportare nel mondo. È dunque fondamentale per la sinistra europea battersi affinché le cause di destabilizzazione e conflittualità internazionale prima elencate si trasformino in fattori di prosperità. Obiettivo strategicamente raggiungibile solo riappropriandoci della proprietà pubblica. Solamente il ritorno alla piena sovranità popolare delle risorse e della loro organizzazione e gestione può garantire la pace che si costruisce e si forma prima di tutto nella coscienza collettiva dei popoli. Dico forse un fatto banale, ma sono pienamente convinto che qualunque tentativo di avvicinarci al socialismo debba necessariamente passare da una maturazione politica e sociale collettiva. Il processo di sedimentazione politica impone a noi agenti politici di far comprendere che la metaforica tazzina di caffè ad un euro è in effetti il frutto avvelenato di un sistema di sfruttamento non più accettabile. Senza tale consapevolezza la sinistra difficilmente può ottenere avanzamenti sociali significativi e duraturi.
Infine, vorrei proporre alcune riflessioni su alcune scelte di politica militare fatte in Italia e in altri Paesi europei. Il partito a cui appartengo ha sviluppato una riflessione solo apparentemente secondaria rispetto al dibattito generale sulla guerra, ma che in realtà raccoglie molti degli elementi qui discussi. Mi riferisco alla professionalizzazione delle forze armate.
Dopo il 1989, la professionalizzazione si è imposta immediatamente come piattaforma di proiezione militare e come standard industriale. La “capacità di proiezione” corrisponde a uno stato di guerra permanente, mentre lo “standard industriale” implica lo sviluppo di tecnologie militari avanzate, il rilancio della corsa agli armamenti e il salvataggio del fatturato dell’industria militare, entrato in crisi con la fine della guerra fredda.
In Italia la “necessità” di un esercito professionale reclutato esclusivamente su base volontaria ha iniziato a essere discussa all’inizio degli anni ’90. Si è assistito a una rapida transizione verso una nuova postura militare offensiva basata su volontari professionisti per ragioni sia tecniche sia legali.
L’esercito professionale trae la sua stessa ragion d’essere dall’essere impiegato come corpo di occupazione, in quanto il più adatto a svolgere questo compito.
La professionalizzazione ha vinto facilmente, in primo luogo perché prometteva di liberare i giovani dal servizio militare obbligatorio (salvo “imporlo” indirettamente ai disoccupati come unica possibilità di impiego); in secondo luogo perché questa “riforma” soddisfaceva sia il bisogno degli Stati Uniti di eserciti pronti a combattere, sia quello delle aziende del settore militare.
Un altro elemento rilevante è il caso degli ex soldati professionisti, la maggior parte dei quali viene assunta da società private di “sicurezza” che possono così assorbire personale “qualificato”. Non è un caso che queste società siano sempre più presenti nei teatri di guerra.
Inoltre, in un esercito professionale, il reclutamento è costituito quasi esclusivamente da disoccupati provenienti da aree economicamente depresse; i soldati fanno della guerra una professione con cui pagare i bisogni delle loro famiglie. Il “ricatto” sociale del soldato è l’ingrediente principale della professionalizzazione. Essa ha di fatto trasformato la truppa in un corpo sociale separato dalla società, e ciò costituisce peraltro una potenziale minaccia democratica.
Per tutte queste ragioni, la professionalizzazione come modello organizzativo delle Forze Armate dovrebbe essere abbandonata a favore di una coraggiosa riforma complessiva del settore ispirata a una più generale riorganizzazione della politica estera e al recupero della sovranità.
Oggi è sempre più evidente che le vere minacce sono il crescente caos climatico e le conseguenze ambientali del capitalismo. Di fronte a queste minacce, sarebbe opportuno che la logistica e l’organizzazione si convertissero a un nuovo concetto di difesa del territorio e dell’ambiente, che metta le Forze Armate in condizione di gestire le emergenze ricorrenti integrando l’azione degli altri organi dello Stato. Tale integrazione potrebbe produrre notevoli risparmi.
Il nuovo modello di difesa dovrebbe trattenere solo una parte dei giovani per il servizio militare e dovrebbe essere in grado di dirottarne la maggioranza verso il servizio civile.
Stiamo parlando di un esercito ‘dual use’, in cui lo sviluppo delle armi è esclusivamente finalizzato alla difesa.
La questione della riforma delle forze armate dovrebbe essere posta come punto costitutivo al pari della revisione dei Trattati di Maastricht e di Lisbona, cioè di tutte quelle questioni che hanno a che fare con il recupero della sovranità democratica.